Essere pessimisti significa voler eliminare ogni sofferenza

Un’intervista a Thomas Ligotti

Pubblichiamo un estratto da Nato nella paura, l’antologia contenente le interviste a Thomas Ligotti da poco uscita per il Saggiatore, ringraziando l’editore per la disponibilità.

Intervista di Tina Hall, 2011

Hai sempre amato la parola scritta?
Niente affatto. Già dai primi anni di scuola detestavo leggere e lo facevo il meno possibile. Se per Natale o per il mio compleanno qualcuno mi regalava un libro, mi sentivo truffato. Da bambino ero fanatico di sport. Ero uno di quelli che al campetto venivano scelti sempre per primi, in qualsiasi tipo di attività atletica. In particolare mi piacevano kickball e palla avvelenata. Poi ho cominciato a suonare la chitarra, e la musica è diventata il mio mondo. Poi mi sono dato alla droga e mi sballavo ogni volta che potevo. A diciassette anni ho avuto un crollo nervoso, sotto forma di attacchi di ansia-panico. È una cosa ereditaria nella mia famiglia. Soltanto quando sono diventato un recluso agorafobico ho cominciato a leggere. Non c’era proprio nient’altro da fare. A quel punto ho iniziato a interessarmi ai libri e ad amare la parola scritta, ma sono passati anni prima che sentissi l’impulso di scrivere narrativa. Più che sbocciare tardi, sono uscito dal caos totale. Per evitare la noia o la depressione mi ero barcamenato tra molte cose. Non voglio sprecare spazio, quindi eviterò di elencare tutte le fasi ridicole della mia esistenza. Per esempio, quando frequentavo la scuola cattolica, sono stato per anni un fanatico religioso. Dicevo centinaia di preghiere al giorno e avevo incubi in cui mi vedevo all’inferno. Ancora oggi, durante gli attacchi di panico, la paura dell’inferno torna e mi fa nascere terrori particolari e assurdi. Nel complesso, la mia vita non ha avuto senso. Tuttavia mi considero una persona spiccatamente razionale. Forse, costretto a combattere con tutte le forze irrazionali che hanno continuamente minacciato di distruggermi, ho avuto bisogno di contrastarle coltivando la ragione.

Di che cosa parlava il primo racconto in assoluto che hai scritto?
Si trattava di una storiella che ho scritto alle elementari, dubito sarebbe molto interessante nel contesto attuale. In ogni caso, era la storia fantastica di una gomma per cancellare che prende vita. Dopo quella, ho scritto decine di racconti che buttavo via, concentrandomi sempre più sulla direzione da prendere come autore. Il primo racconto dell’orrore che ho conservato e poi è stato pubblicato è L’ultimo banchetto di Arlecchino. L’ho scritto negli anni settanta, in convalescenza dopo una depressione durata anni. Il narratore è un sociologo depresso che in una cittadina del Midwest scopre un culto antinatalista. Ogni tot anni, i suoi membri allestiscono una cerimonia in cui consumano «letteralmente» una femmina che simboleggia la fertilità. Disprezzano la vita e cantano lodi al «non-nato in paradiso». Anche nel mio ultimo libro, La cospirazione contro la razza umana, esprimo una filosofia antinatalista: direi che si è chiuso un cerchio.

All’inizio della tua carriera la tua identità era avvolta nel mistero. Perché, secondo te? Thomas Ligotti è il tuo vero nome? Ti hanno infastidito, queste illazioni?
Quello a cui ti riferisci era uno scherzo perpetrato da Brandon Trenz, un amico con il quale ho anche collaborato ad alcune sceneggiature. Siamo rimasti entrambi a bocca aperta, quando la storia è sfuggita di mano a un certo gruppo di persone. Altri sapevano fin dall’inizio che non era vero. Il mio nome di battesimo è davvero Thomas Ligotti. E non sono musulmano.

Ti irrita sentirti definire nichilista?
Preferisco pessimista. Una volta pensavo che «nichilista» fosse né più né meno che un’imprecisione, perché la definizione di nichilista che si trova sul dizionario corrisponde a me in pochissimi dettagli. Si addice di più a uno come Nietzsche, uno che a me non dice niente. Anche lui si considerava un pessimista, ma quando ha smesso di ammirare Schopenhauer ha modificato l’accezione di pessimismo spogliandola di quasi tutto il significato originario.

Oggi non mi irrita sentirmi definire nichilista, perché nell’uso comune ormai è sinonimo di anti-vita, il che almeno in teoria mi calza. Sul piano pratico, sostengo molti valori che con il nichilismo non vanno d’accordo. Per esempio, in politica mi identifico nel socialismo. Vorrei che tutti stessero il più comodi possibile, mentre aspettano di morire. Purtroppo la maggioranza della civiltà occidentale è fatta di capitalisti, che considero selvaggi fatti e finiti. Visto che ci tocca vivere in questo mondo, desiderare la minore sofferenza possibile per noi stessi e per gli altri è naturale, no? Ma non succederà mai, perché ci sono troppi selvaggi fatti e finiti. Sono brutali e disumani. Un esempio calzante: perché l’eutanasia è tanto disprezzata? Risposta: perché ci sono in giro troppi barbari figli di troia. E anche nei posti in cui l’eutanasia è autorizzata, non puoi farti aiutare a morire finché non sei a un passo dall’impazzire di dolore. Nella clinica svizzera Dignitas, dove praticano l’eutanasia con umanità, o nell’Oregon, dove l’eutanasia è ancora legale, ma chissà per quanto ancora, devi passare una lunga trafila per dimostrare che sei lucido di mente. Ma come cavolo fa uno a essere lucido, se soffre così tanto che non riesce più a pensare? Che manna sarebbe per il genere umano, se offrissimo l’eutanasia a chiunque prima della trasformazione in zombi di tristezza, così che prima di andarsene uno possa salutare i suoi amici e i suoi cari con il sorriso sulle labbra e la mente lucida. E quelli che soffrono di disturbi mentali dai quali è difficile guarire? Abbiate pietà, cazzo. In questo mondo nulla è importante quanto la facoltà di poter morire in modo indolore e dignitoso, cosa che avremmo la possibilità di concederci. Depenalizzando l’eutanasia dimostreremmo di avere compiuto il balzo evoluzionistico più grande nella storia del mondo. Se potessimo organizzare la società in modo da non dover più temere, tutti, gli spasimi di agonia che tradizionalmente precedono la morte, sarei fiero di definirmi essere umano.

Permettere ai tuoi pensieri e al tuo comportamento di lasciarsi condizionare dall’ordine sociale in cui ti è toccato vivere è l’impedimento più grande, se vuoi scoprire cosa significa essere vivo e quali provvedimenti vanno presi al riguardo.

Hai dichiarato che per quasi tutta la vita hai sofferto di depressione cronica e attacchi di ansia-panico. Scusa se mi permetto, ma credi che questi disturbi ti abbiano influenzato nella scelta del tuo lavoro?
Certe persone, per vari motivi, preferiscono la compagnia di se stessi a quella degli altri. Se quello che cerchi è la salvezza spirituale e fai sul serio, il chiasso del mondo è una distrazione fatale. Permettere ai tuoi pensieri e al tuo comportamento di lasciarsi condizionare dall’ordine sociale in cui ti è toccato vivere è l’impedimento più grande, se vuoi scoprire cosa significa essere vivo e quali provvedimenti vanno presi al riguardo. Tuttavia, il mortale medio non è afflitto da questo genere di preoccupazioni. Nulla è più comprensibile del desiderio di ricevere il conforto e il sostegno del prossimo, anche se si tratta di un ideale, e il prossimo può rendere la tua vita un inferno con la stessa facilità con cui può invece renderla intollerabile, figuriamoci qualcosa che si avvicina alla felicità. Comunque sia, la vita da reclusi non è necessariamente la condizione ottimale per la moltitudine. E aggiungerei che la maggior parte dei reclusi non ha scelto di esserlo. Di sicuro non io, che ho soltanto cercato di trarre il meglio dalle circostanze in cui sono capitato. Devo dire, però, che prima ancora di condurre un’esistenza da recluso avevo cominciato a percepire che il tempo trascorso insieme agli altri era un ostacolo al fare ciò che desideravo davvero, ossia diventare il miglior scrittore horror che potevo. Ovviamente, ci sono scrittori che hanno bisogno del contatto umano come carburante delle loro storie. Prima o poi, però, per completare l’opera anche loro devono trasformarsi in reclusi.

Ti è piaciuto collaborare con i Current 93? Trovi che la musica possa dare conforto, in tempi come questi?
Il mio unico tramite con i Current 93 è stato David Tibet, cantante e autore dei testi del gruppo, e di gran lunga la persona più erudita che io abbia mai conosciuto. Un giorno mi ha scritto una lettera in cui diceva di aver percepito qualche affinità tra le sue opere e le mie. Poi ci siamo sentiti un po’ di volte per telefono e alla fine David mi ha coinvolto in diversi progetti incentrati sui miei scritti, tra cui This Degenerate Little Town, I Have a Special Plan for This World e In a Foreign Town, In a Foreign Land. Ho anche inciso un cd di registrazioni casalinghe, intitolate The Unholy City, per la Durtro, che è la casa editrice-discografica di David Tibet. Era una specie di omaggio allegato all’edizione Durtro di una sceneggiatura, Crampton, che ho scritto a quattro mani con Brandon Trenz.

Quanto al conforto della musica in tempi come questi, sono certo che lo sia a patto di non essere troppo depressi per apprezzarla. Ma non c’è paragone con l’alcol o la droga, che influenzano direttamente l’emotività – a differenza della musica che lo fa indirettamente, tramite l’udito – e come via di fuga sono infallibili. Come la letteratura, la musica è soltanto un modo innocuo di dimenticare il mondo, e non sempre funziona secondo i nostri desideri.

Se potessi cambiare una cosa del mondo in cui viviamo, che cosa cambieresti?
Quello che non sopporto è l’idea stessa che il nostro mondo, qualsiasi mondo, esista. Certo, il vero senso della mia frase è che non sopporto il fatto di essere io stesso a esistere. Ma questa è una risposta poco adatta alla domanda. In qualità di pessimista, la mia prima preoccupazione è eliminare la sofferenza, o perlomeno ridurla significativamente. A questo pro, mantenendomi su un piano pratico, mi tocca ribadire che un programma di somministrazione liberalizzata dell’eutanasia sarebbe in assoluto la scelta più significativa possibile per diminuire la sofferenza. Non mi viene in mente nulla di meglio, come strumento per migliorare l’aspetto peggiore della condizione umana.

A parte l’eutanasia, penso che sarebbe splendido se gli esseri umani tenessero di più alla giustizia. Ricordo di avere visto un documentario in cui a diverse persone veniva chiesto se i Beatles avevano ragione a cantare che «l’amore è tutto ciò che serve». Rispondendo alla domanda, l’attivista radicale degli anni sessanta Abbie Hoffman diceva, con tante scuse ai Beatles, che serve giustizia, non amore. Un parere con cui sono in profonda sintonia. Non molto tempo fa, su Internet, ho seguito una conferenza in cui Chris Hedges, l’autore di The Death of the Liberal Class, proponeva uno spettro in cui la giustizia era a un estremo e la libertà all’altro. Secondo lui, i progressisti tendono verso l’estremo della giustizia e i conservatori verso la libertà. Chiunque sia dotato di cervello capirà che Hedges ha ragione. Naturalmente, la diffusione della giustizia su vasta scala è impossibile fintanto che ovunque regna la libertà, in particolare la libertà di negare la giustizia al prossimo. E pazienza se vi sembra una frasetta da candidata allo scettro di Miss America.

Com’è stato vedere un romanzo illustrato basato sulle tue opere?
Niente di che. L’ho fatto per soldi.

Cosa pensi del sito Thomas Ligotti Online aperto dai tuoi fan? Ti sorprendi mai del fatto di avere ammiratori?
In tutta onestà trovo perfettamente naturale che esista gente che mi ammira; secondo le mie stime sono non più di duemila persone in tutto il globo. Sin dall’inizio ho espresso con tutta l’intensità possibile il mio giudizio particolare sul mondo. Se resti fedele al tuo programma, e se i tuoi scritti incontrano un numero sufficiente di lettori, è probabile che tu raccolga un certo numero di persone che ti somigliano quanto basta a diventare tuoi fan. Chiunque tu sia, da qualche parte c’è di sicuro chi condivide le tue sensazioni più rare e sta solo aspettando che qualcuno le esprima. La definisco sindrome del «credevo di essere l’unico a pensarlo». Più lontani sono i tuoi pensieri ed emozioni da quelli della maggioranza, più ti affezionerai allo scrittore che parla in questo modo per te. Ti sembrerà una fortuna averlo trovato. E allo scrittore sembrerà una fortuna ancora più grande aver trovato te.