Paranoia rhodesiana

Come il mito della Rhodesia sta alimentando il nuovo razzismo nato dal terrore dello stato d’assedio e dall’autopercezione della «minoranza bianca» (anche quando minoranza non è)

La sera del 17 giugno 2015 il ventunenne Dylann Roof è entrato in una chiesa gospel di Charleston, Carolina del Sud, ha partecipato a una sessione di studio della Bibbia per circa un’ora e poi ha tirato fuori una pistola dal marsupio e ha ucciso nove persone gridando insulti razzisti, prima di tentare di uccidersi, scoprire di aver finito le munizioni e darsi alla fuga. Dopo l’arresto confesserà di aver agito per scatenare una guerra razziale. Intanto, durante la caccia all’uomo, viene diffusa una foto presa dal suo Facebook: lo mostra in un bosco, accigliato, con sulla giacca le toppe del Sudafrica dell’apartheid e della bandiera della Rhodesia, l’ex stato segregazionista nato dal colonialismo britannico che poi sarebbe diventato lo Zimbabwe. Roof si percepiva come «l’ultimo rhodesiano» – nome che aveva dato anche al suo sito, scoperto tre giorni dopo e contenente un manifesto politico esplicitamente razzista.

Dylann Roof è stato condannato a morte, ma il suo caso e soprattutto la sua estetica hanno provocato lo sviluppo di una mitologia che forse esisteva già in forma latente. Pochi mesi fa, il New York Times Magazine ha dedicato una lunga inchiesta a questo fenomeno. Si va dalla diffusione dell’iconografia, con gli account Instagram dedicati alle foto di guerra (@imagesofwar, @historicalwarfareinc) che pubblicano foto di pattuglie dei Selous Scouts, le forze speciali dell’esercito della Rhodesia negli anni Sessanta e Settanta, uomini bianchi in bermuda e canottiera che stringono il fucile e camminano per la savana; al vero e proprio merchandise rhodesiano, con negozi online che vendono cover per cellulari, poster propagandistici dell’esercito rhodesiano, magliette con inside joke sul tema o con la scritta «Make Zimbabwe Rhodesia Again».

Per la comunità di estrema destra e suprematisti bianchi a cui questi prodotti sono destinati, l’appeal è ovvio: il riferimento storico è meno palese di una svastica o di una bandiera confederata, permette di esprimersi in un codice comprensibile a pochi non iniziati. Sono inside joke, appunto, che il pubblico generico non può capire e che veicolano in modo più mascherato lo stesso messaggio di elogio e di nostalgia per uno stato etnico e razzista. Come ha spiegato al NYT Magazine Joseph Smith, un ventiduenne che ha dedicato alla storia della Rhodesia un video sul suo canale YouTube ma che fino al massacro di Charleston non aveva mai sentito parlare di quella nazione, «credo che a noi bianchi piaccia avere una squadra da tifare di questi tempi.»

«Essere un uomo bianco eterosessuale e conservatore di questi tempi è qualcosa di impopolare agli occhi di molte persone,» ha detto Smith al NYT Magazine, spiegando da dove nascesse per lui il fascino della Rhodesia. La chiave in cui leggere il mito è proprio questa: la sensazione di appartenere a una minoranza (bianca) accerchiata. È primariamente un problema di percezione che non tiene conto né degli effettivi rapporti numerici – negli Stati Uniti, stando all’ultimo censimento del 2010, gli americani bianchi sono il 73 percento della popolazione – né tantomeno dei rapporti di forza sociali che vedono i bianchi ancora saldamente al vertice della piramide sociale.

La sensazione di appartenere a una minoranza civilizzata (bianca) accerchiata da orde barbariche ostili (non bianche), costretta a difendersi da una guerriglia logorante che mira ad annichilirla a poco a poco o a «sostituirla», ad assimilarla, a farle perdere la propria identità culturale; la sensazione che il proprio paese si sia trasformato in una Rhodesia e che la Rhodesia sia stata una profezia di quello che il resto del mondo bianco potrebbe diventare; ma anche: l’idea di Rhodesia come paradiso perduto. Un paradiso perduto che nel 2015 ha spinto un gruppo di estremisti di destra a elaborare su 8chan un progetto coloniale per creare una nuova Rhodesia in miniatura, per fondare un insediamento solo per bianchi in Namibia. C’era tutto questo appiccicato sulla giacca di Dylann Roof.

Bandiere: il Sudafrica dell’apartheid (in alto) e la Rhodesia (in basso) sulla giacca di Dylann Roof

Il trauma della Rhodesia

Per interpretare il momento storico che stiamo vivendo, con la risorgenza dei nazionalismi dei fascismi e del razzismo diffuso in tutti gli strati della società, i paradigmi più usati guardano indietro e fanno paragoni tra la grande crisi del 2008 e quella del 1929, l’ascesa dei populisti di oggi e quella di fascismo e nazismo negli anni Venti e Trenta, il 2018 con il 1918, l’apparente fragilità dell’ordine democratico di oggi con la Repubblica di Weimar.

Sono paragoni che si sforzano di inverare la famosa frase di Marx sul ripetersi della storia la prima volta come tragedia e la seconda come governo del cambiamento, ma che non colgono nel segno perché il razzismo di oggi è molto diverso da quello nazifascista. È un razzismo più simile a quello che si era coagulato fino a costituirsi in identità nazionale nell’ex colonia britannica della Rhodesia.

Come ricordato su queste pagine da Bifo, il razzismo fascista – nella sua giustificazione ideologica e nella sua propaganda – è un razzismo di origine colonialista, proprio di una civiltà che si percepisce come superiore e depositaria di una missione civilizzatrice. Il testo di Faccetta nera, la canzone più famosa che interpreta quell’immaginario, mette bene in chiaro quali ne sono le caratteristiche: la bella abissina deve aspettare speranzosa l’arrivo del colonizzatore italiano, da cui riceverà «un’altra legge e un altro Re» e verrà portata «a Roma, liberata» per vestire anche lei la camicia nera, diventare «romana» e, infine, marciare insieme ai fascisti davanti al Duce e al Re sotto il tricolore. La colonizzazione è un’emancipazione offerta dal popolo colonizzatore (bianco) che fa partecipare le popolazioni colonizzate (non bianche) al consesso dei popoli civilizzati, elevandoli.

Diverso ma solo in parte è il discorso del razzismo nazista: anche qui c’è l’autopercezione di essere una razza superiore investita del compito di migliorare l’umanità, stavolta però non tramite l’elevazione e il livellamento delle condizioni ma tramite l’epurazione degli elementi inferiori che la contaminano. Anche questo è un razzismo colonialista, ma stavolta il popolo dei signori (ariani, bianchi) con la sua guerra coloniale non vuole portare la civiltà alle razze inferiori, quanto conquistare uno spazio vitale da mettere a coltura utilizzando le razze inferiori come manodopera servile – tentativo che ha avuto il suo più tragico esempio nell’operazione Barbarossa e nel tentativo nazista di trasformare l’Europa orientale in un dominio coloniale.

L’elemento comune del razzismo nazista e fascista sta nel rapporto dei colonizzatori non con i colonizzati ma con loro stessi – nella loro percezione di sé e nella valutazione della loro situazione, nella loro autostima e fiducia. Il razzismo nazifascista è un razzismo trionfante, quello di chi non solo si percepisce come superiore ma non può nemmeno immaginare che questa superiorità possa essere messa in discussione dalle razze inferiori o dai popoli non civilizzati, dagli slavi dell’est destinati a servire il popolo dei signori o dalle belle abissine destinate a conoscere la civiltà per opera delle camicie nere.

Il razzismo di oggi è un razzismo spaventato, terrorizzato, di chi si percepisce come minoranza assediata ma allo stesso tempo sente scricchiolare il mito della sua invulnerabilità.

Ora, guardiamo questi tre elementi e il razzismo di oggi. Non serve citare le polemiche sullo ius soli per capire che i neri non ci sogniamo nemmeno di elevarli al nostro rango e «integrarli» come asseriva di voler fare Faccetta nera; ed è altrettanto chiaro, visto il cliché degli immigrati che ci rubano il lavoro e il più recente argomento sull’«esercito industriale di riserva» che non non vogliamo nemmeno che siano impiegati in modo produttivo e ci facciano competizione. La differenza più importante però sta nel tipo di razzismo: non trionfante ma terrorizzato.

Che è il tipo di razzismo a cui è stata legata doppio filo la Rhodesia, dal giorno della sua indipendenza dichiarata in modo unilaterale nel 1965 come reazione alla decisione del governo britannico che si rifiutava di concederla finché nel paese non fosse stata abolita la segregazione razziale; per tutta la sua esistenza di stato paria con 300.000 bianchi su 5 milioni e mezzo di abitanti e un suffragio per censo che escludeva la maggior parte di questi dalla partecipazione al potere politico, sanzionato dall’ONU e supportato solo da Stati Uniti, Israele, Iran dello scià, Portogallo di Salazar e Sudafrica dell’apartheid; e fino a dopo la sua dissoluzione e la sua trasformazione in Zimbabwe avvenuta nel 1979, al termine di un sanguinoso conflitto civile a bassa intensità noto come «guerra del bush.»

Il razzismo di oggi non è un razzismo fiero di chi percepisce la sua vittoria come inevitabile e la sua sconfitta come assolutamente impossibile perché sa che la sua superiorità razziale è sancita anche dalla superiorità economica, tecnologica e militare – ovvero da quei mezzi materiali che consentono la prosecuzione e l’estensione del suo dominio. È un razzismo spaventato, terrorizzato, di chi si percepisce come minoranza assediata ma allo stesso tempo vede incrinata la sua fede nei mezzi materiali che dovrebbero proteggerlo e sente scricchiolare il mito della sua invulnerabilità. È il razzismo su cui si fondava l’identità nazionale rhodesiana.

E allora torniamo alla Rhodesia e al suo valore di precedente storico e di trauma rimosso. Un precedente storico, perché nella Rhodesia degli anni Sessanta e Settanta i bianchi erano davvero una minoranza: questo semplice fatto, interrogato dall’Occidente spaventato per la perdita delle sue armi di difesa, risponde come un presagio inquietante di quello che potrebbe accadere o potrebbe già stare accadendo. Un trauma rimosso, perché in Rhodesia la superiorità razziale bianca, pur sancita anche dalla loro superiorità economica, tecnologica e militare, è crollata: il partito razzista di governo – il Fronte Rhodesiano – ha dovuto capitolare, accontentarsi (1980) di una legge elettorale che riservasse solo una minoranza di seggi ai bianchi (sancendo di fatto sia il loro essere minoritari, sia la loro esclusione dal potere), cambiare nome in Alleanza dei Conservatori dello Zimbabwe (1984), poi diluirsi e perdere la sua identità accettando anche membri neri (1986) e infine scomparire com’era scomparso il paese.

Un trauma per la perdita del dominio e dell’identità, in chi identifica l’identità col dominio. Ma anche un processo lento e inesorabile, di cui si può scorgere qualcosa in altri processi in atto oggi. Per questo si può dire che la Rhodesia sia un incubo, un memento mori per la coscienza coloniale. Era questo il senso della toppa sulla giacca di Dylann Roof, che aveva una nakba da vendicare quando si è messo a sparare in chiesa a Charleston.


La guerra del bush

È vero: mentre in Rhodesia i bianchi erano effettivamente una minoranza, negli Stati Uniti, in Italia e in Occidente in generale sono ancora la larga maggioranza. Ma come dicevo, il mito della Rhodesia – in quanto mitologia di una storia fattuale e non sua replica – non riguarda direttamente i rapporti numerici o i rapporti di forza sociali, bensì la percezione di questi rapporti.

Nel febbraio di quest’anno, un rapporto Eurispes ha scoperto che solo il 28,9 percento degli italiani è cosciente della reale percentuale di stranieri nel nostro paese (l’8 percento). Il 35 percento degli italiani crede che ce ne sia almeno il doppio (il 16 percento), il 25 percento pensa che in Italia ci sia uno straniero ogni quattro persone. Ciò significa che oltre il 70 percento della popolazione italiana ha una percezione distorta dell’immigrazione; cioè, si può dire, che la società italiana soffre di una forma di paranoia che la porta a vedere immigrati ovunque.

Dallo stesso tipo di ricerca ma condotta a livello europeo emerge un quadro simile. «L’errore di percezione commesso dagli italiani è quello più alto tra tutti i paesi dell’Unione Europea,» si legge in un report dell’Istituto Cattaneo uscito lo scorso agosto. Lo scarto percentuale è + 17% circa, il che vuol dire che in media gli italiani pensano che gli stranieri non siano l’8 percento, ma il 25 percento della popolazione, con picchi del 32 percento «tra chi si definisce di centrodestra o di destra». Per il 74 percento degli italiani, inoltre, gli immigrati peggiorano la situazione della criminalità: un valore ben più alto della media europea ferma al 57 percento. Quest’ultimo dato va a completare il quadro clinico di cui sopra: non solo la società italiana soffre di una forma di paranoia che la porta a vedere immigrati ovunque, ma vi associa anche un pericolo per la sua sicurezza, e cioè vede pericoli per la sua sicurezza ovunque. Dunque si percepisce come in stato d’assedio.

Se la Rhodesia è un brutto sogno della coscienza coloniale, è normale che l’Italia lo sogni più degli altri paesi – perché la coscienza coloniale italiana è quella che più ha dormito e che ancora ha il sonno più pesante. L’Italia non ha mai fatto i conti con il suo passato coloniale: da una parte ha dimenticato i suoi crimini nascondendoli dietro il mito degli «italiani brava gente» che in Africa ci andavano a costruire infrastrutture e il cui dominio sarebbe addirittura rimpianto dalle popolazioni locali visti i conflitti che vi sono seguiti; dall’altra è rimasta molto indietro, rispetto agli altri paesi europei, per quanto riguarda l’integrazione quando non proprio l’accettazione dell’esistenza degli italiani «di seconda generazione».

Il coro «non ci sono negri italiani» cantato contro Balotelli dai tifosi della nazionale, le recenti polemiche sulla foto delle atlete nere che hanno vinto l’oro ai giochi del Mediterraneo lo scorso luglio, l’assenza di una legge sullo ius soli osteggiata da buona parte della politica e della popolazione, sono tutti elementi che ci dicono una cosa ben precisa: il sangue è ancora un elemento fondativo dell’identità italiana, ben più del suolo. Tutto questo ora è maggioritario e in questa costruzione di un’identità italiana basata sul sangue, un «fare gli italiani» che superi finalmente le diatribe nord-sud e i secessionismi padani, ritroviamo la Rhodesia.

Sentiamo risuonare le parole di Ian Smith, l’ex primo ministro della Rhodesia, intervistato dal Guardian nel 2000: «Più ne uccidevamo, più eravamo felici».

I rhodesiani non erano un vero popolo ma una classe di schiavisti, la Rodesia non era una vera nazione ma la denominazione politica di comodo di una schiavitù razziale. Per superare i particolarismi, i regionalismi, i conflitti sociali, l’Italia di oggi costruisce un’identità condivisa altrettanto fittizia, con una minoranza civilizzata minacciata da orde non bianche che – almeno nella percezione – sono già un quarto della popolazione. Con il rischio concreto quindi, di finire presto o tardi come in Rhodesia, dove i bianchi erano effettivamente una minoranza. La costruzione dell’Italia come una Rhodesia d’Europa.

Questa divisione paranoica della società in due campi contrapposti di invasori e invasi è la scintilla che non vediamo quando vediamo l’incendio rappresentato dalle decine di segnalini sulla mappa delle aggressioni razziste dall’insediamento del nuovo governo. Per capire quella visualizzazione inquietante non dobbiamo osservarla da sola ma insieme a quello che si può considerare il suo contraltare: tutti quei siti, nati ben prima, dedicati a catalogare la criminalità comune in senso razzializzato, a scandagliare la cronaca nera per costruire, aggiornare e diffondere a ogni momento un gigantesco database di «crimini degli immigrati» – dal nome del più famoso, www.tuttiicriminidegliimmigrati.com

Agli occhi di una parte consistente dell’elettorato italiano – quella che ha espresso il governo attuale – questi due aspetti sono due facce della stessa medaglia. Per capirlo, la migliore chiave di lettura fa riferimento ancora alla Rhodesia e alla «guerra del bush», quel conflitto a metà tra una guerriglia e una guerra civile a bassa intensità condotta tra le due parti della società rhodesiana e che ha condotto nel giro di un quindicennio alla fine del paese. Presi insieme, i «crimini degli immigrati» e i crimini razzisti vanno a creare una guerra del bush permanente e diffusa, dove la minoranza bianca percepisce i crimini dei non bianchi non come semplice cronaca nera ma come veri e propri atti di guerriglia nei suoi confronti, e a cui risponde con violenza uguale e contraria. Così, per gli uni «Macerata» evoca subito alla mente l’attentato fascista e razzista di Luca Traini; per gli altri invece evoca l’omicidio di Pamela Mastropietro, considerato anch’esso un atto razzista dei «nigeriani», dei «neri» contro i bianchi.

È una dinamica che ci suona familiare perché si è costruita lentamente nel corso degli anni, da Kabobo a Pamela Mastropietro. Ce ne accorgiamo solo ora che vediamo attecchire anche in Italia teorie del complotto fortemente legate al mito della Rhodesia e a quel tipo lì di razzismo, come il piano Kalergi, la sostituzione etnica, il genocidio bianco dei boeri sudafricani. È solo adesso che nei commenti su Facebook della gente che esulta e gioisce per questo o quel naufragio nel canale di Sicilia non vediamo più un fenomeno raccapricciante e inspiegabile, ma sentiamo risuonare le parole di Ian Smith, l’ex primo ministro della Rhodesia, intervistato dal Guardian nel 2000: «Più ne uccidevamo, più eravamo felici».


La Rhodesia del mondo

Se allarghiamo il campo di osservazione passando dal livello nazionale a quello globale, dalla situazione italiana a quella dell’occidente bianco in generale, ci accorgiamo che c’è un ulteriore elemento di verità nel mito della Rhodesia. E cioè che la percezione della minoranza bianca assediata, falsa nel contesto ristretto dell’orizzonte nazionale, coglie una verità più profonda se la si guarda in termini più ampi, che intrecciano le contraddizioni razziali con quelle di classe. L’Europa, l’Occidente, il primo mondo, il mondo bianco, la metropoli capitalista sono effettivamente minoranza assediata.

Da questo nuovo punto di vista si dilegua il dubbio che il mito della Rhodesia non riguardi l’Italia in particolare o che il parallelismo su cui si fonda sia più evidente altrove per immediate ragioni culturali. L’Italia diventa solo l’immagine dell’estensione di questo mito, che mette radici anche fuori dal suo humus storico. Ci si riconcilia così con l’idea dell’Italia come primo fronte della fortezza Europa dinanzi al fenomeno migratorio, del suo ruolo di confine ancora poroso. Lo stesso processo di costruzione di un’identità comune fittizia basata sulla coscienza coloniale che consenta di addormentare i particolarismi e i conflitti sociali si sta consumando su scala più grande anche all’interno di questa fortezza assediata. Anzi, esso è inseparabile all’identità della fortezza e uno degli scopi che hanno presieduto alla sua fondazione. Il movimento storico che ha portato all’agglomerarsi in un’entità sovranazionale di quelli che erano un tempo centri imperialistici in competizione tra loro è stato stimolato dalla stessa percezione e dalla stessa paura di perdere l’egemonia che sta dietro alla costruzione dell’Italia-Rhodesia. Anche nell’Europa-Rhodesia, a guardare i dati, l’assedio non è reale ma potenziale; anche qui troviamo le teorie del complotto più svariate che esprimono la paura inconscia che questo assedio passi dalla potenza all’atto.

Ma appunto, proprio per questo dei dati non ci facciamo niente. L’avanzata dell’estrema destra ovunque, anche in una delle società più bianche e ricche come quella svedese, è un’ulteriore conferma che il razzismo di oggi non è né il razzismo umiliato né il razzismo trionfante. È da qualche parte a metà strada, attestato su una posizione difensiva. La paura non è dell’invasione in atto ma di quella che verrà, è paura preventiva dello stato d’assedio, del diventare una minoranza assediata nella realtà e non più solo nella percezione. Nasce dalla visione del recedere dell’egemonia bianca occidentale, dall’emergere come soggetti realmente indipendenti di quegli stessi popoli ex coloniali che nell’inconscio collettivo occidentale sono ancora percepiti come razze servili da mettere a lavoro coatto. E allora compare il mito della Rhodesia, sia nella forma della nostalgia per un passato di glorioso dominio coloniale e razziale sia come messa in guardia da un futuro tetro di possibile annientamento. Se – come la Rhodesia – l’Occidente bianco ha una storia strettamente legata al razzismo e alla superiorità economica, tecnologica e militare che ne consente il mantenimento, oggi che quella superiorità è messa sempre più in discussione la Rhodesia diventa un’Occidente in miniatura, e l’Occidente una Rhodesia potenziale.

I vari Ian Smith sono già al potere o ci arriveranno presto. La contraddizione tra il loro governo e quello impersonale del Foreign Office di Londra è solo apparente, i conflitti fittizi nascondono unità di intenti: la regina d’Inghilterra è rimasta per anni capo di stato della Rhodesia dopo l’indipendenza, così come il ministro dell’Economia Giovanni Tria a Cernobbio ha rassicurato i mercati. La guerra del bush è in corso: oggi non solo la criminalità straniera è declinata come tale in modo quasi automatico, ma la «minoranza» bianca ha cominciato a difendersi, almeno nella sua percezione. L’ideologia dei piani Kalergi, delle sostituzioni etniche e dei presunti genocidi boeri è ormai dominante. E intanto, allargando lo sguardo, le Rhodesie del mondo costruiscono muri e militarizzano i confini. Che altro dobbiamo aspettarci da questo mito?