Reset

Cronaca della psicodeflazione, parte seconda

Leggi la prima parte del «diario della pandemia» di Bifo qui.

15 marzo

Nel silenzio del mattino i piccioni perplessi guardano giù dai tetti della chiesa e sembrano attoniti. Non riescono a spiegarsi il deserto urbano. 

Neanch’io.

Leggo le bozze di Offline di Jess Henderson, un libro che uscirà fra qualche mese (insomma, dovrebbe uscire, poi si vedrà). La parola «offline» acquista un rilievo filosofico: è un modo per definire la dimensione fisica del reale in opposizione, anzi in sottrazione rispetto alla dimensione virtuale.

Rifletto sul modo in cui sta mutando il rapporto tra offline e online durante il diffondersi della pandemia. E provo a immaginare il dopo.

Negli ultimi trent’anni l’attività umana ha cambiato profondamente la sua natura relazionale, prossemica, cognitiva: un numero crescente di interazioni si è spostato dalla dimensione fisica, congiuntiva – in cui gli scambi linguistici sono imprecisi e ambigui (e quindi infinitamente interpretabili), in cui l’azione produttiva impegna energie fisiche, e i corpi si sfiorano e toccano in un flusso di congiunzioni – alla dimensione connettiva, nella quale le operazioni linguistiche sono mediate da macchine informatiche, e quindi rispondono a formati digitali, l’attività produttiva è parzialmente mediata da automatismi, e le persone interagiscono sempre più densamente senza che i loro corpi si incontrino. L’esistenza  quotidiana delle popolazioni è stata sempre più concatenata da congegni elettronici correlati a enormi masse di dati. La persuasione è stata sostituita dalla pervasione, la psicosfera innervata dai flussi dell’infosfera. La connessione presuppone un’esattezza glabra, senza peli e senza polvere, un’esattezza che i virus informatici possono interrompere, deviare, ma che non conosce l’ambiguità dei corpi fisici né gode dell’inesattezza come possibilità.

Ora ecco che un agente biologico si introduce nel continuum sociale facendolo implodere, e costringendolo all’inattività. La congiunzione, la cui sfera è stata largamente ridotta dalle tecnologie connettive, è la causa del contagio. Congiungersi nello spazio fisico è diventato il pericolo assoluto, cui bisogna sfuggire a tutti i costi. La congiunzione va attivamente impedita.

Non uscire di casa, non andare a trovare gli amici, mantenere distanza di due metri, non toccare nessuno per strada…

Ecco allora che si verifica (è la nostra esperienza di queste settimane) un’enorme espansione del tempo vissuto online, né potrebbe essere altrimenti perché le relazioni affettive, produttive, educative debbono essere trasferite nella sfera in cui non ci si tocca e non ci si congiunge. Non vi è più alcun sociale che non sia puramente connettivo.

Ma poi? Cosa accadrà dopo?

E se il sovraccarico di connessione finisse per rompere l’incantesimo?

Voglio dire: prima o poi l’epidemia svanisce (ammesso che questo accada, magari in Italia il 25 aprile); non saremo forse condotti a identificare psicologicamente la vita online con la malattia? Non esploderà forse un movimento spontaneo di accarezzamento che indurrà una parte consistente della popolazione giovane a chiudere gli schermi connettivi come ricordo di un periodo disgraziato e solitario?

Non mi prendo troppo sul serio, ma ci penso.

16 marzo

La Terra si sta ribellando contro il mondo. L’inquinamento diminuisce in maniera evidente. Lo dicono i satelliti che mandano foto della Cina e della Padania del tutto diverse da quelle che mandavano due mesi fa, ma lo dicono anche i miei polmoni che non respiravano così bene da dieci anni – da quando mi venne diagnosticata un’asma severa dovuta per gran parte all’aria della città.

17 marzo

Il crollo delle borse è talmente grave e persistente che non fa più notizia. 

Il sistema borsistico è diventato la rappresentazione di una realtà scomparsa: l’economia dell’offerta e quella della domanda sono sconvolte e rimarranno a lungo indifferenti alla quantità di denaro virtuale che circola nel sistema finanziario. Ma ciò vuol dire che il sistema finanziario sta perdendo la sua presa: nel passato le fluttuazioni matematiche determinavano la quantità di ricchezza cui ciascuno poteva avere accesso. Ora non determinano più niente. 

Ora la ricchezza non dipende più dal denaro di cui disponiamo, ma da quello che appartiene alla nostra vita mentale.

Dobbiamo ragionare su questa sospensione del funzionamento del denaro, perché forse qui sta la chiave di volta per uscire dalla forma capitalistica: rompere definitivamente il rapporto tra lavoro, denaro e accesso alle risorse.

Affermare una diversa concezione della ricchezza: ricchezza non è la quantità di equivalente monetario di cui dispongo, ma la qualità di vita che posso esperire. 

L’economia entra in una fase recessiva, ma questa volta non servono a molto le politiche di sostegno all’offerta, e neppure quelle di sostegno alla domanda. Se la gente ha paura di andare a lavorare, se la gente muore, non si può rilanciare nessuna offerta. E se stiamo chiusi in casa non si può rilanciare nessuna domanda. 

Un mese, due mesi, tre mesi… Bastano per bloccare la macchina, e questo blocco avrà effetti irreversibili. Chi parla di ritorno alla normalità, chi pensa di poter riattivare la macchina come se niente fosse accaduto non ha capito bene cosa sta succedendo. 

Si tratterà di inventare tutto da capo, perché la macchina riprenda a funzionare. E noi dobbiamo essere là, pronti a impedire che riprenda a funzionare come ha funzionato negli ultimi trent’anni: la religione del mercato e il liberismo privatista sono da considerare come crimini ideologici. Gli economisti che da trent’anni ci promettono che la cura per ogni malattia sociale è il taglio della spesa pubblica e la privatizzazione andranno socialmente isolati; se provano ad aprire nuovamente bocca, andranno trattati per quello che sono: degli idioti pericolosi. 

Nelle ultime due settimane ho letto Cara de pan di Sara Mesa, Lectura facil di

Cristina Morales, e il raggelante Chanson douce dell’orribile Leila Slimani. Adesso sto leggendo una scrittrice azera che racconta di Baku all’inizio del Novecento, le ricchezze improvvise accumulate col petrolio, e la sua famiglia ricchissima cui la rivoluzione sovietica toglie ogni proprietà. 

Quest’anno, più per caso che per scelta, ho letto soltanto scrittrici, a cominciare dal romanzo meraviglioso di Djevani che si chiama Disorientale, una storia di esilio e di violenza islamista, di solitudine e di nostalgia.

Però adesso basta con le donne e con i drammi dell’umanità che ne avrei abbastanza. 

E allora sono andato a tirare fuori un libro rilassante, che è l’Orlando Furioso letto da Italo Calvino. Quando insegnavo lo consigliavo sempre ai ragazzi, e gliene leggevo qualche capitolo. L’ho già letto dieci volte, ma lo rileggo volentieri. 

I ragazzi a un certo punto si incazzano e fanno un’alleanza con Gea, la divinità che protegge il pianeta Terra. Insieme lanciano una mattanza di avvertimento, e i vecchi cominciano a morire come mosche. Finalmente tutto si ferma. E dopo un mese i satelliti fotografano una terra molto diversa da come era prima della gerontomachia.

18 marzo 

Qualche anno fa, col mio amico Max (e su ispirazione del mio amico Mago), ho pubblicato un romanzo che non sapevamo come chiamare. A noi piaceva il titolo KS, oppure anche il titolo Gerontomachia. Ma l’editore che pubblicò il libro (dopo che molti lo avevano comprensibilmente rifiutato) impose un titolo abbastanza brutto ma certamente più popolare: Morte ai vecchi. Il libro vendette pochissimo ma raccontava una storia che adesso mi pare interessante. Scoppia una specie di epidemia inspiegabile: ragazzini di tredici-quattordici anni ammazzano i vecchi, dapprima alcuni casi isolati poi sempre più frequenti, poi dovunque. Vi risparmio i dettagli e i misteri tecnico-mistici della storia. Fatto sta che i giovani ammazzavano i vecchi perché ammorbavano l’aria con le loro tristezze.

Stanotte mi è venuto in mente che tutta questa storia del coronavirus si potrebbe metaforicamente leggere così: il 15 marzo dell’anno scorso scesero in piazza a milioni ragazze e ragazzi gridando: ci avete fatto nascere in un mondo dove non si può respirare, ci avete appestato l’atmosfera, piantatela, riducete il consumo di petrolio e di carbone, riducete le polveri sottili. Forse speravano che i potenti del mondo avrebbero ascoltato le loro implorazioni. Ma come sappiamo sono rimasti delusi: il summit di Madrid di dicembre, l’ultimo degli innumerevoli appuntamenti internazionali in cui si discute di riduzione del cambiamento climatico, è stato solo l’ennesimo fallimento. L’emissione di sostanze tossiche non è affatto diminuita nell’ultimo decennio, il riscaldamento globale è proceduto allegramente. Le grandi corporation del petrolio, del carbone e della plastica non intendono smettere. E allora i ragazzi a un certo punto si incazzano e fanno un’alleanza con Gea, la divinità che protegge il pianeta Terra. Insieme lanciano una mattanza di avvertimento, e i vecchi cominciano a morire come mosche. 

Finalmente tutto si ferma. E dopo un mese i satelliti fotografano una terra molto diversa da come era prima della gerontomachia.

19 marzo

Non avendo la televisione seguo gli eventi su internet: CNN, The Guardian, Al Jazeera, El pais… Poi all’ora di pranzo ascolto le notizie di Radio Popolare.

Il mondo è scomparso dall’informazione, c’è solo il coronavirus. Oggi al radiogiornale non c’era neppure una notizia che non riguardasse l’epidemia. Un amico di Barcellona mi racconta di aver parlato con un redattore della televisione nazionale spagnola: sembra che quando mandano notizie su qualcosa che non è il contagio, la gente telefona inviperita, e qualcuno insinua che stiano nascondendo qualcosa…

Capisco la necessità di tenere l’attenzione del pubblico concentrata sulle misure di prevenzione, capisco che occorre ripetere cento volte al giorno restate a casa. Ma questo trattamento mediatico ha un effetto ansiogeno di cui non c’è affatto bisogno; inoltre è diventato quasi impossibile sapere cosa accade nella Siria del Nord. A Idlib qualche giorno fa sono state bombardate otto scuole in un solo giorno.  

E alla frontiera greco-turca cosa sta succedendo?  E nel Mediterraneo non ci sono più barche piene di africani che rischiano di affondare o che vengono fermati e rispediti nei campi di concentramento libici? Ci sono, ci sono: anzi, per essere precisi proprio ieri sono riuscito a trovare la notizia di una barca con centoquaranta persone a bordo che la guardia costiera maltese ha rimandato indietro.

Per conoscenza ecco un elenco parziale, dal 1 marzo ad oggi, di quel che accade nel mondo, oltre all’epidemia. Dal sito di PeaceLink trascrivo i conflitti armati che non si sono fermati in queste ultime tre settimane, mentre noi credevamo che nessuno potesse uscire di casa:

Libia: violenti scontri scoppiano in tutto il nord mentre le forze dell’Esercito Nazionale Libico (LNA) tentano di avanzare. Libia: le forze di Haftar bombardano due scuole a Tripoli. Repubblica Democratica del Congo: almeno 17 morti in scontri con le Forze Democratiche Alleate (ADF) a Beni. Somalia: cinque membri al-Shabaab uccisi in un singolo attacco aereo USA. Nigeria: sei morti in attacco di Boko Haram sulla base militare a Damboa. Afghanistan: talebani e forze afghane si scontrano nella provincia di Balkh. Thailandia: un soldato ucciso e altri 2 feriti in scontri con i militanti nel sud. Indonesia: quattro ribelli dell’Esercito di Liberazione Papua Occidentale (WPLA) uccisi in scontri con le forze di sicurezza nella regione di Papua. Yemen: 11 morti in scontri tra ribelli Houthi ed esercito yemenita a Taiz. Yemen: 14 ribelli Houthi uccisi in scontri con le forze governative yemenite nella provincia di Al-Hudaydah. Turchia: caccia turco abbatte aereo da guerra siriano sopra Idlib. Siria: 19 soldati siriani uccisi in attacchi drone turchi

Un amico mi ha mandato il filmato di una fila di camion militari a Bergamo. 

È notte, procedono lentamente. Portano al crematorio una sessantina di bare.

20 marzo

Mi sveglio, mi faccio la barba, prendo le pillole per l’ipertensione, accendo la radio… Merda… La musichetta dell’inno nazionale. Spiegatemi cosa c’entrano gli inni nazionali in questa occasione.

Perché risuscitare l’orgoglio nazionale? Quell’inno ha guidato i soldati a Caporetto, dove sono morti in centomila.

Ho spento la radio e mi sono fatto la barba in silenzio. Di tomba.

Jun Hirose è un amico giapponese che scrive libri sul cinema. Nelle ultime settimane ha viaggiato per presentare l’edizione spagnola del suo libro Cine-Capital. Tornando da Buenos Aires pensava di fermarsi a Madrid e a Bologna, dove io e Billi lo stavamo aspettando. È una persona molto piacevole e spiritosa, e ospitarlo qualche giorno è un piacere, ogni volta che passa in Italia, circa una volta ogni anno.

Quando è arrivato a Madrid il contagio stava esplodendo in città, così è stato costretto a fermarsi là, dove è ospite di un altro amico carissimo, Amador Savater. Così adesso passano il tempo insieme, e io invidio un po’ Amador perché Jun è anche un ottimo cuoco e mi piace la cucina giapponese. La notte fanno un po’ di cineforum, e qualche sera fa hanno visto La Cosa di Carpenter, un film che casca proprio a pennello. Poi Amador ha scritto un articolo che ho letto sulla rivista argentina Lobosuelto. Scrive Amador: «La Cosa è un’occasione per il pensiero. Dobbiamo pensare l’epidemia come un’interruzione. Un’interruzione degli automatismi degli stereotipi, e di quel che diamo per scontato: la salute, il sistema sanitario, le città il cibo i legami e le preoccupazioni di ogni giorno occorre ripensarli da capo».

Quando finirà la quarantena – se finirà, e non è detto che finirà – allora saremo in una specie di deserto delle regole, ma anche in una specie di deserto degli automatismi.

La volontà umana riconquisterà allora un ruolo non certo dominante rispetto al caso (la volontà umana non è mai stata determinante, come il virus ci insegna), ma significativo. Potremo riscrivere le regole e rompere gli automatismi. Ma ciò non accadrà pacificamente, questo è bene saperlo.

Quali forme assumerà il conflitto non possiamo prevederlo, ma dobbiamo metterci a immaginarlo. Chi immagina per primo vince – questa è la legge universale della Storia. 

Almeno credo.

21 marzo

Stanchezza, debolezza fisica, leggera difficoltà respiratoria. Non è una novità, mi succede spesso. È colpa delle pillole contro l’ipertensione e anche colpa dell’asma, che nell’ultimo mese è stata gentile con me, forse perché non vuole spaventarmi con sintomi ambigui.

Giornata di sole dolce e cielo limpido in questo splendido primo giorno di primavera.

Mi scrive un’amica da Buenos Aires:

«llegó el terror,
se huele desde la ventana
contundente como una flor cualquiera.»

22 marzo

Il vicepresidente della Croce Rossa cinese, Yang Huichuan, è arrivato in Italia, accompagnato dai medici Liang Zongan e Xiao Ning, rispettivamente professore di medicina polmonare all’ospedale di Sichuan e vicedirettore del centro nazionale per la prevenzione. Da Cuba sono arrivati cinquantotto medici esperti in malattie infettive.

Pochi giorni fa il Ministro dell’economia tedesco, Peter Altmaier, ha risposto a una richiesta di Trump escludendo la possibilità della cessione dei diritti esclusivi sullo sviluppo di un vaccino per il coronavirus studiato da una società privata di Tubinga. Secondo le anticipazioni pubblicate ieri da Die Welt, gli Stati Uniti avevano proposto alla società farmaceutica tedesca CureVac, che sta sviluppando il vaccino, la cifra di un miliardo di dollari per acquisire il diritto a industrializzare e quindi a vendere in via esclusiva il prodotto una volta disponibile e conclusi i test. 

In esclusiva. America First. Nel paese di Trump negli ultimi giorni si stanno moltiplicando le file davanti ai negozi che vendono armi. Oltre al whisky e alla carta igienica, comprano armi. Disciplinatamente tengono la distanza regolamentare di un metro, così che le file si perdono all’orizzonte.

Nel frattempo il Partito democratico sconfigge Sanders e uccide la speranza che si possa cambiare il modello che ha ridotto la vita così.

E l’81% dei repubblicani continua a sostenere la belva bionda Trump.

Non so cosa succederà dopo la fine del flagello, però una cosa mi sembra di vederla distintamente: l’umanità intera svilupperà nei confronti del popolo americano lo stesso sentimento che si diffuse dopo il 1945 nei confronti del popolo tedesco – nemici dell’umanità.

Era sbagliato allora, perché molti tedeschi antinazisti erano stati perseguitati, uccisi, esiliati; ed è sbagliato adesso, perché milioni di giovani americani hanno sostenuto il candidato socialista alla presidenza fin quando naturalmente non è stato eliminato dalla macchina del denaro e dei media.

Ma poco importa se è giusto o sbagliato. Non è una questione politica: l’orrore non si decide razionalmente, si prova senza volerlo. Orrore per quella nazione nata dal genocidio, dalla deportazione e dallo schiavismo.

Non so se usciremo vivi da questa tempesta, ma in quel caso la parola «privatizzazione» andrà catalogata nello stesso registro in cui si trova la parola «endlosung».

23 marzo

Il medico che si è occupato per quindici anni delle mie orecchie è un professionista di straordinaria acutezza diagnostica ed è anche un eccezionale chirurgo: mi ha operato sei volte in dieci anni, e ogni operazione ha avuto un esito impeccabile, permettendomi di prolungare per quindici anni la mia capacità uditiva. Qualche anno fa decise di abbandonare l’ospedale pubblico in cui operava, e da quel momento sono dovuto andare in una clinica privata per potermi avvalere della sua bravura. Poiché io non capivo perché avesse preso quella decisione, mi disse senza tante storie: il sistema pubblico è prossimo allo sfascio a causa dei tagli dovuti alla situazione finanziaria.

Ecco perché il sistema sanitario italiano è allo stremo, ecco perché il dieci per cento dei medici e paramedici ha contratto l’infezione, ecco perché i reparti di terapia intensiva non bastano per curare tutti i malati. Perché coloro che hanno governato negli ultimi decenni hanno seguito i consigli di criminali ideologici come Giavazzi, Alesina e compagnia. Questi farabutti continueranno a scrivere i loro editoriali? Se il coronavirus ci ha costretto ad accettare gli arresti domiciliari per l’intera popolazione è troppo chiedere che a quegli individui venga impedito l’accesso alla parola pubblica? 

Non so se usciremo vivi da questa tempesta, ma in quel caso la parola «privatizzazione» andrà catalogata nello stesso registro in cui si trova la parola «endlosung»

La devastazione prodotta da questa crisi non va calcolata nei termini dell’economia finanziaria. Dovremo valutare i danni e i bisogni sulla base di un criterio dell’utilità. Non dovremo porci il problema di far quadrare i conti del sistema finanziario, ma dovremo proporci di garantire a ciascuna persona le cose utili di cui tutti abbiamo bisogno. 

C’è qualcuno a cui questa logica non piace perché gli ricorda il comunismo? Ebbene, se non ci sono parole più moderne useremo ancora quella, forse antica ma sempre molto bella.

Dove troveremo i mezzi per affrontare la devastazione? Nei forzieri della famiglia Benetton, per esempio, nei forzieri di chi ha approfittato di politici servili per appropriarsi dei beni pubblici trasformandoli in strumenti di arricchimento privato, e lasciandoli decadere fino al punto da ammazzare quaranta persone che transitano su un ponte genovese.

Nella rivista Psychiatry On Line Luigi d’Elia ha scritto un articolo che si chiama «La pandemia è come un Trattamento Sanitario Obbligatorio collettivo». Consiglio caldamente di andarselo a leggere, e mi limito a una breve sintesi. 

Il TSO si pratica quando le condizioni psichiche di una persona la rendono pericolosa per sé o per gli altri, ma ogni psichiatra intelligente sa bene che non è una terapia consigliabile, anzi non è proprio una terapia. D’Elia consiglia a tutti noi che stiamo in reclusione di trasformare l’attuale condizione obbligatoriamente preventiva in una condizione attivamente terapeutica, passando dal TSO al TSV (trattamento sanitario volontario); diciamo pure che dovremmo trasformare il nostro stato di necessaria detenzione in un processo di autoanalisi aperto all’autoanalisi di altre persone. 

Credo che questo sia il suggerimento non solo psicologicamente più acuto, ma anche politicamente più lungimirante che ho letto fino ad ora. Trasformiamo la condizione detentiva in un’assemblea di autoanalisi di massa.  D’Elia suggerisce qualcosa di più preciso: oggetto della cura analitica deve essere essenzialmente la paura. «La paura, se ben focalizzata, è il principale motore del cambiamento. Jung lo dice chiaramente: “dove c’è paura, lì c’è il compito”» scrive.

Quale oggetto ha la paura?

Ne ha più d’uno: paura della malattia, paura della noia, e paura di quel che sarà il mondo quando usciremo di casa. 

Ma poiché la paura è un motore di cambiamento, quel che dobbiamo fare è creare le condizioni perché il cambiamento sia cosciente.

La noia può essere elaborata in maniera psicologicamente utile, perché come dice ancora d’Elia «la noia non è l’apatia. L’apatia è rassegnazione nell’impotenza, è calma piatta, inerzia. La noia è inquietudine, è interiormente vitalissima, è insoddisfazione, irrequietezza. La noia sbraita: non è qui che dovrei trovarmi, non è questo nulla che ho da fare! Devo stare altrove a fare ben altro!».

Quattordici paesi europei su ventisei hanno deciso di chiudere le frontiere. Cosa resta dell’Unione? Quel che resta dell’Unione è l’Eurogruppo che si è riunito oggi per discutere delle misure da prendere per fronteggiare il collasso prevedibile dell’economia europea.

Due tesi si fronteggiano: quella dei paesi più colpiti dal virus, che chiedono di rendere possibili interventi di spesa non vincolati dal criminale patto fiscale fondato sulla parità di bilancio che l’improvvido ceto politico italiano ha costituzionalizzato. 

Olandesi tedeschi e altri fanatici rispondono che no, si può spendere ma solo a patto di fare le riforme. Cioè? Ad esempio la riforma del sistema sanitario, che riduca ulteriormente i reparti di terapia intensiva, e i salari per i lavoratori ospedalieri?

Il fanatico più fanatico di tutti mi pare sia questo funereo Dombrovskis che dovrebbe cercarsi un impiego presso un ufficio delle pompe funebri, visto che ha le physique du role e si tratta di un settore di cui, grazie a quelli come lui, c’è sempre più bisogno.

Non dovremo tornare mai più alla normalità. La normalità è quella che ha reso l’organismo planetario così fragile da aprire la strada alla pandemia, tanto per cominciare.

24 marzo

Mentre in Italia la Confindustria si oppone alla chiusura delle aziende non essenziali, cioè alla mobilitazione quotidiana di milioni di persone costrette ad esporsi al pericolo di infezione, la questione che sta emergendo è quella degli effetti economici della pandemia. Sulla prima pagina del New York Times un editoriale di Thomas Friedman porta il titolo, eloquentissimo, «Get America back to work – and fast».

Non si è ancora fermato niente, ma già i fanatici si preoccupano di fare presto, di tornare presto a lavorare, e soprattutto di tornare a lavorare come prima.

Friedman (e la Confindustria) hanno dalla parte loro un ottimo argomento: un blocco prolungato delle attività produttive porterà a conseguenze inimmaginabili dal punto di vista economico, organizzativo, e anche politico. Tutti i peggiori scenari si possono realizzare in una situazione in cui le merci cominciano a scarseggiare, in cui la disoccupazione dilaga, e così via.

Dunque l’argomento di Friedman va considerato con dovuta accortezza, e poi accortamente scartato. Perché? Non solo per l’ovvia ragione che se si fermano le attività per due settimane e poi si torna in fabbrica come prima l’epidemia riprenderà con furia rinnovata uccidendo milioni di persone e devastando per sempre la società. Questa è solo una considerazione marginale, dal mio punto di vista.

La considerazione che mi pare più importante (di cui dovremo sviluppare le implicazioni nelle settimane e nei mesi che verranno) è proprio questa: non dovremo tornare mai più alla normalità.

La normalità è quella che ha reso l’organismo planetario così fragile da aprire la strada alla pandemia, tanto per cominciare. 

Anche prima che la pandemia esplodesse, la parola «estinzione» aveva cominciato a disegnarsi sull’orizzonte del secolo. Anche prima della pandemia, l’anno 2019 aveva mostrato un crescendo impressionante di collassi ambientali e sociali culminati a novembre nell’incubo irrespirabile di New Delhi e nell’incendio terrificante d’Australia.

I milioni di ragazzini che il 15 marzo 2019 sfilarono nelle strade di molte città per chiedere di fermare la macchina di morte ora hanno ottenuto qualcosa: le dinamiche del cambiamento climatico sono state per la prima volta interrotte.

Dopo un mese di lockdown l’aria padana è divenuta respirabile. A che prezzo? A un prezzo salatissimo che adesso si paga in vite perdute e in paura dilagante, e che domani si pagherà con una depressione economica senza precedenti. 

Ma questo è l’effetto della normalità capitalistica. Tornare alla normalità capitalistica sarebbe un’idiozia talmente colossale che la pagheremmo con un’accelerazione della tendenza verso l’estinzione. Se l’aria padana è diventata respirabile grazie al flagello, sarebbe un’idiozia colossale riattivare la macchina che rende l’aria padana irrespirabile, cancerogena e alla fine facilmente preda della prossima epidemia virale.

Questo è il tema sul quale dobbiamo cominciare a pensare, in fretta e spregiudicatamente. 

La pandemia non provoca una crisi finanziaria. Certo, le borse precipitano e continueranno a precipitare, e qualcuno propone di chiuderle (provvisoriamente).

«Unthinkable» è il titolo di un articolo di Zachary Warmbrodt uscito su POLITICO, in cui si esamina con terrore la possibilità di chiudere le borse. 

Ma la realtà è molto più radicale delle ipotesi più radicali: la finanza ha già chiuso, anche se le borse rimangono aperte, e gli speculatori guadagnano i loro sporchi dollari scommettendo sul fallimento e la catastrofe, come hanno fatto i senatori repubblicani Barr e Lindsay.

La crisi che verrà non ha niente a che fare con quella del 2008, quando il problema era generato dagli squilibri della matematica finanziaria. La depressione a venire dipende dall’intollerabilità del capitalismo per il corpo umano e per la mente umana.

La crisi in corso non è una crisi. È un Reset. Si tratta di spegnere la macchina e di riaccenderla dopo un po’. Ma quando la riaccendiamo possiamo decidere di far sì che funzioni come prima, con la conseguenza di ritrovarci da capo dentro nuovi incubi. Oppure possiamo decidere di riprogrammarla, secondo scienza coscienza e sensibilità.  

Quando questa storia finirà (e non finirà mai in un certo senso, perché il virus potrà recedere ma non scomparire, e potremo inventare vaccini, ma i virus muteranno) entreremo comunque in un periodo di depressione straordinaria. Se pretenderemo di tornare alla normalità avremo violenze, totalitarismo, stragi, e l’estinzione della razza umana entro la fine del secolo.

Quella normalità non deve ritornare.

Non dovremo chiederci cosa va bene alle borse, all’economia del debito e del profitto. La finanza è andata a fare in culo, non ne vogliamo più sentir parlare. Dovremo chiederci cosa è utile. La parola «utile» dovrà essere l’alfa e l’omega della produzione, della tecnologia e dell’attività.

Mi rendo conto che sto dicendo cose più grandi di me, ma dobbiamo prepararci ad affrontare scelte smisurate. E per essere pronti quando questa storia finisce occorre cominciare a ragionare su quello che è utile, e sul modo in cui è possibile produrlo senza distruggere l’ambiente e il corpo umano. 

E dovremo anche ragionare sulla questione più delicata di tutte: chi decide?

Attenzione, quando si pone la domanda: chi decide?, si pone la domanda: qual è la fonte della legittimità?
È la domanda da cui iniziano le rivoluzioni.
Che lo vogliamo o no, è la domanda che ci dovremo porre.