Rider contro la Catastrofe

Dalla parte di fattorini e corrieri: Death Stranding e la logistica dell’apocalisse 

Il trailer d’annuncio di Death Stranding ha reso «I’ll Keep Coming» dei Low Roar uno dei simboli più ricorrenti nelle analisi sull’ultima opera videoludica di Hideo Kojima. Il testo della canzone, fortemente legato al concept del gioco, ci parla di una figura che avanza debolmente, affaticata eppure obbligata a proseguire, le cui parole non vengono sentite da chi si trova intorno. L’immagine evocata dal testo, unita alle caratteristiche ludiche e al concept del gioco, hanno permesso facili connessioni tra il protagonista di Death Stranding, un corriere indipendente di nome Sam Porter Bridges, e una delle categorie più vessate e al contempo discusse della nostra società: i riders. Oggi, mentre viviamo in quarantena e affrontiamo una crisi sanitaria con rari precedenti nella nostra storia, ulteriori livelli di lettura dell’opera di Kojima si disvelano agli occhi dei più interessati, ponendo nuovi quesiti e offrendo nuove prospettive. 

Death Stranding si ambienta, per dirla con Wikipedia, «in una versione post-apocalittica degli Stati Uniti d’America […] devastata da un evento noto come Death Stranding, che ha portato dalla Spiaggia, una dimensione che funge da collegamento con l’aldilà, creature note come “Creature Arenate” […] Solo i membri di una compagnia chiamata Bridges osano sfidare le attuali condizioni del mondo attraverso i loro corrieri, per portare alle persone rifornimenti e ciò di cui hanno bisogno, sfidando C.A., banditi (MULI) e terroristi per ristabilire qualche legame e rompere questo isolamento forzato». 

Innanzitutto, stupiscono alcuni elementi culturali che caratterizzano il mondo di gioco, soprattutto in relazione alle differenze con una realtà superficialmente così simile come la nostra. In Death Stranding, anche quando la sfiducia e la paura dominano sentimenti più positivi come la speranza, figure come i corrieri godono di un rispetto difficilmente scalfibile. Sam Porter Bridges non è un dipendente, non è un soldato e non è obbligato da nessuno a svolgere il suo lavoro, ma sceglie per amore e spirito di sacrificio di affrontare pericoli mortali: come il più comune dei riders, Sam corre il rischio carnale d’impresa, dato che nessun capitale verrebbe danneggiato in caso di errore, ma «solamente» il suo corpo. Se in Death Stranding i più umili dei fattorini si manifestano come elemento cardine dell’oramai straziato tessuto sociale, così i riders, i gig workers, i part timers e gli Ultimi stanno mostrando al mondo che se loro rimangono a casa, tutto si arresta. 

Ma il corriere, in Death Stranding, non serve solo come piattaforma logistica postapocalittica definitiva: è anche un raro (spesso esclusivo) veicolo di comunicazione con l’esterno, con la poca umanità rimasta. Il suo ruolo, granitico come un ideale (che in Sam matura nel tempo ma che è nel giocatore sin dall’inizio), è quello di connettere le piccole enclavi e i singoli soggetti sopravvissuti, unendoli in una miracolosa rete comunicativa, che funge al contempo da infrastruttura: dalla stampa 3D all’accesso alle informazioni condivise, tutto passa dal messaggio e dagli oggetti portati dai corrieri. 

Se però il messaggio di unità e speranza di Sam risulta coerente per tutta l’esperienza, unendo nello stesso obiettivo tutte le collettività integrate, è quasi certo che la nostra bolla social degli ultimi giorni ci abbia convinti di tutto e del contrario di tutto. Più che informare, si è deciso di soddisfare il bias di conferma di tutte le emotività possibili: su Repubblica, nello stesso giorno si scriveva di come Roma fosse disabitata e al contempo piena di vita. In Death Stranding, l’eroe è sia la ricercatrice che salva le vite, sia la persona che a queste vite dà un senso, uno scopo, le connette e le rende sociali. Forse, oltre a chi si sacrifica negli ospedali e nei servizi di cura, qualche parola andrebbe dunque spesa per quegli altri eroi: le cassiere, gli operai e i rider che ricevono paghe ridicole rispetto agli immensi rischi che corrono (e non solo dall’arrivo del virus). Forse, infine, se vedere qualcuno fare una corsa al parco scatena le fobie del vicinato, la semplice vista di ciclisti e piloti nelle strade dovrebbe scatenare, una volta tornati alla normalità, un immenso desiderio di giustizia verso queste categorie vessate (di nuovo, non da ora).

Purtroppo, la portata del messaggio di Sam si limita alle sole United Cities of America (UCA), che si sovrappongono quasi perfettamente al territorio degli odierni Stati Uniti, con confini chiari e netti nei confronti dei paesi vicini: Messico e Canada sembrano non esistere, come se fossero spariti o non interessanti. Un peccato, per un gioco dichiaratamente pensato per criticare l’uso di muri e confini. Se però in un videogioco si può facilmente ipotizzare un limite spaziale dovuto a esigenze di design (impossibile rendere infinita una mappa di quel tipo), lo stesso non si può dire della nostra realtà: mentre il virus ci intima di ragionare in ottica internazionale contro sfide sempre più globali, le urgenze economiche dei singoli gruppi di potere stanno continuamente dilaniando il già fragile tessuto europeo. Al tempo stesso, se i confini politici sembrano porre un limite all’azione delle soggettività resistenti in Death Stranding, così non è per quanto riguarda le tecnologie usate: nel gioco la «rete chirale», un incredibile strumento comunicativo e infrastrutturale, permette di abbattere questo genere di barriere, divenendo sempre più potente e diffusa a ogni piccola, minuscola comunità che decide liberamente di unirsi a essa. Se come scrive Keller Easterling in Extrastatecraft le infrastrutture globali odierne rappresentano il vero «sistema operativo globale, la liberazione risiede nell’hackerare questi software urbani»: in Death Stranding, ogni corriere porta con sé degli strumenti capaci di intervenire sull’ambiente e sui luoghi percorsi, creando nuove strade, ritrovi, punti di condivisione e di riposo. 

I giocatori, sin dalle prime settimane, hanno creato strade, ponti e teleferiche, e hanno ammassato tonnellate di risorse necessarie per i giocatori successivi, che hanno avuto vita più facile grazie alla spinta della collettività. Non esiste decoro urbano perché l’urbano non esiste più, e dunque la scelta se far rimanere o meno una struttura è lasciata totalmente ai giocatori: in funzione dei voti ricevuti e del volore della comunità, un ponte può essere abbattuto o riparato, senza che un solo proprietario ne decida tempi e modi dello sviluppo. 

Mi sono sentito solo in alcuni giorni di quarantena, mentre la sera passeggio con il cane, per strade i cui silenzi vengono interrotti solo dalle sirene della polizia e dal rumore dei motorini dei lavoratori di Just Eat o Social Food. Eppure, grazie alla connessione Internet, spesso entro sulla chat di Discord anche mentre passeggio, e trovo sempre qualche amico con cui scherzare, parlare, sfogarsi, cercare voci nel silenzio. Allo stesso modo, sebbene Death Stranding non sia un’esperienza multiplayer tradizionale, vedere gli oggetti lasciati dagli altri giocatori, le tracce del loro passaggio, ci fa capire di non star lottando da soli per la costruzione di un nuovo futuro, ma di essere parte di una collettività: graffiti virtuali di resistenze diffuse. Inoltre, è curioso ma calzante il rapporto tra il ruolo dei grandi centri di potere analizzati in Extrastatecraft e il peso del game designer in Death Stranding: Easterling spiega come le resistenze globali possono rubare le infrastrutture usate dal potere per aggirare burocrazie e leggi; il giocatore usa gli strumenti a lui concessi dal designer per costruire percorsi e modalità di gioco che modificano radicalmente level e game design. 

Come visto con la connessione collettiva che non riesce a superare gli anacronistici confini statali, non tutti i tratti culturali delle UCA si dimostrano però ottimali per superare il Death Stranding. L’individualismo imperante che caratterizza la nostra epoca interviene anche nel plasmare il mondo dell’opera di Kojima, vessato da terroristi fatalisti e nichilisti, e da accumulatori seriali schiavi del puro consumo. Non è un caso se, tra una consegna l’altra, Sam si diletta a pestare i «Muli», uomini oramai talmente asserviti al mito dell’accumulo in quanto tale che hanno dedicato il resto della loro vita a immagazzinare risorse che non useranno mai: quando qualcuno si fa scoprire mentre prova a rubare qualcosa dalle loro riserve, accorrono con urla e schiamazzi, rischiando la vita per proteggere il nulla. Ovviamente un’immagine simile, patetica quanto realistica, non può che ricordarci i barbari acquirenti seriali di bottigliette di Amuchina e mascherine. 

Se poi in Death Stranding è un caso fortuito che l’aptofobia del protagonista si sovrapponga così facilmente al rifiuto istituzionalizzato del contatto che ci accomuna in queste ore, pare invece voluto il ribaltamento valoriale del tempo nel rapporto tra «cliente» e «corriere». Quando ci si rivolge a piattaforme come Just Eat, Helping o Fiverr, ciò che si chiede non è un servizio, dato che la teorica competenza richiesta è nulla (il classico «compito che può fare chiunque»): piuttosto, per dirla con Silvio Lorusso, «si compra un supplemento di tempo libero dagli altri». Il rider o il free lancer sono clessidre agli occhi di chi accumula più potere, che pur di non perderlo delega ad altri quelle che un tempo erano quotidianità: la spesa, la preparazione del cibo, la pulizia della casa, ecc. In tal modo, spinge coloro che dovrebbero sostituirlo ancora più in basso: oggi il mondo del gig workers è costituito anche da laureati, artisti, pasticcieri, operatori sanitari e molto altro. 

In Death Stranding, al contrario, è il cliente che deve attendere i tempi e i modi del corriere. Certo, ci sono ricompense maggiori per chi rispetta certi standard, e alcune missioni sono a tempo giusto per dare un po’ di varietà all’esperienza, ma generalmente possiamo accettare molti obiettivi e affrontarli a nostro piacimento, oppure possiamo recuperare con tutta calma oggetti vari da consegnare più avanti. Oltre agli orrori sovrannaturali e alla violenza dei gruppi umani citati prima, in Death Stranding esiste poi un altro pericolo, forse persino più letale e atroce degli altri, che rende ancora più evidente il ribaltamento situazionale tra cliente e corriere: la Cronopioggia. Infatti, la pioggia del mondo ideato da Kojima fa invecchiare velocemente chiunque ne venga toccato: animali, persone e oggetti subiscono processi di decadimento cellulare rapidissimi, e la morte (per gli organismi) giunge quasi istantanamente. Terrorizzati dunque dalla perdita del loro tempo, i clienti, rintanati nei bunker in cui cercano di sopravvivere, chiedono ai corriere di svolgere per loro certi compiti, una volta banali e scontati e oggi invece assolutamente vitali. I corrieri, invece, rischiano la vita per portare a compimento la missione, ma la loro libertà di manovra e la loro posizione culturale e di potere è totalmente ribaltata rispetto alla nostra realtà: sono i gig workers che oggi vivono in dei bunker invisibili, costretti a inseguire dei tempi ridicoli senza alcuna garanzia, vendendo il loro tempo in uno scambio che non ha alcuna produttività sociale. 

La prestazione e la valutazione del rider, invece, caratterizzano sia  la realtà contemporanea che la finzione di Death Stranding, come dimostrano gli indicatori di fine missione relativi al tempo impiegato, alla condizione del prodotto e in generale alla qualità del servizio. Come detto prima, le missioni si possono gestire con enorme libertà rispetto a quanto richiesto da un normale compito da corriere, ma le tradizioni prestazionali del settore videoludico hanno allevato generazioni particolarmente interessate a essere giudicate e valutate dal gioco, e quindi seguire tutti gli standard suggeriti dall’interfaccia permette di ottenere buoni voti e valutazioni. Incapace di abbandonare del tutto il giudizio sulla prestazione, il designer giapponese sfrutta intelligentemente questo suo vezzo stilistico (il voto era presente anche nell’ultimo Metal Gear Solid, per fare un esempio) per riprodurre sistemi di valutazione in realtà coerenti con il tema scelto. Il paradosso è infatti che un sistema d’incentivo (e al contempo controllo) del dipendente, ideato originariamente da parte delle aziende sulla scia della gamification (e oggi adottato anche da realtà come Amazon), diventa poi un elemento utilizzato in un videogioco per criticarne l’uso sulle persone nel mondo reale, e soprattutto per mettere in mostra la pochezza umana della cosa: affrontare sparatorie, cronopioggie e letteralmente l’oltretomba per poi ricevere 4 stelle perché la custodia è ammaccata rende il tutto talmente ridicolo e assurdo da non poter lasciare indifferenti, soprattutto quando si pensa all’utilizzo di sistemi simili nella realtà. In tal senso, più asciutto ma più concreto, aveva detto molto l’ottimo The Uber Game. 

Sebbene apparentemente Death Stranding sembri offrire una riproduzione particolarmente fedele della contemporaneità, in realtà l’opera di Kojima pare in grado di offrire prospettive diverse sul come affrontare davvero collettivamente situazioni emergenziali come quella odierna, o apocalittiche come quella della finzione. Secondo Death Stranding, e forse secondo Kojima, impegnarsi collettivamente non significa segnalare alle autorità i soggetti con meno potere che commettono un errore individuale, ma cercare di redistribuire i poteri maggiori, intervenendo sui problemi più strutturali – il tutto, colpendo qualche Mulo di qua e di là.