Artwork di Keith Rankin

Elettronica iperrealista

Orange Milk Records è tra le etichette più importanti dell’underground elettronico anni Dieci. Conversazione col fondatore Keith Rankin a proposito di post-vaporwave, sonorità HD e medioevo digitale

Scomodando Jean Baudrillard, la «sostituzione del reale coi segni del reale» (i modelli cioè) ha creato un’iperrealtà fatta di simulacri in cui non esistono più concetti come «significato» o «verità». Il capitalismo maturo ha portato a compimento quel processo che tende a delegittimare il bisogno primario in favore di valori direttamente connessi a una disperata e insensata scalata sociale: emblematico in questo scenario è il ruolo della comunicazione, imperniato sullo smistamento sempre più istantaneo di informazione e pubblicità. Tutto ciò determina la fine dell’individuo tradizionalmente inteso, dotato di idee e soprattutto potere nei confronti della produzione e degli oggetti. Le finalità scompaiono, così come svanisce la realtà, perché quest’ultima «ha coinciso con uno stadio determinato della legge del valore», ma al giorno d’oggi non c’è semiotica che funzioni: tutto è simulacro – appunto. È il caos.

Il crollo della realtà nell’iperrealismo investe qualsivoglia forma di determinazione, i prodotti artistici in primis. Se è vero infatti che «l’irrealtà non è più quella del sogno o del fantasma, d’un al-di-là o d’un al-di-qua, [ma] quella dell’allucinante somiglianza del reale a se stesso» e che la virtualità ha commesso Il delitto perfetto nei confronti di tutta quella serie di illusioni, apparenze e fantasie che consolidavano la realtà, cosa c’è di più fittizio di quelle espressioni culturali che si servono di tecnologie avanzate per descrivere il reale? O meglio, per imitarlo: il realismo paradossalmente, proprio nel suo tentare di duplicare il reale, inaugura la crisi della rappresentazione.

Ora, un settore di nicchia che ha suggerito le più interessanti proposte musicali degli ultimi anni è certamente l’elettronica hi-tech. Un particolare tipo di elettronica, sostanzialmente, lanciata da Far Side Virtual di James Ferraro nel 2011, poi proseguita fino ad oggi da personaggi come Daniel Lopatin, Fatima Al Qadiri, Arca, Holly Herndon e molti altri. I dischi di questi musicisti hanno molto a che vedere con il realismo di cui si parlava poco sopra: basti pensare agli swoosh rubati a Skype inseriti nella muzak da centro commerciale di Ferraro, o ai bossoli della guerra del golfo che cadono a terra in Desert Strike di Fatima Al Qadiri, disco chiave del Gulf Futurism; o ancora al sistema net concrete, ideato da Mat Dryhurst per rubare i suoni dell’attività on line nell’album Platform di Holly Herndon; senza considerare altri esempi come quello di TCF che si è servito di un astruso sistema algoritmico modellato sulla tecnologia Blockchain per il suo album del 2014 dal titolo esemplificativo: 415C47197F78E811FEEB7862288306EC4137FD4EC3DED8B.

Non sembra imprudente affermare che quel genere di elettronica abbia già ampiamente rilasciato le sue perle migliori. Continuano ad uscire album notevoli, ma dischi realmente significativi, che cambiano le carte in regola, non se ne ascoltano da un po’. Credo questo sia ormai un fatto. Eppure l’etichetta Orange Milk, pur essendo di diritto annoverata nel genere, riesce in qualche modo a raggirare questa crisi della rappresentazione. Il successo dell’impresa è dovuto al suo restare dentro e al tempo stesso ai margini di questo genere, servendosi solo in maniera critica o ironica, financo spudoratamente grottesca, di quel realismo tecnologico di cui si parlava poco sopra. L’intento dei due soci e fondatori di Orange Milk, nonché musicisti presenti nel catalogo, Keith Rankin e Seth Graham, è quello di creare mediante ogni uscita qualcosa di inedito: un profilo, una prospettiva, un’immagine. Anche perché, tornando a Jean Baudrillard, l’unica cosa che resta in piedi sulle sue solide fondamenta in «questa iperrealtà dei valori fluttuanti» è proprio l’immagine. «Le masse cercano un’immagine e non un significato», e infatti ascoltando l’ultimo lavoro a nome Giant Claw (progetto dello stesso Rankin) nel quale spicca un violoncello HD che più iperrealista non si può, si capisce come questi codici semiotici vengano intenzionalmente dirottati verso un corto circuito sul quale risulta davvero difficile orientare una parvenza di senso; mentre nel video di «Dark Web 003» (ancora di Giant Claw) il plasticismo della forma viene spinto al limite del parossismo: e cos’è una forma se non un modello?

Giant Claw, «Dark Web 003»

Addirittura più astratti i lineamenti da musica concreta tirati in ballo da Seth Graham e Ross Birdwise, commentabili forse solo dopo aver riletto il manifesto de I nuovi Realisti redatto da Pierre Restany, o più semplicemente tenendo a mente che il disco di Birdwise è titolato Drunk Formalism(s). Tutto questo è infatti possibile grazie a una proposta sempre varia, caratterizzata da un’ampissima libertà che spazia dal prog all’elettronica più sperimentale, passando per la musica classica; senza contare il lavoro, di certo non marginale, di Keith Rankin come illustratore e designer: è lui che cura personalmente l’artwork di ciascuna uscita, e oltre che sonoramente è infatti proprio visivamente che l’etichetta è prontamente riconoscibile.

In effetti, il termine «hyperrealism» è già stato usato in ambito musicale. Il compositore americano Noah Creshevsky, allievo di Nadia Boulanger e Luciano Berio, lo impiegò per descrivere i suoi lavori fortemente influenzati da Raymond Kurzweil, il teorico della Singolarità Tecnologica. Il suo iconico album Hyperrealism (2003) è una raccolta di brani che vanno dal 1997 al 2003, così spiegati da una sua nota: «Hyperrealism is an electroacustic musical language constructed from sounds that are found in our shared environment (“realism”), handled in ways that are somehow exaggerated or excessive (“hyper”)». Ascoltare le composizioni di Noah Creshevsky, così enfaticamente situate tra l’intervento umano e quello artificiale, il reale e la copia, significa anche farsi un’idea della filosofia Orange Milk. D’altronde, l’ultima fatica di questo Creshevsky, Reanimator (un’altra raccolta di brani che va dal 1986 al 2017 con l’aggiunta dell’inedito Belle de Jour) è stata stampata proprio da Orange Milk quest’anno.

Il disco in questione non è di certo un unicum, anzi, ben si sposa con le sonorità dell’etichetta. Nella pagina Bandcamp dedicata all’album il brano di apertura Strategic Defense Initiative viene descritto come un evidente precursore del «post-90s computer music movement»: ovvero, uno dei tanti influssi che va a canalizzarsi nei lavori prodotti dalla label. Quest’ultima nasce intorno al 2010 in un’America che aveva partorito vari rigurgiti psichedelici che alle volte puzzavano di noise, altre volte di lounge-pop rigorosamente lo-fi. Per questo motivo passerà a far loro un saluto gente come Aidan Baker o Sean McCann (che resterà poi un collaboratore – è suo il mastering di Reanimator, ad esempio). Poi arrivò il momento vaporwave che vide Keith Rankin protagonista, anche per via del suo progetto death’s dynamic shroud.wmv. La matrice vapor caratterizzerà non poco l’identità delle loro uscite, per rarefarsi vieppiù con dischi letteralmente assurdi come quelli di Giant Claw, Seth Graham, Foodman, Jung An Tagen (prima di passare a Editions Mego), DJWWWW, Nikmis, Eq Why, NV (prima di passare a Rvng Intl.), Nico Niquo, Nmesh, Tropical Interface, Ross Birdwise e David Kanaga (prima di tornare a fare videogiochi).

L’ondata vapor fu vissuta in prima persona da Rankin anche perché ai tempi era editor presso la rivista che sin dal primo momento scommise sulla presenza di un valore reale di quelle sonorità, ben nascosto sotto a strati di ironia: Tinymixtapes. Forse anche per questo motivo Keith si è rivelato essere l’interlocutore ideale per l’intervista che trovate qui sotto.

Artwork di Keith Rankin

Keith, sono curioso di sapere qualcosa sul tuo rapporto con Seth Graham. Come vi siete conosciuti esattamente? Come decidete quali album pubblicare?Ci siamo incontrati quando eravamo ragazzi suonando in Ohio, nel Midwest, dove non c’erano molti altri artisti che ci interessavano e che conoscevamo personalmente. Così all’inizio abbiamo contattato quelli di cui eravamo fan: c’era una scena underground di gente che registrava cassette e rilasciava un sacco di materiale con i synth, cose avant-garde e altra roba che ci piaceva, quindi è proprio così che il tutto ha cominciato a prendere forma. Inoltre volevamo un posto per la nostra musica. Ora riceviamo moltissimi demo, e devo dire che è interessante condividere una visione globale delle diverse scene locali.

Esiste un disco tra quelli che avete pubblicato, diverso dai tuoi e quelli di Seth, che è particolarmente importante per te?
Il primo album di Foodman e Ez Minzoku, perché era uno dei nostri primi artisti, poi in pochi anni è cresciuto così tanto. Anche Chitokyo Mixtape di Eq Why, perché avevamo rilasciato un sacco di roba fatta coi synth e musica ambient e quel nastro ci ha aiutato a cambiare la nostra percezione. Era anche la prova che diverse scene underground, in quel caso avant-garde e footwork, potevano coesistere e condividere più cose in comune di quanto si possa pensare a prima vista.

Invece il tuo progetto Giant Claw? Ho visto un video fantastico dove con delle bacchette bastonavi qualcosa…
Ahahahah! Uso un drum pad sampler per le mie esibizioni dal vivo, credo tu abbia visto quello. Per quanto riguarda la registrazione, all’inizio metto tutto sul mio computer, poi quando un pezzo è finito lo decostruisco in piccoli pezzi e lo carico sul pad per le esibizioni dal vivo.

Parlami del tuo rapporto con la vaporwave.
Negli anni 2010 ero un editor del sito Tinymixtapes ed eravamo sempre alla ricerca di interessanti sottoculture musicali; la prima vaporwave era qualcosa che amavamo e sostenevamo. Tutto ciò accadeva anche in un periodo in cui mi stavo allontanando dall’uso dei synth nella mia musica per favorire un più ampio uso del computer per quanto riguarda la composizione. Il sito internet SPF420, fortemente associato alla scena vapor iniziale, mi chiese di fare uno spettacolo in streaming con Foodman e il gruppo footwork giapponese Paisley Parks: credo sia stata quella la connessione originaria nella testa di alcune persone.

Una delle tue band è il supergruppo death’s dynamic shroud.wmv e siete stati pubblicati da Dream Catalogue, etichetta che mi sembra tra le più eccitanti di questo periodo. Sei in contatto con il misterioso David Russo (fondatore di Dream Catalogue)?
No, non sono in contatto con lui. Cerco di evitare un sacco di scene vapor attuali perché penso non si facciano problemi ad accettare troll e persone di estrema destra.

Be’, questo mi sembra ammirevole. Quali sono le scene contemporanee che consideri più interessanti?
Mi piacciono molto alcuni intensi progetti di sound design, come il collettivo Eco Futurist, e anche il lato più morbido di quello stile, come per esempio Holly Waxwing. Ovviamente anche la scena «Hi-tech» è vicina a me, anche se non so mai come chiamarla veramente. Penso che la cultura fluisca in modo naturale e che gli artisti si influenzino a vicenda in maniera molto rapida, così che risulta difficile definire con chiarezza le sottoculture troppo a lungo. Non appena viene coniato un nuovo genere il significato originale evapora o si divide in mille parti. Una delle cose che più mi piace, infatti, è scoprire un’interessante pagina Soundcloud di un’artista sconosciuto e ascoltare il mondo sonoro che ha iniziato a creare, come un piccolo microcosmo di idee sepolte.

Il lavoro che stai facendo con Orange Milk è davvero unico. Personalmente adoro le copertine e i disegni che realizzi. C’è questa componente di sospensione metafisica che ricorre in ogni diverso progetto e fa venire in mente il surrealismo, Giorgio De Chirico, Giorgio Morandi, ma anche gente come Takeshi Murata…
Amo gli artisti che hai citato, i primi pittori surrealisti, gli artisti dell’aerografo degli anni Settanta e Ottanta, lo stile rave dei Novanta e l’arte e il design 3D più recenti, e molto altro ancora. Ma ogni volta che mi viene chiesto qualcosa circa le mie influenze devo inevitabilmente fare riferimento alla cartella delle immagini che tengo sul mio computer, che è per me un’enorme fonte di ispirazione. Ogniqualvolta vedo un’immagine che mi piace online la salvo, quindi nel corso degli anni ho raccolto migliaia di immagini, dalle quali attingo, selezionandone alcune, quando ho bisogno di una spinta. Alla fine non è poi così diverso da un profilo Instagram personale o da una pagina Tumblr, ma per me questo metodo si è sempre rivelato più naturale, e forse involontariamente garantisce uguaglianza a tutti i tipi di artisti, vecchi e nuovi. Appiattisce la percezione della storia, quando vedi De Chirico e Takeshi Murata (per usare quelli che hai citato) fianco a fianco nella galleria virtuale.

Immagino sia proprio così! Per caso ti interessa il realismo speculativo?Onestamente non ne so molto. Che la «realtà» esista o meno anche al di fuori della mente umana sembra un esercizio mentale cui non siamo in grado di rispondere. Penso però che ogni mezzo di comunicazione e di informazione sia carico di un enorme bagaglio culturale che varia da persona a persona, dipende poi da ognuna di queste la possibilità di rendersi consapevole di quelle diverse percezioni oppure no.

Quindi il passato è molto importante secondo questa concezione di… chiamiamola cultura.
Diciamo che gli obiettivi del rétroismo di solito corrispondono semplicemente nel ricreare il passato in un lacunoso vuoto, mentre gente come James Ferraro, Daniel Lopatin e molti artisti di Orange Milk sono più interessati a valutare il passato come una cosa non fissa, o quantomeno a evidenziare come cambiano drasticamente le percezioni nel tempo.

La vostra etichetta è nata in seguito al fermento noise della scena americana. Nel vostro catalogo c’è gente come Aidan Baker e Sean McCann, per esempio. Questo mi sembra in continuità con una cosa che penso: l’elettronica hi-tech nasce perlopiù dalle ceneri del noise americano. James Ferraro e Daniel Lopatin provengono da lì, ed è da lì che provenite anche voi…
Sì, certo! Ogni stile evolve e si modella in qualcos’altro. Credo che gran parte di questo processo sia dovuto a un fattore generazionale: la nostra memoria culturale arriva solo fino a un certo punto, quindi ora ascoltando questi artisti si vanno a toccare vecchie idee in modi nuovi, ma al tempo stesso cercando di portare il tutto in una dimensione successiva e ulteriore. Penso che la cultura si muova come un Blob. Molti artisti sono in sintonia con gli altri che si trovano nelle loro vicinanze, assorbendo ciò che ognuno sta facendo, aggiungendo la propria voce e spostando continuamente le idee in direzioni diverse come uno stormo di uccelli. A volte sembra che certe intuizioni musicali stiano fluttuando nell’aria, sul picco di una generazione collettiva di menti, e siano gli artisti a interpretare queste idee o a renderle pienamente intellegibili.

Molti dei dischi da voi pubblicati ricordano la musica classica, il prog e addirittura il Canterbury sound: sto parlando di Nikmis, Eq Why, Maharadja Sweets, Larry Wish e la musique concrete del terzo millennio di Seth Graham e Ross Birdwise. Ascoltando il tuo pezzo «Deep Thoughts 009» vengono in mente i duetti tra Philip Glass e Michael Riesman di Dance Nos. 1-5, mentre «Soft Channel 006» suona come le suite per violoncello di Bach. Sembra che la musica classica, nella sua natura essenziale, sia particolarmente adatta a questa recente nuova musica elettronica (oltre a te, Ferraro e Lopatin di nuovo). C’è addirittura chi ha parlato di Medioevo digitale. Cosa ne pensi?Sono sicuro che ci sono molte ragioni per cui in generale si è attratti dal suono, e parte di questo è puramente inerente alla composizione. Il desiderio di ascoltare melodia e armonia organizzate in un certo modo fa sì che il più delle volte queste finiscano per sembrare «musica classica», perché è così che la musica occidentale è stata arrangiata per centinaia di anni. Gli strumenti digitali più recenti possono replicare più chiaramente suoni di orchestra realistici, in modo che l’intera tavolozza sonora sia aperta a compositori da computer – cosa che ho trovato personalmente emozionante. La musica elettronica sta iniziando a significare «any-sound music».

Credi che questa nuova ondata HD sia riuscita in qualche modo ad arginare parzialmente le infiltrazioni retromaniache presenti nella musica da almeno vent’anni?
Intendi dire se questa possa essere intesa come «nuova musica» o se la cultura in generale sia troppo ossessionata dal passato e dall’essere rétro?

Ambedue le cose. Sembra che dopo la scena rave nessuno si sia interessato al concetto di futuro per molto tempo. Dopo l’uscita di Far Side Virtual di James Ferraro (2011) molti artisti – tra cui i vari Daniel Lopatin, Fatima Al Qadiri, Arca, ecc. – hanno cominciato a realizzare una serie di dischi con sonorità contemporanee, sterilizzando il loro suono da qualsiasi tendenza lo-fi, e soprattutto retromaniaca. D’altronde, Retromania, il celebre saggio di Simon Reynolds era uscito proprio nel 2011 e lamentava l’incapacità di saper rinnovare culturalmente, tipica di quel periodo. Da quel momento in poi una serie di artisti prese a rigettare qualsiasi discorso sull’autenticità o sulle radici per provare a creare qualcosa di nuovo, orientato al futuro…
Nuovi tipi di musica di solito evolvono insieme alla nuova tecnologia, i due sono strettamente collegati. Molti artisti che vengono chiamati Hi-Tech o HD sono legati a tecnologie musicali di livello consumer, programmi come Ableton, synth digitali come Serum, o strumenti di modellazione fisica reale del suono che usano mezzi interamente digitali. Per quanto ne so, molti dei suoni fatti su quegli strumenti digitali sono nuovi in senso letterale, nel senso che in passato non è stato possibile produrli. Ma la maggior parte delle persone li legge come nuovi? Non sempre, certamente, ma in molti contesti penso che lo facciano. C’è quindi questa tendenza a vedere la musica che utilizza in modo prominente le nuove tecnologie come qualcosa di futuristico.

Le recenti generazioni di strumenti digitali a DAW (digital audio workstation) possono anche essere rintracciati nella musica popolare contemporanea degli Stati Uniti, come trap e R&B. Artisti come Young Thug, Future e metà di quello che si ascolta qui alla radio non mi sembrano affatto rétro. Penso che stili del genere, che di solito sono minimali e basati su una base pesante di sub-basso, potrebbero essere ricordati come la definizione di un segmento importante del nostro ultimo decennio o giù di lì, un po’ come il pop degli anni Ottanta è ricordato per il suono del Gated Reverb e i suoni da tastiera preimpostati del DX-7. Ma c’è anche la possibilità di un cambio di paradigma: siamo abituati a concentrare i decenni passati in poche pietre miliari culturali, ma non è detto che questo avvenga anche nel XX secolo. Forse ancor prima della semplice idea di «nuovi suoni», vale la pena ricordare come l’esplosione di utenti, che presumo possano essere chiamati amatoriali, senza soldi, su internet ha iniziato a cambiare la visione lineare della storia della musica, permettendo spesso quel retro-feticismo da cui tu fai partire il tuo discorso. Per la maggior parte della storia recente sembra che istituzioni occidentali come Rolling Stone o NME abbiano cercato di creare rigide narrative a canoni musicali importanti. Ma oggi un tweet o una discussione su un forum secondario di nicchia può avere lo stesso peso di una recensione su Pitchfork, che è un grande cambiamento nelle dinamiche del potere culturale. Le aziende cercano disperatamente di ribadire un po’ di quel potere monetizzando gli account dei social media influenti e facendo una sottile pubblicità in posti dove solitamente non siamo abituati a vederla.

Non posso che assecondarti. Le tue considerazioni sul futuro?
Spero che il potenziale appiattimento del potere culturale farà sì che le nuove generazioni percepiscano la musica, e la storia in generale, più come uno scegli-il-tuo-proprio-stile-di-avventura, con molti percorsi alternativi validi e accessibili al prossimo, e non così dominate dalle grosse narrazioni scelte dal denaro. Ovviamente, il rovescio della medaglia potrebbe essere un settore iper-capitalista, forse persino fascista, non troppo diverso dall’attuale sistema K-pop, che poi è una cosa piuttosto interessante da esaminare se si sta ragionando sulla relazione tra economia capitalista e musica, non credi?