Paga per vincere

Il fenomeno delle microtransazioni sta distruggendo il mondo del gaming. Ma al di là dei videogiochi, è anche specchio dei divari sociali, economici e di tempo su cui regge la società

Nella storia produttiva dell’industria videoludica ci sono un prima e un dopo la nascita e la diffusione delle microtransazioni, un fenomeno tanto banale da spiegare quanto complesso da capire. In sostanza, per microtransazione si intende il processo d’acquisto di un contenuto di un videogioco che non è incluso nel prodotto di base. Per esempio: pago 50 € per un videogioco, e dopo spendo ulteriori 10, 20 o 30 € per comprare dei contenuti aggiuntivi del gioco stesso, come un set di costumi speciali, o delle ulteriori mappe, o delle casse speciali che, casualmente, mi danno delle ricompense, che poi posso utilizzare nel gioco. La stessa cosa può succedere nei cosiddetti «free to play», giochi gratuiti che poi presentano centinaia di acquisti «in game», cioè interni al gioco stesso, che spesso si affida addirittura a un negozio virtuale specifico e dedicato. 

La diffusione di questo fenomeno commerciale e produttivo ha generato negli anni reazioni diverse, spesso scomposte, da parte di diverse fazioni e culture del mondo videoludico. Da un lato molti hanno espresso frustrazione e rabbia per la sempre maggior presenza di contenuti percepiti come principali ma venduti come extra: si è dunque diffusa nel tempo una nuova concezione del cosiddetto «cut content», concetto secondo il quale idee produttive immaginate durante lo sviluppo di un gioco vengono messe da parte per essere rivendute successivamente. In realtà, molto spesso il cut content è invece qualcosa che viene effettivamente messo da parte in fase di sviluppo, ma per motivi legati a problemi produttivi, e non con l’obiettivo di rivenderli. Rimane il fatto, rilevante, che una componente abbastanza vocale del mondo videoludico in generale non apprezza questo fenomeno, lo combatte e arriva persino a richiedere controlli istituzionali sulle pratiche aziendali. Controlli nazionali e internazionali che si stanno effettivamente espandendo con una certa regolarità, anche se principalmente per motivi legati alla somiglianza di alcune microtransazioni con il gioco d’azzardo, più che alla presenza delle stesse in generale.

Altri invece difendono questa pratica andando ad analizzare la funzione e il carattere della microtransazione: l’azienda vende dei semplici costumi di un eroe che mi piace o altri oggetti meramente estetici? Allora la legittimo, perché gli acquisti non intervengono nel game design e nel bilanciamento, che sono le uniche cose che contano; se invece cambiano o influenzano le regole del gioco, le condanno. L’idea alla base di questa corrente di pensiero si concretizza nel «pay to win», ossia pagare per vincere: se un gioco mi propone dei contenuti a pagamento che mi rendono più forte di altri (ad esempio, un’arma più potente), allora il gioco è da criticare, perché in realtà quella «microtransazione» è obbligatoria per competere alla pari, mentre se vende solo contenuti estetici e privi di impatto ludico allora la accetto, perché sono una componente esterna al gioco. 

Analizzando queste considerazioni emerge un’idea dell’esperienza videoludica utilitaristica, funzionale al vincere o al completare il prodotto, e non a viverlo in tutte le sue sfaccettature: avere la libertà di esprimersi con i costumi che si preferiscono o con tutta l’oggettistica a disposizione è un desiderio legittimo del giocatore, soprattutto per esperienze pensate per far vivere i mondi creati dai designer, e che purtroppo viene invece sminuito dalla retorica utilitarista di questa tipologia di critiche. D’altronde, l’origine di tale retorica è la stessa che domina altre parti del discorso pubblico, dove si critica chi non arriva a fine mese perché spende in prodotti che vengono definiti «superflui» come una cena tra amici o qualche altro sfogo sociale e collettivo (cinema, concerti, ecc.). In sostanza: ciò che è importante e che bisogna garantire al giocatore (così come al cittadino) quello che serve a competere, e non a vivere. È proprio su questa distinzione certificata dagli stessi consumatori che le aziende videoludiche hanno impostato la loro narrazione pubblicitaria per più di una generazione, descrivendo le microtransazioni in vendita con frasi simili: «il contenuto è extra», «non è necessario per finire il gioco», «dedicato a chi ha poco tempo». 

Ed è nella relazione tra il tempo investito e lo svago generato dall’attività ludica che si individua il tratto distintivo più profondo e interessante del fenomeno microtransazioni: infatti, tantissimi dei contenuti messi in vendita sono spesso ottenibili in altri modi, ossia semplicemente «giocando» più a lungo, più spesso e ripetendo attività uguali o simili rispetto alla media. Vuoi il vestito particolare dell’eroe che ti piace? O spendi soldi reali, oppure ripeti l’attività che te lo garantisce, dedicando più tempo a un compito specifico interno al gioco. In sostanza, più le microtransazioni sono finalizzate al far risparmiare tempo al consumatore, e più il ricorso a queste ultime sposta il valore del videogioco da esperienza a lavoro. Sì, perché è proprio questo che ci si riduce a fare, in molte delle attività videoludiche odierne: l’opera non è più percepita come un’esperienza da vivere nel suo complesso, ma come una serie di azioni volte a raggiungere un obiettivo che, una volta ottenuto, perde ogni significato (o quasi) fino all’arrivo del nuovo contenuto. 

Investire dieci o quindici ore nella stessa identica e ripetitiva attività pur di ottenere un’arma più potente non è videogiocare, ma lavorare. Perché? In fondo, finché «mi diverto», è sempre gioco. È chiaro che ognuno trova sfoghi in modo personale, ma il punto è che bisogna proprio distinguere cosa cerchiamo come sfogo personale e cosa invece è game design, e soprattutto bisogna inquadrare i perché di certe regole ideate dal designer stesso. L’industria videoludica, la più grande, ricca e in costante crescita del mondo dell’intrattenimento, presenta oramai almeno due diverse modalità di sviluppo e ideazione delle esperienze videoludiche, che rappresentano un conflitto abbastanza marcato ed evidente, a livello creativo: da un lato, c’è chi sviluppa in funzione del comportamentismo, che guarda alle analisi di mercato, che si affida a ricerche su come poter offrire un prodotto che duri all’infinito o almeno per decine di ore, che diventi il mondo virtuale preferito (se non unico) di miriadi di utenti che cercano uno sfogo al ritorno da una pesante giornata di lavoro o di studio. Dall’altro, c’è chi guarda al videogioco come mezzo espressivo, e finalizza il suo design al messaggio che si vuole trasmettere. Per poter trasmettere un messaggio, bisogna creare un’esperienza coesa, le cui parti collaborano per l’obiettivo comunicativo, e non il contrario. L’idea stessa di microtransazione, che come spiegato prima è un acquisto che personalizza l’esperienza, modifica individualmente il messaggio, rendendolo diverso, a volte più «pulito» e altre più «sporco». 

Come detto prima, per le stesse aziende produttrici spesso tutta questa fase di «gioco» può essere saltata acquistando direttamente microtransazioni ricche di armi o armature che altrimenti richiederebbero decine di ore e grande fortuna se le si volesse ottenere tramite valuta di gioco: questi pacchetti vengono spesso definiti proprio «time savers». Così come nella vita reale, anche nel videogioco moderno il ricco (che sia di denaro o di tempo) vive una società (virtuale) diversa da quella del povero: da recensore del pacchetto completo di Fortnite, ho potuto godere sin dalle prime fasi dell’avventura di armi particolarmente divertenti e progetti decisamente utili ai fini del gioco, e mentre mi dedicavo ad altro osservavo i miei compagni disperarsi nella costante e schematica ricerca di ciò che già avevo perché riscattato con un semplice clic. Spesso, il videogioco si manifesta come mezzo di comunicazione che crea un divario esperienziale disarmante in relazione alla ricchezza o al tempo disponibile nella vita reale, influendo anche sulla capacità di comprensione dell’opera.

C’è chi contesta il fatto che, in sostanza, il videogioco sia sempre stato questo, ed è per questo che bisogna evidenziare la sottile differenza tra progressione e ripetizione: affrontare un percorso che ci «addestra» alla comprensione e al superamento di nuove sfide è diverso dal ripetere ossessivamente e compulsivamente la stessa azione nello stesso contesto. In sostanza: se in Super Mario affrontiamo livelli in sequenza diversi tra loro per migliorare le nostre abilità in vista del nemico successivo, in Destiny individuiamo la missione più remunerativa, e la ripetiamo fino a quando non avremo ottenuto casualmente ciò che desideriamo. Il tratto distintivo di decine di esperienze videoludiche odierne è proprio quello di rispecchiare gli elementi caratteristici della cultura che le produce: blocchi da consumare, simboli competitivi di società fortemente antagoniste, dove a dominare è più lo scontro individuale che la collaborazione collettiva. 

È da questo complesso e intricato sistema di gestione del tempo e di design di mondi virtuali che nasce l’errata convinzione che il videogioco alieni l’utente, paralizzandone la voglia di partecipare in società: è invece la società stessa, con l’imposizione dei suoi ritmi e dei suoi standard irrealizzabili, che spinge l’utente a fuggire in altri tipi di collettività, quelle virtuali, in cui si ha teoricamente più controllo sul come, cosa e perché mostrare qualcosa di sé. L’utente che investe solo il suo tempo (magari perché disoccupato o perché fortemente legato al prodotto) diventa allora una strana tipologia di forza lavoro a disposizione dell’azienda (che infatti «vende» i numeri degli utenti attivi agli azionisti), utile a riempire i server che altri utilizzeranno per poter mostrare la loro nuova sfavillante proprietà. Ed ecco perché microtransazioni e ricompense esclusive funzionano di più nel videogioco online che in quello offline: nei microcosmi generati da quei mondi, la società funziona proprio come quella reale. 

Fortunatamente, il mondo del gaming virtuale non è rappresentato esclusivamente da queste esperienze, e persino nel panorama delle grandi produzioni emergono saltuariamente (Sea of Thieves, Death Stranding) opere che cercano (un passo alla volta) di sfruttare la splendida idea dei mondi virtuali da vivere in gruppo, senza però renderla un mero decoro rispetto al vero obiettivo principale, che è quello di mettere tutti gli utenti in costante e assoluta competizione tra loro. È però proprio per la qualità, la bellezza, la complessità e il fascino di questi mondi virtuali che oggi le esperienze videoludiche  rappresentano uno dei luoghi di fuga preferiti da quelle fasce sociali prive di opportunità lavorative, umane ed economiche decenti, che si dedicano a queste attività per fuggire dall’opprimente realtà che li circonda. Prima di essere tema di dibattito tra formalisti del game design ed esteti del videogioco, la diffusione, le tipologie e le particolarità del fenomeno microtransazioni sono un tema culturale e sociale determinante, che meriterebbe un’attenzione più profonda rispetto al (pur necessario) dibattito sui loro legami con il gioco d’azzardo. La speranza è che con il maturare del settore critico e creativo del videogioco, si maturi anche una maggiore coscienza culturale nei confronti del fenomeno.