Dinanzi all’orrore, l’impotenza

Salvini e Orbán sono il simbolo del nuovo «socialnazionalismo» che punta alla guerra razziale. Ma come opporsi se la democrazia è morta e il nostro immaginario è paralizzato dalla competizione del tutti contro tutti?

Pubblichiamo un estratto da Futurabilità, il nuovo libro di Franco «Bifo» Berardi in uscita il 5 settembre per la collana Not di NERO.

Copertina di Takeshi Murata

Questo libro è un tentativo di cartografare le correnti di un mutamento gigantesco.

Stiamo passando dall’età di Thatcher all’età di Trump: questa è la sintesi del mio tentativo interpretativo. In Occidente sta prendendo forma un fronte antiglobalista di cosiddetti regimi populisti, nel contesto del declino demografico ed economico della razza bianca (quando uso questa espressione so che non ha alcun significato scientifico; ma so anche che si tratta di una mitologia politicamente potentissima). L’elezione di Trump alla presidenza degli Stati Uniti è il punto di non ritorno di questo conflitto mondiale tra globalismo capitalista e antiglobalismo reazionario.

Dopo il Trattato di Versailles, la società tedesca venne improvvisamente e drammaticamente impoverita e sottoposta a una lunga umiliazione. Fu in una tale situazione che Hitler riuscì nella sua impresa: la sua mossa vincente fu quella di convincere i tedeschi a identificarsi come una razza superiore, non come una classe di lavoratori sfruttati e per di più umiliati dalle potenze vincitrici della Prima guerra mondiale. Quella mossa funzionò allora e sta funzionando di nuovo oggi, su scala molto più ampia: Donald Trump e Vladimir Putin, Jarosław Kaczyński e Viktor Orbán, Boris Johnson e Matteo Salvini, sono tutti politici di cultura mediocre che annusano la possibilità di guadagnare potere incarnando la volontà di potenza della razza bianca all’inizio del suo declino.

Il richiamo razziale cresce e si rafforza, al punto che Boris Johnson si può permettere di chiamare Obama «mezzo keniota», e che sempre la paura razziale motiva la criminale politica antimigranti dell’Unione europea. Il razzismo emergente è la combinazione tra eredità coloniali e sconfitta sociale della classe operaia nel mondo occidentale.

Non è il razzismo del XIX secolo, e neanche quello del primo Novecento. Quello era parte dell’orgoglio malsano e violento di una razza bianca che aveva vinto, che aveva imposto il proprio dominio sui popoli del sud del mondo. Questo di oggi è un neorazzismo che nasce dalla sconfitta, dalla paura; è il razzismo di coloro che temono di perdere l’impiego perché ci sono lavoratori giovani e scolarizzati che arrivano dall’Asia o dall’Africa e che ti possono portare via quel poco che ti è rimasto. Il razzismo del periodo coloniale si fondava sulla convinzione di saper fare le cose meglio, di essere più dotati dei popoli di colore e sottomessi, di essere insomma eredi di una civiltà che si pretendeva superiore perché aveva anticipato i tempi dello sviluppo tecnico sin dai tempi dell’umanesimo e poi della rivoluzione scientifica e industriale. Il neorazzismo del XXI secolo è invece il sentimento ansioso di una popolazione bianca miserabile e impoverita, che non possiede più neppure il privilegio della tecnica, dato che le tecniche digitali si sono diffuse rapidamente in ogni area del pianeta e un adolescente africano può avere in questo senso una competenza superiore a quella di un cinquantenne europeo.

La tendenza che osservo nel presente va verso l’unione di un fronte eterogeneo di forze antiglobaliste, e il ritorno del nazionalsocialismo come reazione al declino della razza bianca.

Per quanto possa apparire spaventoso, la tendenza che osservo nel presente va verso l’unione di un fronte eterogeneo di forze antiglobaliste, e il ritorno del nazionalsocialismo come reazione al declino della razza bianca. E dal momento che il riferimento dei fronti reazionari che stanno emergendo in larga parte del pianeta è la classe operaia bianca e sconfitta, piuttosto che di nazionalsocialismo parlerei di nazionaloperaismo.

Molti anni fa Mario Tronti definì i lavoratori industriali come «rude razza pagana» in lotta per interessi materiali e non per ideali retorici. È in nome di interessi materiali che la rude classe dei lavoratori industriali sta oggi diventando nazionalista e razzista come già nel 1933. Trump ha vinto perché i lavoratori impoveriti pensano (sbagliandosi) che sia un’arma nelle loro mani, e perché la sinistra li ha consegnati nelle mani del capitalismo finanziario. Sfortunatamente il trumpismo si sta già rivolgendo contro i lavoratori che avevano creduto in quella possibilità – anche se forse non ci ha mai creduto nessuno per davvero, perché di disperazione si tratta, non di nuove fedi. Quel che è peggio, è che la situazione si sta evolvendo nel senso di una guerra razziale.

Il fronte razzista euroamericano è certamente il frutto di trent’anni di governance neoliberale. Ma fino a ieri, in Europa e negli Stati Uniti i conservatori erano globalisti e liberisti. Adesso non lo sono più.

La guerra strisciante si sta già definendo lungo tre differenti fronti. Il primo è quello di un potere neoliberale che stringe la sua presa sulla governance, perseguendo con sempre maggior determinazione il programma di austerità e di privatizzazione – e questo quanto più quel programma mostra il suo fallimento, quanto più i suoi effetti coincidono con l’impoverimento generale. Il secondo fronte è il trumpismo antiglobalista fondato sul risentimento bianco e sulla disperazione dei lavoratori industriali. Il terzo fronte, che rimane sullo sfondo, è il necro-impero del terrorismo in tutte le sue forme di bigottismo religioso, di rabbia nazionale e di strategia economica che ho chiamato necrocapitale.

Penso che la guerra al terrore, il cui obiettivo principale è il jihad globale, prima o poi si trasformerà in una guerra tra globalismo capitalista e nazionalsocialismo antiglobalista, per quanto pur sempre globale (Putin-Trumpismo).

La democrazia non ritornerà

Non identifico l’impotenza con la mancanza di potere. Spesso i senza potere sono stati capaci di agire in modo autonomo e di creare forme di autorganizzazione fino al punto di sovvertire il potere stabilito; ma in questo nostro tempo precario, coloro che sono privi di potere sono incapaci di creare pratiche di efficace autonomia sociale, di mettere in moto processi di cambiamento volontario, di perseguire il mutamento in modo democratico – anche perché la democrazia è morta.

Sulla bara della democrazia, uno dei chiodi definitivi venne piantato nell’estate del 2015, quando il governo anti-austerity democraticamente eletto in Grecia fu obbligato a piegarsi al ricatto finanziario. Nel luogo in cui, venticinque secoli fa, la democrazia fu inventata, la democrazia è stata infine sospesa. Meglio ancora: quella che stiamo affrontando nell’Unione europea non è una sospensione temporanea della democrazia, ma la sostituzione finale della politica con un sistema di automatismi tecno-finanziari.

Attendere il ritorno della democrazia o battersi per questo scopo sarebbe futile: perché si sono dissolte le stesse condizioni sistemiche per un’efficacia della ragione politica (e in particolare della politica democratica). Non sto parlando qui di una sconfitta politica o militare, o di una semplice battaglia che è andata persa. Nel corso dell’era moderna, molte volte i buoni sono stati sconfitti; ma hanno anche resistito, hanno recuperato terreno e alla fine hanno ottenuto quel che volevano giocando e vincendo al gioco della democrazia. Stavolta però, penso che questo non accadrà più.

Le condizioni sistemiche per la democrazia sono state cancellate da processi irreversibili. Irreversibile è la schiavitù del lavoro precarizzato, perché il mercato del lavoro globale impone una competizione illimitata tra lavoratori di aree diverse del mondo e la prevenzione di ogni forma di solidarietà. Irreversibile è la miseria morale e psichica di una generazione che ha imparato più parole da uno schermo elettronico che da una voce umana. Irreversibile è lo scioglimento dei ghiacci artici, irreversibile è la spirale di competizione economica e di aggressività militare.

Le condizioni per la democrazia sono almeno due: la libertà e l’efficacia di una volontà politica. Entrambe queste condizioni sono state smantellate. Dal momento che il linguaggio è stato sottomesso alla legge della tecnica, e che gli automatismi tecno-linguistici hanno preso il sopravvento nelle relazioni sociali, «libertà» è divenuta una parola vuota e l’azione politica si rivela inefficace. Sperare in una rivitalizzazione dei valori e delle aspettative della democrazia è quindi un autoinganno: perché le decisioni sono state assorbite dalla macchina connettiva, e la rabbia popolare viene di conseguenza organizzata da partiti razzisti e nazionalisti.

Percependo la nostra impotenza, siamo costretti a pensare che non è più possibile alleviare la sofferenza con dei progetti politici, ma solo con gli psicofarmaci.

La costituzione psicocognitiva dei neoumani – voglio dire proprio il loro hardware cognitivo – non può far girare il software lasciato in eredità dalla vecchia cultura umanistica: parole come «libertà», «uguaglianza» e «fraternità» hanno perduto il loro significato situazionale. Possiamo datare precisamente l’inizio di questa mutazione? Naturalmente no. Io però ho arbitrariamente deciso che la data d’inizio è il 1977.

Il 1977 è l’anno in cui Louise Brown divenne la prima persona a essere concepita in vitro. L’anno in cui Steve Wozniak e Steve Jobs depositarono il marchio Apple. L’anno in cui a Londra i Sex Pistols intonarono il loro «No Future». L’anno in cui nelle città italiane l’ultima ribellione proletaria del secolo scorso si trasformò nella prima rivolta precaria del secolo di là da venire.

Da allora abbiamo assistito a qualcosa di più profondo di un cambiamento politico – qualcosa di più profondo persino di una rivoluzione: la mutazione della composizione molecolare dell’organismo sociale. È una mutazione che abbiamo subito con scarsa consapevolezza teorica e nessuna capacità di resistenza politica. La tecnologia ha alterato non solo la composizione chimica dell’atmosfera, ma anche delle sostanze semiotiche che compongono l’infosfera e dei nostri modelli psicocognitivi di elaborazione. È questa la ragione per cui non è possibile alcuna reversibilità politica, e per cui l’azione volontaria si rivela impotente: quando affronta processi irreversibili, la volontà non ha effetto.

La volontà cosciente non può smantellare le immani macchine che hanno provocato questa mutazione: perché la mutazione ha penetrato e riformattato la mente umana, e di conseguenza ha depotenziato la coscienza, la volontà e l’azione.

Una sorta di paralisi si è impadronita dell’organismo cosciente. L’incapacità di contrastare il male in maniera cosciente genera una dissonanza emotiva e cognitiva: il risultato è che, percependo la nostra impotenza, siamo costretti a pensare che non è più possibile alleviare la sofferenza con dei progetti politici, ma solo con gli psicofarmaci.

L’immaginario

Quale immagine del futuro emerge nell’età dell’impotenza? Andiamo al cinema a vedere un film. A dominare l’industria dello spettacolo è la distopia: le grandi produzioni hollywoodiane ci danno la percezione di un futuro che è insieme deprimente e violento. Uno dei più impressionanti successi commerciali nella storia del cinema è stata la serie Hunger Games. La maggioranza del pubblico dei film (e dei libri da cui la serie è tratta) era composta da giovanissimi. Il mondo futuro descritto da Hunger Games è un posto eticamente ripugnante, intollerabile per la nostra coscienza, tanto che uno spettatore ingenuo potrebbe pensare a una denuncia politica della precarietà sociale e della violenza provocata dalla militarizzazione del potere economico. Tuttavia non c’è nulla di più lontano dalle intenzioni dei creatori dell’opera; ma quello che più conta, è che non c’è nulla di più lontano dal modo in cui i giovani spettatori ne hanno decifrato il messaggio.

Il giovane spettatore che va a vedere Hunger Games può essere un precario, o un disoccupato, o uno studente impoverito dalla crisi: ma dalla visione del film non ricava alcun desiderio di ribellione contro quello che gli viene presentato non solo sullo schermo, ma dalla vita stessa. Certo, in Hunger Games alla fine una ribellione c’è: ma ha un carattere triste e disperato, e i suoi esiti contraddicono ogni idea di solidarietà tra gli oppressi.

Da Hunger Games il giovane spettatore non trae la conclusione che occorra ribellarsi contro l’attuale stato delle cose; piuttosto, si persuade che il film descrive il mondo in cui vivrà, o per meglio dire il mondo in cui tutti saranno costretti a vivere nel prossimo futuro. In questo nuovo mondo solo chi vince può sopravvivere, e se uno vuole vincere deve eliminare tutti gli altri, amici o nemici che siano. Vero è che in Hunger Games assistiamo anche a dei gesti di solidarietà: dopotutto, la protagonista Katniss Everdeen decide di prendere parte alla violenta competizione che dà il titolo alla serie per salvare da morte certa la sorellina. Ma è la solidarietà della disperazione, la solidarietà di gente che non può neppure immaginare una vita di pace, e men che mai una vita felice.

Nella vita reale, tutti competono: l’amante della domenica notte può essere l’avversario del lunedì mattina.

È la stessa lezione che arriva da un gran numero di videogiochi mainstream. Al di là dei contenuti narrativi, la stimolazione sensoriale addestra la generazione connettiva a competere e a combattere: o vinci o scompari. La morale su cui questi videogiochi sono costruiti è che a vincere sempre è la macchina, e che solo accettando la legge della macchina si possono sconfiggere i concorrenti. Nella vita reale, tutti competono: l’amante della domenica notte può essere l’avversario del lunedì mattina.

Un altro esempio di questa percezione del mondo come guerra del «tutti contro tutti» lo troviamo nella serie televisiva Game of Thrones. Qui ciascun personaggio sa che non può fidarsi di nessuno, e ogni traccia di fiducia reciproca è sistematicamente cancellata. Ma il fatto è che la fiducia reciproca non è un dono della legge o dell’autorità: è una condizione cognitiva che, nella storia umana, si è manifestata in maniera più o meno efficace. È stata anzi la fiducia reciproca a creare le istituzioni di garanzia dell’epoca moderna. La mutazione neoliberale ha valorizzato al massimo la competizione e distrutto le forme di solidarietà ed empatia. La reattività psichica e cognitiva della generazione precaria interiorizza la percezione della vita come un campo di battaglia in cui ciascuno di noi è chiamato a eliminare o ad essere eliminato: in un simile contesto, solidarietà ed empatia si trasformano in null’altro che distrazioni pericolose che rischiano di indebolire quel guerriero che ciascuno di noi è obbligato a essere.

Nel secondo decennio del XXI secolo è però emersa anche una ri essione critica sulla condizione precaria, soprattutto in letteratura e al cinema. I film di Jia Zhangke descrivono ad esempio le condizioni di precarietà dei lavoratori e dei disoccupati cinesi: già in Still Life, un suo film del 2006, il mondo del passato è scomparso sotto l’acqua verdastra del fiume Chang Jiang, che ha inghiottito memoria, affetti e legami, lasciando in superficie un’umanità che ha perso il senso della propria esistenza. E ne Il tocco del peccato del 2013, la vita quotidiana delle nuove generazioni della periferia cinese viene descritta come un incubo di solitudine e di violenza psicologica. Ma quello di Jia è un cinema che non raggiunge le vaste platee di Hunger Games. Il ritmo della dolorosa coscienza dei suoi film è troppo lento per la reattività nervosa del pubblico cresciuto al ritmo dei videogiochi. Il pensiero è un atto autolesionista; e nei giochi a eliminazione, la lentezza ti trasforma in preda.