Capire il K-Pop

Per la Corea del Sud, la musica pop è diventata un magnifico strumento di «soft power». Introduzione al genere che ha soppiantato il pop giapponese nel mercato asiatico (e chissà che a breve non esploda anche da noi)

Parlare di K-Pop è molto più complesso di quanto si possa pensare. In generale, parlare seriamente di pop tout-court è molto più complesso di quanto si voglia ammettere; se poi questo pop proviene dalla Corea del Sud – un paese di cui, almeno in Italia, si parla molto poco, e il più delle volte solo quando l’argomento in questione è in realtà la sua controparte settentrionale – il discorso diventa ancora più difficile. Perché per capire davvero il K-Pop è ovviamente necessario capire almeno un po’ la Corea e il suo posto nel mondo.

Avrei potuto fare un elenco delle «canzoni che dovete assolutamente ascoltare» o dei «gruppi che dovete assolutamente conoscere»: e in effetti l’ho fatto, anche se seguendo il puro gusto personale (trovate la relativa playlist in coda all’articolo) ma sappiate che di liste simili è possibile trovarne già parecchie sul web. C’è così tanto altro di interessante da dire sul K-Pop come fenomeno, e non solo come genere musicale, che lascio a voi l’onore di mettere insieme una playlist che sia di vostro gradimento. Io piuttosto vorrei assumermi l’onere di toccare una serie di questioni di cui si parla poco sul web, ma di cui da un po’ si discute nelle università e conferenze internazionali – il che forse potrà sorprendervi.

In realtà bisogna ancora sgomitare parecchio per farsi prendere sul serio quando si solleva l’argomento K-pop. Al di là dei propri gusti musicali, e della legittima constatazione che si tratta di musica commerciale e quindi volta principalmente al consumo e alla vendita (il che però non è condizione sufficiente e necessaria per liquidare qualcosa, come invece in molti credono), l’impressione è che siano spesso altre le ragioni, più o meno consce, per cui in tanti sdegnano il pop coreano.

Innanzitutto c’è il fatto che si tratta perlopiù di boyband e girlband (un format per molti già sintomo di bassa qualità) il cui principale pubblico è costituito da ragazze adolescenti, ovvero una fetta della società i cui gusti e interessi generalmente non sono presi sul serio, e anzi è vista il più delle volte come «isterica e irrazionale», come evidenzia l’autrice di questo articolo. In secondo luogo, c’è il razzismo istituzionalizzato nei confronti degli orientali e in particolar modo degli uomini orientali, che in molti so già faranno fatica ad ammettere ma che è una realtà evidente (esempi semplici e veloci qui, qui e qui, se volete evitarvi i libri). Nel caso delle boyband, esistono poi dei sentimenti omofobi più o meno latenti, rivolti a persone di sesso maschile dall’apparenza androgina che si truccano e si depilano, e in generale abbracciano un’estetica e un’attitudine soft, «carina» e non minacciosa, molto lontana dallo stereotipo occidentale di mascolinità e bellezza maschile. Provate a far guardare questi video a qualcuno digiuno di K-Pop; scommetto che il 90% dei commenti a caldo saranno qualcosa di simile a «sono truccati!», «sembrano delle femmine» e/o «sono gay?».

Spero sia inutile ribadire che non c’è nulla di male nell’essere maschi e truccarsi, né  tantomeno è un crimine essere delle femmine o essere gay; ma la realtà è che il concetto di mascolinità varia così tanto da cultura a cultura, che in Corea questi ragazzi non risultano affatto effeminati al pubblico autoctono. Anzi, se davvero apparissero tali o se peggio ancora fossero omosessuali, difficilmente risconterebbero lo stesso successo: perché a dirla tutta, la Corea del Sud non è quello che si direbbe «un paese particolarmente gay-friendly». Va anche detto che l’immagine dei gruppi K-Pop sia maschili che femminili è comunque cambiata nel corso del tempo: ci si è sempre più allontanati dallo stile genericamente soft dei primi anni Duemila – quello ad esempio degli SHINee nel 2010 (RIP Jong-hyun) o delle Girls’ Generation nel 2009 – per passare a un’immagine più da duri e «cool», spesso ottenuta indossando vestiti e marchi reputati «di tendenza» a livello globale; un buon esempio sono le ultime arrivate BLACKPINK, o gli iKON in questo video del 2017, dove, non a caso, uno dei membri indossa una maglietta firmata 032c (una rivista di moda intelligente e di nicchia, con base a Berlino, e molto diversa da Cosmopolitan o Glamour, per intenderci).

Piuttosto, è interessante notare quali siano le vie percorse dai gruppi K-Pop per ottenere quest’immagine da duri. Per alcuni puzzano di appropriazione della cultura nera – e anche in questo caso il web pullula di articoli e video che affrontano la questione. Il tema «appropriazione culturale» è delicato, e possiamo discutere se ciò che è avvenuto nel mondo del K-Pop sia legittimo o meno, se le culture siano blocchi monolitici, se solo qualcuno cresciuto in una certa cultura abbia il permesso di essere portatore dei simboli di tale cultura, ecc. ecc.; ma è innegabile che l’abbigliamento largo, le bandane, le treccine, i dreadlocks, l’r’n’b, l’hip hop, il rap, non siano stati inventati dai coreani; e anche solo per questo il K-pop è molto meno insolito e «strano» di quanto a prima vista possa sembrare. Di fatto, il K-Pop altro non è che la versione coreana del pop anglosassone, o meglio la risposta coreana all’America, al Regno Unito e – rullo di tamburi – al Giappone.

Fino a dieci o quindici anni fa, era in effetti il Giappone a dominare la scena dell’intrattenimento in Asia. I videogiochi, i cartoni animati, i fumetti, i film, le serie tv, la moda, e la musica consumata in Estremo Oriente e nel Sud-Est asiatico provenivano pressoché in toto dal paese del Sol Levante. Vale la pena ricordare che quello nipponico è ancora il secondo più grande mercato musicale al mondo, subito dopo gli Stati Uniti; eppure i cartelloni pubblicitari che ricoprono i palazzi di Tokyo hanno oggi i visi delle popstar coreane. E la questione non si limita alla musica.

Nuove eroine del K-Pop: le BLACKPINK

Il K-Pop è solo una faccia di un fenomeno assai più grande che riguarda l’intera industria creativa e d’intrattenimento coreana, e che viene indicato generalmente con il termine «Hallyu» o «Korean Wave». Basti dire che i «drama» coreani, cioè le serie tv, hanno ormai molto più successo di quelli giapponesi non solo in Asia ma anche nel resto del mondo (ad esempio in Sudamerica, o su Netflix). La settimana della moda di Seoul è sui calendari di molti editor internazionali che adesso snobbano quella di Tokyo. Quando io stessa ho iniziato ad interessarmi di Asia dieci anni fa, il Giappone era onnipresente ed inevitabile. Di coreano conosciuto al di fuori dei confini nazionali all’epoca vi era solo la cantante BoA (conosciuta, appunto, perché cantava e canta tuttora anche in giapponese). Oggi invece la situazione si è completamente ribaltata. Perché?

Iniziamo da un particolare interessante: le case discografiche coreane, a differenza di quelle giapponesi, non hanno fatto la lotta a YouTube per i diritti, ma hanno sin da subito diffuso liberamente i video dei propri artisti. Può sembrare un dettaglio banale, ma questo ovviamente ha fatto sì che prima o poi questi video finissero nei radar di altri paesi, dati i numeri elevatissimi delle visualizzazioni (seppur concentrate in un’area circoscritta). Le major giapponesi invece hanno negato a YouTube la maggior parte dei video musicali sotto la loro giurisdizione. Un altro esempio è Netflix: anche su questa piattaforma il numero di contenuti coreani disponibili all’estero è maggiore rispetto a quello dei giapponesi, ed anche più variegata in termini di genere.

Il K-Pop è un esempio magnifico di esercizio del «soft power». Locuzione coniata dal  politologo americano Joseph Nye, il «soft power» indica com’è noto l’abilità di un potere politico di convincere, persuadere, attrarre un altro «con le maniere dolci»: insomma, non con la guerra e le armi, ma con la cultura. Quanto quello coreano sia stato un progetto intenzionale o meno, è però tutto da vedere. Se il K-Pop davvero riuscirà a imporsi sulle scene mainstream globali e non a esercitare un’attrazione e un’influenza fugace, non siamo ancora in grado di dirlo. Per ora, al di fuori dei confini asiatici, rimane ancora un fenomeno suo malgrado «underground», nonostante star come CL o G-Dragon bazzichino alle feste a Los Angeles o alle sfilate di Chanel, e ogni tanto qualche nome coreano faccia la sua comparsa su testate europee ed americane.

La stella del pop coreano G-Dragon

Non si possono però ignorare una serie di politiche volte a favorire le industrie creative (e quelle ad esse collegate, come l’industria dell’informazione tecnologica e quella della comunicazione), messe in atto dai governi succedutisi in Corea negli ultimi vent’anni. Quest’articolo, per chi volesse approfondire, lo spiega egregiamente: in breve, a partire dagli anni Novanta, le forze politiche al governo hanno smesso di esercitare un controllo rigido sulle industrie creative, e iniziato a riconoscere il loro potenziale per lo sviluppo economico del paese. L’idea insomma era che quella coreana dovesse diventare un’economia basata anche sull’esportazione di prodotti culturali. Probabilmente è stato l’interesse economico, e non politico, il motore; fatto sta che, a lungo andare, l’esportazione di tali prodotti non può che esercitare anche un’influenza di carattere politico. Ed ecco che i cartelloni pubblicitari per le strade di Tokyo con i volti delle star coreane assumono tutt’altro significato.

Quando parliamo di Giappone e di Corea del Sud, parliamo di due paesi le cui relazioni non sono affatto distese, così come non lo sono tra Corea e Cina, tra Giappone e Cina, tra Cina e Taiwan. Di conseguenza, non sono rari gli incidenti diplomatici causati dalla popstar di turno che celebra con un post su Instagram l’indipendenza della Corea dal dominio giapponese, o che sventola la bandiera del Taiwan in televisione (a proposito: vale la pena ricordare come alcune star del pop coreano non siano in effetti coreane, ma cinesi, taiwanesi, americane, e anche un paio thailandesi. Esempi sono i membri di EXO-M, sotto-unità della boyband EXO, dove M indica appunto «Mandarin», Victoria delle f(x), Chou Tzu-yu delle TWICE, BamBam dei Got7). E poi c’è ovviamente la Corea del Nord: un paese in cui  consumare prodotti d’intrattenimento del sud viene considerato tra i peggiori oltraggi perpetrati al «grande leader» Kim Jong-un, tanto che si dice che, al confine tra le due nazioni, i soldati della Corea del Sud suonino le hit del momento a tutto volume al solo scopo di infastidire i vicini.

Le hit coreane si susseguono a una velocità elevata e costante. La macchina del K-Pop è organizzata, precisa e veloce, e non ammette sgarri. Gli aspiranti idol sono ancora dei preadolescenti quando iniziano a prendere lezioni intensive di canto, ballo e recitazione, e sono costretti fin da subito a rinunciare a una vita normale – un po’ come se fossero degli atleti che aspirano alle Olimpiadi. Le relazioni sentimentali sono vietate, e in generale la loro condotta deve assomigliare più a quella dei soldati o dei monaci che a quella di una dissoluta rockstar occidentale. Personalmente però, credo che proprio questo sia uno dei fattori che più hanno contribuito ad accrescere il fascino che il K-Pop esercita all’estero. Il fatto di avere di fronte degli intrattenitori che davvero sanno ballare, che davvero sanno cantare (cosa che molte boyband e girlband occidentali non possono vantare), che le loro condotte perfette difficilmente deluderanno e allontaneranno i/le fan più sfegatati, alimenta il fascino del pop coreano presso quel pubblico non abituato a tanta disciplina e dedizione alla causa.

Dall’altra parte, non c’è dubbio che questo si traduca in una pressione angustiante che grava sugli idol costantemente. Se n’è parlato tanto a dicembre, in occasione del suicidio a soli 27 anni di una delle star più popolari del pop coreano, ovvero Jong-hyun del gruppo SHINee. Affermare però che la sua tragica decisione sia solo dovuta al «sistema K-Pop» mi sembra riduttivo, e anche figlio di quegli stereotipi sull’Hallyu e la Corea del Sud che spero con questo articolo di aver un po’, se non dipanato, almeno attenuato.

E infine, come promesso, ecco una mia personale «Introduzione al K-Pop», naturalmente tutta su YouTube. Vi avverto che sono ben quarantacinque video, quindi prendetevela comoda. Buona visione e buon ascolto!