Dialettica del pop

Avicii vs. Sunn O))), Rihanna vs. Daft Punk e tutti vs. Adorno: appunti per una guerriglia critica a partire dal saggio «Dialectic of Pop» di Agnès Gayraud

Su YouTube circola, ormai da anni, una serie di brevi video ucronici, nei quali il filosofo tedesco Theodor Adorno ‒ feroce critico, tra gli anni Cinquanta e la fine degli anni Sessanta, della musica prodotta dall’allora nascente industria discografica ‒ viene costretto, come in una specie di Inferno digitale, ad ascoltare brani vaporwave. Il volto dell’anziano teorico esprime dubbiosità e malcelato disprezzo, in una sorta di pacata costernazione dinanzi a un abominio musicale. Tale ingegnosa sovrapposizione audiovisiva risulta doppiamente ambigua: da un lato, essa si presenta come indubbiamente umoristica (la stessa assurdità dell’accostamento contribuisce a produrre tale effetto); dall’altro, è difficile non pensare a una sorta di vendetta o, meglio, di contrappasso, in virtù del quale Adorno ‒ il «gran spregiatore» del pop ‒ è oscenamente obbligato ad ammirare l’ultima, perversa creatura generata dal mercato culturale. Il trionfo di un’entità immortale e ricombinatoria sulla finitudine del critico. 

Ma cosa stava ascoltando originariamente Adorno in questi quaranta secondi, cosa lo turbava a tal punto? Il frammento risulta tratto da un’intervista televisiva del 1967, condotta dal giornalista tedesco Dagobert Lindlau; in quel breve intervallo di tempo, Lindlau sottoponeva ad Adorno l’inno nazionale della Germania dell’Est, Auferstanden aus Ruinen («Dalle Rovine Risorgiamo») ‒ composto da un amico di vecchia data del filosofo, il compositore Hanns Eisler (allievo di Schoenberg e autore di colonne sonore per cinema e teatro). Il lapidario commento di Adorno al brano ben si accosta alla sua espressione perplessa: 

Uno come Eisler, ovviamente, sarebbe perfettamente in grado di declamare alla perfezione ‒ ossia di stabilire con esattezza testo e musica, in accordo al ritmo delle parole. In questa occasione, tuttavia, gli è stato sufficiente restare a un livello primitivo, privo di qualsiasi ambizione […]. Dato che, in realtà, Eisler è solito reagire in modo assai più elaborato nel comparto ritmico, non si fa alcuna fatica ad accorgersi di ciò, finendo per rimanere delusi. In altre parole, Eisler assomiglia al lupo cattivo delle favole: ha ingoiato del gesso affinché Cappuccetto Rosso potesse scambiarlo per la Nonna.

Una sferzata ironica, alla quale, in altro luogo si accompagnano numerose considerazioni sparse, altrettanto impietose: «L’evidente debolezza dei suoi lavori degli anni Cinquanta: è qui che qualcosa dev’essere accaduto. Si è trovato costretto a comporre malamente. Va a suo onore il fatto di essersi davvero impegnato a comporre così male. Quanto risultano povere all’ascolto queste semplici cose, andandosele a risentire oggi […] così piatte da esser state ridotte a luogo comune».

Nelle scenette in cui Adorno ascolta la vaporwave, l’assalto a testa bassa del filosofo-critico ‒ la sua denuncia nei confronti dell’ammiccante semplicità e della debolezza sonica dell’inno della Germania dell’Est ‒ deve necessariamente essere escluso dal montaggio; ne va non solo dell’effetto umoristico, ma della stessa consistenza della pena inferta. È proprio da questo spazio di elisione che diviene manifesto come la sua aria sofferente non sia indice di un «troppo» musicale ma, all’inverso, di un «troppo poco». Un’accusa di depotenziamento volontario, cosciente e calcolato ‒ una «mascherata» (da lupo a nonna) che si estende collateralmente, a tutto il progetto secessionista tedesco. Vi si potrebbe addirittura individuare un’ulteriore allusione: Eisler ‒ al tempo noto per le sue colonne sonore ‒ non avrebbe composto un inno, ma un «tema nazionale», un carillon di infima qualità.

Trasponendo tale risposta dalla questione tedesca a quella della vaporwave, l’effetto negativo non verrebbe solo preservato, ma addirittura dialetticamente moltiplicato: cosa ne è stato della vaporwave? Quali sono stati i suoi effetti? In quali modi essa ha tentato di imporsi e di oltrepassare ciò che l’ha preceduta? Non è forse sufficientemente evidente come l’assimilazione dello stile «vapor» all’interno della cultura audiovisiva del Nuovo Medioevo Digitale abbia rappresentato l’equivalente sonico della caduta del Muro di Berlino? Si tratterebbe, in questo caso, di uno specifico momento di sintesi o, meglio, di «assorbimento», ripetutosi più e più volte nel corso della storia dell’industria discografica ‒ e dei suo margini più remoti. Attraverso i fenomeni del revival e della «retromania», maturati nel corso degli ultimi vent’anni, la riproduzione espansa del capitalismo discografico si è estesa dall’assimilazione geografica (tipica del settore della musica «etnica» e new age, ma non solo), all’assimilazione cronologica ‒ filtrando accuratamente i materiali musicali, dando così origine a un’immagine distorta e parziale del passato.

Ciò che la diatriba Adorno-Eisler rende manifesto, è uno dei punti centrali della critica musicale adorniana: l’«insufficienza» dei materiali e, in particolar modo, della loro elaborazione da parte del compositore, è ciò che, più di ogni altra cosa, pregiudica l’opera d’arte musicale. D’altra parte, uno dei principali conseguimenti dell’industria culturale (nonché la sua principale fonte di guadagno) sta proprio nell’essere riuscita nell’impresa di forgiare un’abitudine all’«accontentarsi» ‒ che accomuna tanto il compositore quanto l’ascoltatore.

La duplice ambiguità del modo di produzione jazzistico starebbe, pertanto, nella falsa liberazione da un passato di schiavitù ed emarginazione ‒ accoppiata alla falsa coscienza di un autentico «progresso».

La forma del jazz a venire

In diversi scritti dedicati all’estetica musicale, Adorno oppone una delle ultime creazioni della musica «colta», lo stile atonale ‒ ideato da Arnold Schoenberg ‒ non solo alla musica tonale (ciò che oggi viene comunemente denominato «musica classica») ma anche, e soprattutto, alla musica diffusa dalle radio e performata nei locali nel corso del dopoguerra: il jazz, lo swing, la musica da salone e il bebop, ai quali il filosofo dedica una lunga serie di analisi profondamente disincantate. Per Adorno, la nuova musica che, negli anni del dopoguerra, si propaga in ogni dove, offre al critico una panoramica sulle tentazioni «gastronomiche» e «seduttrici» di un Capitale che ha fatto dell’inganno la propria principale tecnica di riproduzione ‒ il tono di ogni merce forgiata dall’industria culturale, scrive Adorno in Minima Moralia (1954), è «quello della strega che somministra il cibo ai piccoli che intende ammaliare o divorare». Tra gli effetti di tale mimesi predatoria sulla produzione musicale vi sono: l’appropriazione culturale, l’ostinata riproposizione dell’identico, la formazione apodittica del gusto attraverso la distribuzione di massa e la pubblicità, la mortificazione del talento e dell’espressione individuale, la graduale perdita delle competenze tecniche. Per Adorno, la semplificazione e la resa insufficiente dell’opera musicale di consumo ‒ e degli immaginari che attorno a essa orbitano ‒ non rappresentano degli incidenti di percorso, ma l’effetto di una volontà programmatica. Se, da un lato, Adorno è noto in particolar modo per la sua ostilità nei confronti del jazz, dall’altro, non si può sorvolare alcuni importanti nodi della sua critica, senz’altro capaci di illuminare il piano sul quale tale ostilità si pone. Alcuni passaggi di Sul jazz ‒ uno degli scritti più noti di Adorno ‒ esemplificano brillantemente la questione: 

Non vi è nulla di arcaico nel jazz; in compenso, vi è molto di ciò che è stato prodotto dalla modernità tramite il meccanismo della soppressione. A essere liberati, sotto forma di ritmi standardizzati e scariche esplosive standardizzate, non sono tutta una serie di istinti arcaici e repressi, ma nuovi, mutilati istinti repressi, imbalsamati e mascherati a foggia di quelli di un lontano passato.

Poco prima Adorno si era espresso ancora più duramente, rimarcando come «il rapporto tra il jazz e i neri» sia «simile a quello tra la musica da salone e violinisti girovaghi, laddove la prima è fermamente convinta di aver trasceso la musica gitana». La denuncia del jazz come genere neocoloniale si accompagna a una critica stilistica: per il filosofo, nel free jazz (o stile «caldo») l’improvvisazione ‒ unico elemento, per Adorno, degno di vero interesse ‒ si riduce a un molle abbandono ai flutti del caso; i prodotti di questa contingenza involontaria, a loro volta, vengono rapidamente convertiti e codificati in nuovi standard pret a porter, finendo con l’essere accuratamente selezionati e riprodotti dal regime discografico ‒ nonché reintrodotti all’interno delle scene musicali in qualità di «materiali grezzi». 

La duplice ambiguità del modo di produzione jazzistico starebbe, pertanto, nella falsa liberazione da un passato di schiavitù ed emarginazione ‒ accoppiata alla falsa coscienza di un autentico «progresso» ‒ ma anche nella passività dinanzi ai caratteri specifici della nuova musica ‒ il caso e la codifica degli standard, entrambi deprivati di un’adeguata cornice metodologica e culturale. Per Adorno, il carattere radicale del jazz si esaurisce in un’involontaria riscoperta dello stile tonale della musica classica; questa reintroduzione del vecchio nel nuovo è un fattore determinante nel depotenziamento sonico del jazz, un indebolimento incoraggiato dal mercato, sempre alla ricerca di nuovi prodotti di facile consumo, e dal gradimento da parte del grande pubblico, costantemente affamato di leccornie musicali. Sul jazz si conclude con quella che si è ormai tramutata in una profezia: 

Il jazz, l’amalgama della marcia [espressa dal ritmo in 4/4 e dal massiccio ricorso a orchestre di origine militare; nda] e della musica da salone, è un falso amalgama; l’amalgama di una soggettività distrutta e del potere sociale che la produce e che la elimina, e che la oggettifica per mezzo di questa stessa eliminazione. Ciò è vero anche nei coloriti termini di un’unità dello pseudo-liberato e dello pseudo-immediato, nonché della basilare misura collettiva della marcia; un suono soggettivo-espressivo; un tono soggettivo che si dissolve in se stesso, rivelando il proprio carattere meccanico […] [Il jazz condensa in sé] una soggettività in rivolta contro un potere collettivo di cui egli stesso fa parte; è per questo motivo che tale rivolta appare ridicola, ed è per questa stessa ragione che essa finisce per essere soppressa dalla batteria, allo stesso modo in cui il sincopato è soppresso dal battito ritmico […] si rendono manifesti gli elementi nobilmente militaristici, diabolicamente armonici, della marce sinfoniche del jazz, la pura compattezza dei quali non lascia più alcun spazio all’umano. Giunto a questo punto, il jazz si sarà diramato nei suoi poli originari [la musica da solone, incentrata sulla voce, e lo swing, la musica da ballo; nda], mentre la musica «calda» nel mezzo, ben presto condannata allo stato di «classico», perpetuerà una scarna esistenza specializzata. Quando ciò accadrà, il jazz si sarà lasciato alle spalle ogni possibilità di redenzione. (Adorno, On Jazz, 1936; traduzione mia in ogni estratto).

Divenendo sempre più marcatamente un’arte della misura ‒ dall’andamento scarno, meccanico e prevedibile ‒ il jazz fa suoi gli incubi delle marce militari del totalitarismo, tramutandosi nella colonna sonora dell’Impero capitalista e sopprimendo ciascuna delle sue caratteristiche distintive. L’improvvisazione, ridotta a «classico» (ossia a forma reificata), non è altro che l’ennesimo dispositivo in mano alla musica colta di matrice reazionaria: pura, intoccabile retromania. È in occasione di tale trasformazione che si rende evidente la matrice potenzialmente apodittica e autoritaria del free, nella sua falsa immediatezza: qualsiasi libera scelta e ogni apparente frutto del caso sono il prodotto di un feedback positivo proveniente dal mercato discografico; ciò fa sì che il condizionamento sociale sia il vero motivo per cui abbiamo compiuto una scelta piuttosto che un’altra. Per questa stessa ragione, ogni proclama, ogni manifesto che affermi una totale libertà metodologica e una totale purezza espressiva del soggetto, nasconde a sua volta una più segreta impostazione metodologica ‒ spesso ignota allo stesso compositore. Nel mentre, il «bel canto» e la «musica da ballo» (i due esponenti più propriamente soggettivo-espressivi della musica radiofonica) si spartiscono, come avvoltoi, i resti dell’ascoltatore: da un lato, un’ingiunzione al sentire (nel duplice senso di un ascolto profondo e di una comunanza affettiva), dall’altro, un’ingiunzione a godere (attraverso il rilascio esplosivo e dionisiaco dello stress). 

In Sul jazz si può già intravedere sullo sfondo la figura della «star» maledetta, dell’autore (il più delle volte un falso autore) della hit da classifica: il burattino che, pur esponendo in piena luce la propria abiezione e la propria natura di emarginato, finisce per essere pienamente reintegrato all’interno della società in un secondo momento (è il ben noto caso di molti rapper, di diversi punk della prima ora, ma anche il nucleo di verità contenuto nel luogo comune del fatidico «secondo album»).

È proprio questa indole paranoica a caratterizzare la critica come «disciplina del sospetto» ‒ e a configurare il critico come una sorta di guerrigliero estetico, perennemente all’erta, occultato tra le fronde di una sconfinata giungla discografica.

Il pop divorerà se stesso

La severa attitudine del critico rischia, d’altra parte, di pregiudicare programmaticamente ogni ascolto, tracciando netti confini tra ciò che è arte e ciò che è merce. Di fatto, nulla sopravvive al crash test frontale al quale Adorno sottopone i brani propagati dalle stazioni radio: ovunque, a ogni angolo, è possibile riscontrare una mancanza di integrità morale, politica, antropologica e sonica.

Nel suo Dialectic of Pop (Urbanomic 2019; titolo originale Dialectique de la Pop, La Découverte, 2018), la filosofa e musicista francese Agnès Gayraud tenta di affrontare la critica musicale adorniana, scomponendone, come in un prisma, i due aspetti fondamentali: il modernismo ‒ ossia l’idea per la quale l’unico risultato artistico accettabile consisterebbe in un progresso, o in un qualche tipo di avanzamento ‒ e la dialettica negativa ‒ la dottrina filosofica secondo la quale ogni progresso sarebbe, a sua volta, dipendente da una totale negazione dei mezzi e dei materiali impiegati da chi ci ha preceduto, senza alcun margine di compromesso o di sintesi. Nel campo dell’estetica musicale, l’unità primordiale di tali componenti risulta evidente nell’elogio adorniano della musica atonale, la quale «nega» formalmente e sonicamente la musica tonale (pur conservandone la forma scritta e buona parte dell’apparato strumentale), proprio nello stesso momento in cui essa inventa nuove modalità compositive ed espressive (secondo un andamento che potrebbe essere definito tanto autoriflessivo quanto «scientifico»). Questo posizionamento radicalmente antagonista, tuttavia, si può ritrovare anche in altri aspetti della Scuola di Vienna, come nell’opposizione tra autore e opera d’arte, tra popolarità e valore estetico, tra casualità e causalità, tra accessibilità e profondità espressiva. Una duplice serie che non fa altro che evidenziare e rimarcare l’estrema differenza tra attitudine «nega-modernista» e attitudine «pop» ‒ nella quale il performer, la hit, il genio individuale, l’immediatezza, l’universalità del riconoscimento e la popolarità giocano un ruolo fondamentale.

Per oltrepassare quello che potrebbe sembrare, a prima vista, una sorta di ostinato e glaciale immobilismo, Gayraud prova a trascinare Adorno in una sorta di trappola ‒ clonando il modernismo e la dialettica negativa, ricavandone una versione «pro-pop». L’analisi messa in campo da Gayraud in Dialectic of Pop è estremamente raffinata e molto elegante dal punto di vista filosofico. Per Gayraud, è innanzitutto necessario individuare ciò che contraddistingue il pop ‒ comprendendo in esso anche la prima musica radiofonica esaminata da Adorno ‒ identificandone i caratteri specifici. Questa importante «restrizione» consente a Gayraud di abbandonare l’idea per cui la musica sarebbe un «tutto» ‒ una sorta di massa indistinta e indifferenziata ‒ e, nel medesimo istante, di spezzare ogni legame antitetico e conflittuale con la musica «colta», contraddistinta, a sua volta, da un differente regime di produzione, dall’ineluttabilità dell’esecuzione dal vivo e della notazione scritta. L’opera d’arte pop, all’inverso, si incarnerebbe ‒ e per certi versi si «ipostatizzerebbe» ‒ nella sua determinazione singolare e oggettiva, ossia nell’album come prodotto finale di un intricato processo industriale e artigianale, immediatamente seguito dalla sua distribuzione crossmediale di massa. 

Le differenze tra pop e musica classica e d’avanguardia, tuttavia, non si esauriscono qui, giacché il discorso pop si dispiega attraverso una serie di figure archetipali: la star, il pubblico, l’hit e la classifica ‒ che rappresentano l’aspetto tendenziale, ossia il «punto di arrivo» nel percorso verso un compiuto successo artistico. La disquisizione di tali figure, nelle loro specificità e con le loro contraddizioni, occupa gran parte di Dialectic of Pop, offrendo un’interessante prospettiva sull’estetica generale, sulla produzione materiale e sulla fruizione della musica pop. 

La star, il personaggio idiosincratico, si pone in questo contesto come una sorta di «snodo» tra l’irriducibile singolarità di un individuo e la collettività intersezionale che risuona nella sua voce e nella sua musica ‒ attraverso le quali si autoproclama rappresentante di un genere, di una comunità, di una classe o persino di un’intera generazione. Per Gayraud, l’artista pop, per mezzo dell’indispensabile strumento dell’hit (una hit che può essere passata, presente o futura), si fa portatore di una promessa limite, costitutivamente irraggiungibile: quella di una riconciliazione assoluta del giudizio estetico degli ascoltatori, la hit di tutte le hit, l’«Angelus Novus» del pop. L’estrema accessibilità della forma canzone (mutuata dalla musica tradizionale europea) è il mezzo attraverso cui prenderebbe forma tale mandato storico. Scrive Gayraud:

In questo senso, il «popolare» intrinsecamente correlato al pop deve essere concepito in qualità di speranza di riconciliazione tra immediatezza e verità, diletto e riflessione, intrattenimento ed emancipazione. Tale promessa, tuttavia, non può compiersi senza che essa si ritorca, a sua volta, contro se stessa. Il sogno del pop si accompagna sempre al suo doppio speculare: una controparte da incubo che ne denuncia il carattere vano, ingenuo e illusorio. 

Come evidenziato dallo stesso Adorno, la musica popolare ‒ esattamente in virtù della propria semplicità costitutiva ‒ corre sempre il rischio di tramutarsi in un’entità «onnivora», capace di assorbire, sussumere, banalizzare, colonizzare e rendere inoffensivo qualsiasi soggetto a essa esterno o, peggio ancora, in aperto antagonismo nei suoi confronti. L’interessante strategia di Gayraud consiste, pertanto, in una nuova applicazione dell’etica modernista e della dialettica negativa, ingegnosamente ibridate al concetto deleuziano-guattariano di «deterritorializzazione»: uno slittamento verso la decodifica di un codice irrigidito, capace non solo di negare ma di produrre una differenza positiva ‒ un patchwork di influenze assemblate a nuova guisa. 

Il progresso relativo alla storia della musica pop, pertanto, non corrisponderebbe a un avanzamento teleologico (verso un fine o un compimento assoluti), ma a una «fuga» costante ‒ dispiegatasi storicamente attraverso l’invenzione o la scoperta di nuovi mezzi espressivi, oppure per mezzo della  rielaborazione creativa di materiali preesistenti (dall’amplificazione al synth, dal recupero della musica folk all’introduzione del serialismo e delle xenharmonics). 

In fin dei conti, per Gayraud, il pop divorerà senza dubbio se stesso, ma da tale movimento autofagico deriverà la musica del futuro ‒ lungo un interminabile processo di differenziazione e negazione di uno stato di cose presente.

La guerra dei cloni

All’interno del panorama pop, il collasso verso l’appiattimento totale ha trovato, in tempi recenti, due eccellenti paradigmi di riferimento. Due brani in particolare hanno repentinamente scalato le vette più rarefatte della banalità: si tratta di «Wake Me Up», di Avicii, e di «Thunder», degli Imagine Dragons. La prima delle due hit ‒ presa in esame dalla stessa Gayraud ‒ rappresenta l’archetipo del «fallimento-di-successo» in materia di ibridazione musicale (pur contando quasi due miliardi di visualizzazioni su YouTube): a partire da una fusione di electronic dance music e country, il brano riesce nella spettacolare impresa di annullare e banalizzare entrambi, riducendo i materiali di partenza a vuoti stereotipi. Non a caso, il video di «Wake Me Up» tenta di mettere in scena una duplice rappresentazione fittizia ed estremamente ideologica: un’America rurale bianca e statuaria, totalmente pacificata, capace di far convivere felicemente tradizione e ipermodernità. Una rappresentazione audiovisiva che, a sua volta, sembra alludere a una società altrettanto ideologicamente pacificata. Scrive Gayraud a tal proposito:

«Wake Me Up» spinge il principio [di ibridazione] sino al punto in cui gli antagonismi estetici che, generalmente, oppongono i generi gli uni contro gli altri, finiscono per essere neutralizzati. Questa hit globale del 2013 unisce, senza batter ciglio, le caratteristiche rurali dell’estetica country alle caratteristiche metropolitane e macchiniche dell’estetica dance; stili che appaiono mutualmente esclusivi […] Così facendo, essa si fa strada tra ascoltatori appartenenti a diverse culture musicali, beneficiando di tutta una serie di segni fittizi, capaci di infonderle un certo carattere che, a sua volta, avrà ascendente su tutti coloro i quali si disinteressano della cultura musicale […] La pacifica convivenza tra raver e popolo country non trova alcuna conferma nella realtà […] Qui, i demarcatori stilistici non operano in qualità di specificità, ma in quanto segni di specificità. Essi finiscono per tramutarsi in ornamenti, intercambiabili a volontà e trasponibili nel sound tipico della hit del momento.

Nel secondo caso, quello di «Thunder», degli Imagine Dragons (un miliardo e mezzo di visualizzazioni su YouTube), la situazione si fa decisamente più complessa e sfaccettata. Per riuscire a inquadrare da una prospettiva intersoggettiva lo stile degli Imagine Dragons, ho provato a chiedere ad alcuni contatti quali influenze riscontrassero nelle principali hit della band, dal 2012 a oggi. Le risposte hanno fatto sfoggio di una notevole compattezza e, al tempo stesso, di una forte eterogeneità di riferimenti: nella maggior parte dei casi sono stati nominati Coldplay, Maroon 5, One Republic, Ed Sheeran e Nickleblack; in un caso in particolare, mi è stato fatto notare come il sound degli Imagine Dragons presenti anche marcate affinità con quello delle band prodotte dai talent show televisivi anglosassoni. 

Per certi versi, l’estetica della band statunitense è quanto di più ambiguo si possa trovare sul mercato: gli aspetti più anomali ‒ come la vera e propria ossessione ritmica per il 4/4 e i midtempo, l’impiego eclettico di campionamenti folk, le linee vocali r&b, le distorsioni AOR, le basi e le metriche hip hop e i synth EDM ‒ si scontrano violentemente con l’assoluta genericità e piattezza del comparto sonoro. Il caso di «Thunder» è significativo non per via di una qualche differenza rispetto alle hit, tanto precedenti quanto successive, degli Imagine Dragons, ma per la loro impressionante somiglianza: la band americana è apparentemente riuscita a registrare lo stesso brano innumerevoli volte ‒ producendo ogni volta una hit istantanea.

Il rock radiofonico degli Imagine Dragons ‒ a sua volta una sorta di forma scarna, stereotipata del rock ‒ non è semplicemente una commistione, un amalgama di stili, influenze e generi: come nel caso di «Wake Me Up» di Avicii, tutta una serie di segni specifici vengono apposti, in qualità di meri ornamenti, sulla basilare struttura rock di brani come «Radioactive», «Thunder» o «Believer». I campionamenti, le linee vocali, le percussioni, i beat: ciascuno di quei segni che, a prima vista, apparivano come particolari, specifici, non sarebbero che degli «ami», atti ad accalappiare l’ascoltatore (sul concetto di «amo» si veda il terzo capitolo di Dialectic of Pop), ammiccamenti estrapolati dai vari sound che caratterizzano le hit del momento (si noti, ad esempio, le profonde affinità tra «Thunder» e «Perfect», di Ed Sheeran, o «Rockstar», di Post Malone e 21 Savage). In tal senso, gli ami che popolano le hit degli Imagine Dragons presenterebbero un carattere assolutamente aspecifico ‒ non trattandosi in alcun senso di beat hip hop, linee vocali r&b, sperimentazioni alt-rock o percussioni folk in senso stretto. 

L’orrore sociologico implicito in tale affermazione è, in fin dei conti, il seguente: l’immaginario, l’estetica, il suono radicalmente generico degli Imagine Dragons rappresenterebbero l’apice di una manipolazione intenzionale, attenta e razionale di materiali per loro stessa natura irrazionali (quei segni che, senza un motivo particolare, sono in grado di produrre una hit); in quanto tali, essi sono rivolti a un pubblico radicalmente generico ‒ i cui gusti risultano, al tempo stesso, generati, coltivati e sfruttati dall’industria culturale. A emergere dalle tenebre è lo spettro di un’umanità totalmente piatta e priva di segni distintivi; una sorta di omuncolo generato a partire dall’impiego malevolo e sconsiderato di forze occulte. Come nota Gayraud, dal 2012 circa, la voce e lo stile vocale ‒ assolutamente originali ‒ di Rihanna si sono tramutati nello standard canoro (spesso artificiale, ossia ottenuto in fase di produzione), di buona parte delle hit femminili. L’apparato di cattura pop sembra addirittura capace di annullare l’idiosincrasia, la singolarità radicale della star ‒ trasformando caratteri unici in standard della produzione di beni di consumo musicali.

Tale prospettiva catastrofica, tuttavia, non esaurisce la questione dell’assimilazione delle differenze da parte del Pop. Se, di fatto, l’industria discografica mainstream è capace di assimilare solo determinati segni (ossia quelli più «promettenti»), deprivandoli della loro specificità, è altrettanto vero che essa non può intercettare null’altro che gli elementi più superficiali di ogni determinata estetica ‒ presentandosi come costitutivamente banale. Si consideri, ad esempio, l’uso smodato, nella prima parte della carriera di Lady Gaga, di elementi estetici visuali legati al punk e all’heavy metal in «Paparazzi», «Judas», «Telephone», o alle varie scenografie e costumi ‒ che potremmo definire «xenodisco» ‒ che contraddistinguono i video di brani quali «Alejandro», «Poker Face», «Bad Romance» e «Born this Way», ma anche la palese ispirazione all’estetica «decadent-deco» di Alison Goldfrapp.

Si direbbe quasi che l’influsso di Jonas Åkerlund ‒ ex membro dei Bathory e regista dei video di «Paparazzi» e «Telephone» ‒ sia sia innestato su un terreno già profondamente predisposto a questo genere di influenze; lo stesso varrebbe, ad esempio, per l’implicito riferimento visuale di «Judas» all’estetica di una delle più classiche band heavy metal inglesi, i Judas Priest. Se ne potrebbe ricavare l’ipotesi che la costruzione dell’immagine e dell’immaginario sonico di Gaga fosse, già nelle sue prime fasi, orientata ‒ attraverso tutta una serie di «ami» ‒ a un bacino di consumo ambiguamente «freak» (definibile, in termini benjaminiani e adorniani, come «eccentrico», ossia contemporaneamente interno ed esterno alla cultura dominante). Tale soggettività di consumo, già parzialmente data ma ancora da plasmare, ha giocato il ruolo della cavia da laboratorio, sulla quale sperimentare una graduale banalizzazione mainstream di tali caratteri specifici.

Tale assimilazione di tratti superficiali ‒ per lo più visuali e scenografici ‒ è una tendenza profondamente radicata nell’industria culturale. Si pensi all’incredibile parabola di Billy Idol (nell’opera del quale Michael Jackson e gli Aerosmith convivono pacificamente all’interno di un involucro visivo punk rock). Si può dire altrettanto dei vari processi di depotenziamento di generi e band più o meno innovativi, come nel caso del celebre «Black Album» (1991), dei Metallica o dell’intera carriera dei Pearl Jam o, ancora, al recente détournement commerciale dell’emo. Ciò che contraddistingue tale fase di assimilazione è la sparizione dei caratteri sonici che conttradistinguevano una band o un intera comunità controculturale: l’espunzione dell’aggressività e della velocità estrema dal thrash metal; degli elementi «isterici» dal grunge; delle atmosfere dilatate, al tempo stesso malinconiche e rabbiose, dall’emo. Nell’orizzonte contemporaneo, tale tendenza è perfettamente esemplificata da Grimes, i cui album, dal 2015 a oggi, hanno assistito a una graduale perdita di coesione sonora, nonché a un notevole incremento della «vaghezza» stilistica ‒ aspetti controbilanciati, d’altro canto, da una maggiore compattezza visuale e concettuale, ma anche dal mantenimento di un discreto livello qualitativo.

L’anello di fuoco

Ponendo l’accento sul gioco di deterritorializzazione e riterritorializzazione nell’evoluzione della musica pop, Gayraud dà forma a quella che ella stessa definisce una «dialettica interna» ‒ una negazione-affermativa, dotata sia di capacità di ritenzione e sublazione, che della straordinaria abilità di slittare repentinamente verso nuovi territori sonici. È proprio questo sghembo e sgraziato movimento di mutazione a rendere meno terrificanti i caratteri più onnivori e voraci dell’Impero discografico ‒ la consapevolezza che una fuga è pur sempre possibile, persino nei momenti più cupi. D’altra parte, tuttavia, nel tentativo di estendere il pop a tutto ciò che può virtualmente essere assimilato da esso (e in esso ricombinato), Gayraud sembra incappare in una sorta di fallacia. Dopo aver correttamente argomentato la centralità della forma canzone, della registrazione, del processo di produzione e della distribuzione nella definizione del pop in quanto ambito artistico, Dialectic of Pop pone il lettore dinanzi a una tesi alquanto bizzarra:

Definita come una combinazione di testo, musica e performance, la canzone è l’unità espressiva più comune nell’ambito artistico della musica pop. Intendendo la parola «forma» in quanto sinonimo di struttura, si dirà allora che si tratta della più comune tra tutte le forme assunte da tale musica. E non solo nel pop in quanto genere: «Peggy Sue», di Buddy Holly ‒ un classico del pop ‒ «War Pigs», dei Black Sabbath ‒ brano alle origini dell’hard rock ‒ «Freaky Gurl» di Gucci Mane ‒ nel novero della trap ‒ sono tutte canzoni, dalle geometrie senza dubbio variabili, ma pur sempre obbedienti alla classica triangolazione di testo, musica e performance che pone sullo stesso piano «Only You», dei Platters, «Ambulance Blues», di Neil Young, e i diciassette minuti di grugniti gutturali death metal e timbri cavernosi di «Aghartha», dei Sunn O))). Da questo punto di vista, si può affermare che la canzone in quanto forma sia il più fondamentale tra i tutti materiali a disposizione del pop. 

Partendo dal puro dato empirico, benché sia senza dubbio possibile memorizzare e non riuscire più a levarsi dalla testa alcuni passaggi di «Aghartha», è assai meno probabile ritrovarsi a canticchiare o a mugugnare tra sé e sé il medesimo brano in quanto «canzone». La struttura della canzone, di fatto, risulta suddivisa in melodia, armonia, tempo (o ritmo) e testo, risultando il più delle volte suddivisa secondo un formato tradizionale, ossia quello strofa-ritornello-strofa. Qualora una hit non presenti tali caratteristiche ‒ come nel caso di «Flat Beat», di Mr. Oizo, di «Satisfaction», di Benny Benassi, di «Around the World», dei Daft Punk, e via dicendo ‒ essa farà comunque sfoggio di elementi estremamente ripetitivi, appositamente elaborati per «entrare nella testa» dell’ascoltatore. Anche in quest’ultimo caso, sarebbe comunque necessario operare delle distinzioni formali, giacché ‒ pur essendo basate sui medesimi principi teorici ‒ i sette minuti di «Around the World», dei Daft Punk, non possono essere in alcun modo commisurati ai quarantacinque minuti di «OV», degli Orthrelm: la variabile in questione può essere individuata in un differenziale di «intensità», che nel caso degli Orthrelm è condotto all’ennesima potenza. La distinzione tra un «brano» e una «canzone» si gioca tutta su questo campo ‒ permettendomi di suddividere Verklärte Nacht (1889), di Schoenberg, in più brani o persino in frammenti, senza che questi ultimi divengano in alcun modo canzoni. 

L’analisi di Gayraud rende evidente i procedimenti attraverso i quali l’Impero del pop, in qualità di super-soggetto, assimila elementi a esso esterni: in un primo momento, ancora liminale, il pop «tocca» la propria preda, studiandola da vicino e garantendole spazi di proliferazione; in un secondo momento, esso annulla ogni barriera «spirituale», assorbendo al suo interno gli immaginari e i tratti più superficiali dell’oggetto in questione; in un terzo momento, la preda e il predatore sono materialmente indistingubili gli uni dagli altri, giacché ciò che resta della preda non è che la spoglia o l’involucro ‒ la forma rigida e reificata di un passato dinamico (come nei casi esemplari del punk ‘77 e del grunge). La «dialettica interna», che consente al pop ‒ in quanto cultura pop ‒ di rafforzarsi e differenziarsi non è che una dialettica rettiliana del divoramento: dall’esterno, verso l’interno.

La categoria di «anti-pop» ‒ che va dal pop d’avanguardia all’art-pop, dalle espressioni musicali della controcultura alle sperimentazioni radicali ‒  definisce questo soggetto liminale, nomadico, situato ai margini estremi o nei territori limitrofi alla cultura pop di volta in volta egemonica. Esso, tuttavia ‒ come nota la stessa Gayraud ‒ rappresenta un elemento «resistente» e, al tempo stesso, affermativo, non confinabile alla mera negazione di uno stato di cose. Ciò che, dialetticamente, si pone come la preda, è a sua volta predatore: una entità socialmente e culturalmente pericolosa, un nemico a tutti gli effetti. Tale posizionamento «anomalo» può assumere forme notevolmente differenti da quelle pop, spesso antitetiche a esso e inassimilabili nella loro forma più pura ‒ come nel caso dell’opera dei Sunn O))) o di quella degli Orthrelm. Se, nel pop, la purezza non rappresenta che un costrutto ideologico, costitutivamente nostalgico e irreale, essa può assumere un diverso valore in ambito controculturale, andando a definire l’esteriorità di un ambito musicale rispetto alla cultura pop dominante. All’inverso di quanto afferma Gayraud, tale rapporto dentro/fuori fa sì che opere diverse (per diverse ragioni) non siano posizionabili sullo stesso piano, essendo separate da fratture di incommensurabilità (tra hip hop e black metal, ad esempio), dagli abissi del tempo (come lo swing e la techno), da differenze intensive (come nel caso dei SunnO))) e dei Daft Punk) o persino gerarchiche (tra Santana ed Hendrix). 

Ciò che è «puro», in questo senso, è ciò che non è stato appiattito, banalizzato e massificato dall’industria culturale ‒ ciò che attraverso uno «sforzo», richiesto tanto all’ascoltatore quanto al compositore, offre una «resistenza» che, a sua volta, è il prodotto di questo stesso sforzo.

La critica, pertanto, si presenta in quanto analisi dei materiali, della storia, delle tecniche, dei mezzi, dei territori, delle cronologie, delle tassonomie, delle biografie, dei regimi di produzione, degli ecosistemi musicali e via dicendo.

Nella giungla

Nel bel mezzo di questo ecosistema predatorio, il ruolo del critico musicale non può limitarsi all’apprezzamento estetico ‒ ossia alla diade bello/brutto, gradevole/sgradevole, ormai radicata nella forma letteraria della recensione. Ciò significa, essenzialmente, che il critico non può più permettersi di sovrapporsi allo spot pubblicitario, svolgendone la medesima funzione di «consiglio per gli acquisti» (funzione che, da parte sua, non ha mancato di danneggiare numerosi artisti o, al contrario, di proiettarne molti altri in testa alle classifiche). Ciò che resta inaccessibile alla descrizione dell’opera musicale e alla narrazione del flusso di esperienza generato dalla fruizione ‒ due aspetti fondamentali nella stesura di una recensione ‒ è proprio ciò che oltrepassa l’ascolto stesso. La ben nota riflessione di Adorno sulla musica di protesta ‒ nel caso specifico, su Joan Baez e le sue canzoni contro la guerra in Vietnam ‒ esemplifica alla perfezione il punto in questione: per Adorno, la musica di ispirazione politica rappresenta quanto di più «intollerabile» vi sia, giacché essa, nel medesimo istante in cui denuncia un orrore (che si tratti della guerra, dell’emarginazione, della violenza di genere e via dicendo) o invoca la rivolta, rende tali ementi vendibili ‒ mercificando la stortura sociale e conferendole il carattere di bene di consumo. Per quanto tale critica (ormai «classica») possa facilmente divenire oggetto di dibattito, quel che risulta di vitale importanza è la stessa emersione di tale dibattito, che fa da spartiacque tra la generalità del consenso e la determinazione di un posizionamento ‒ tra coscienza e autocoscienza.

La critica, pertanto, si presenta in quanto analisi dei materiali, della storia, delle tecniche, dei mezzi, dei territori, delle cronologie, delle tassonomie, delle biografie, dei regimi di produzione, degli ecosistemi musicali e via dicendo. Andando al di là del mero apprezzamento solipsistico, il critico entra nel campo del giudizio estetico, contraddistinto dall’argomentazione dell’apprezzamento ‒ all’interno dello spazio intersoggettivo del dare e del chiedere ragioni. È solo in questo senso che l’esperienza estetica, compiuta attraverso «questi» sensi ‒ quanto di più soggettivo vi sia al mondo ‒ può avanzare una pretesa di oggettività e di universalità. Il mio giudizio, attraverso la sua stessa articolazione, si rende oggettivo o, meglio, transoggettivo, ossia passibile di condivisione, negazione, fraintendimento e rielaborazione da parte di altri soggetti irriducibilmente singolari. Ciò che viene spazzato via ‒ o quanto meno demistificato ‒ dall’attività critica, dunque, è il velo di assoluta generalità calato sul mondo dall’industria culturale. 

Prendendo coscienza della propria oggettività situata, il critico ha la possibilità di esplorare gli atti di resistenza insiti in un genere, in una band, nelle opere di un autore, in una sola opera, in una determinata scena o persino in un certo arco temporale ‒ contribuendo a tracciare quei confini che separano la cultura pop da ciò che pop non è, partecipando a un’attività collettiva e fondamentalmente discorsiva. Per quanto la posizione del critico possa apparire, a prima vista, apodittica ‒ se non addirittura sgradevolmente autoritaria ‒ tale insofferenza risponde a un’esigenza elementare, codificata nell’animo di ogni ascoltatore: quella di dire la propria, argomentando a sua volta (persino davanti allo schermo di un computer o tra sé e sé) il proprio apprezzamento o, all’inverso, la propria mancanza di apprezzamento. L’«antipatia» del critico deriva pur sempre dall’applicazione di una specifica forma di maieutica, una sorta di irritazione estetica che culmina nell’espressione, da parte del soggetto interpellato, di un giudizio articolato ‒ senza dubbio più interessante e più rilevante del piano folk e inevitabilmente gastronomico del mero apprezzamento, o della fruizione «post-ironica» di un prodotto di consumo insufficiente. 

Oltrepassando ‒ come suggerisce Gayraud ‒ il dogma modernista, e muovendo rapidamente lo sguardo sul panorama musicale contemporaneo, è possibile individuare alcune estetiche capaci di offrire materia di riflessione critica, in particolar modo per quanto riguarda la resistenza all’assimilazione da parte della cultura pop. Tali estetiche devono essere considerate nella loro specificità, pur tenendo bene a mente le loro innumerevoli ibridazioni e la limitatezza di tale breve lista, nonché le contraddizioni di cui esse si possono rendere portatrici:

Estetiche della depersonalizzazione, della negazione e dell’inaccessibilità: in virtù delle quali l’artista retrocede rispetto all’opera, cancellando se stesso, e rendendo quest’ultima, nel medesimo istante, di difficile fruizione. Alle volte, tale scelta estetica ‒ che definisce interi generi musicali o l’intera produzione di un artista ‒ è compiuta al fine di impedire la mercificazione dell’opera, nonché l’accesso di massa a essa. In tal caso, essa risponde alle logiche della purezza precedentemente esaminate. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, essa culmina, al tempo stesso, in un rovesciamento del gusto estetico egemone, ossia nel «brutto» come cassa di risonanza del bello ‒ un aspetto per certi versi affine al modernismo, al quale, alle volte, tale scelta si ispira. La vita di tali estetiche si svolge, per dirla con Adorno «tra il non-farsi-comprendere e il voler-essere-comprese» (Teoria Estetica), in quanto clima elettivo dell’arte. Tale posizione radicale (legata a quella che viene comunemente definita «musica estrema») è antitetica alla «coscienza della cultura superficiale», la quale «insiste sul “mi piace”, sorridendo in modo cinico-imbarazzato sul fatto che il ciarpame culturale venga fabbricato appositamente per abbindolare i consumatori». A tali regimi estetici e semiotici possono essere ascritti, ad esempio, il raw black metal, la musica drone, il grindcore, l’harsh noise e, più in generale, tutti quegli ambiti nei quali si compie un’«estremizzazione» ‒ che può essere ambiguamente positiva, ossia riguardante la durata, la distorsione, la saturazione, la ripetizione o la velocità; o negativa, in quanto assenza di fasi di post-produzione, di controllo sul processo di composizione o persino di struttura formale.

Estetiche dell’oltrepassamento: vincolate, più di ogni altra, al paradigma modernista ‒ incentrato sulla dialettica del nuovo e del vecchio. Tali estetiche, di fatto, sono nate in seno allo stesso modernismo, come nal caso degli allievi di Karlheinz Stockhausen (a sua volta allievo di Olivier Messiaen), tra i quali si annovera Holger Czukay, membro della band tedesca Can e figura di spicco della scena «krautrock». In questo caso, l’allontanamento dal mainstream avviene per mezzo di una serie di sperimentazioni radicali ‒ spesso vicine alla musica concreta, al rumorismo, alla musica atonale o seriale. Le estetiche dell’oltrepassamento, un tempo radicate nell’ambiente della musica colta e della psichedelia, sono oggi perlopiù definite dal prefisso «post», seguito da un trattino. In tal senso, è un certo «non-so-che» (prodotto da una miscela azzardata di influenze, o da una serie di accorgimenti tecnici bislacchi) a produrre nell’ascoltatore l’effetto di una presa di distanza critica dalla musica egemonica. Ciò che distingue il «post-» dalla musica sperimentale ‒ ma che può anche essere presente in certa misura ‒ è l’assenza di un apparato tecnico-tecnologico «d’avanguardia».

Estetiche dell’abiezione: nelle quali il contenuto si rifiuta imperativamente di scendere a patti con la forma. A prima vista, l’effetto di tale contraddizione è senz’altro comico ‒ come spesso accade in virtù di uno stridore ‒ pur manifestando, al tempo stesso, degli aspetti perturbanti. Il soggetto che performa la contraddizione risulta abietto, inferiore o non all’altezza del contesto nel quale è calato, ponendosi in antitesi alla norma, presentandosi come «indesiderabile», «indesiderato» o «insopportabile». È ciò che accade, ad esempio, nella musica dance degli Electric 6, nella quale la carica erotica eteronormativa, tipica del genere, si disperde nei flussi di un desiderio queer e nell’umorismo autoriferito ‒ allo stesso modo in cui il groove generato dai sintetizzatori si disperde in uno scalmanato rock & roll anni Novanta. Si potrebbe ipotizzare che tale meccanismo giochi un ruolo fondamentale persino nell’opera di Kanye West, in virtù della violenta convivenza di una componente megalomane-narcisista e di una masochista-paranoide, tra loro saldamente intrecciate (la star più grande di Cristo che, tuttavia, si inchina dinanzi a Dio per chiedere perdono, consapevole della propria abiezione e della propria finitudine). In tempi più recenti, Tommy Cash ha saputo incarnare alla perfezione tali estetiche, opponendo l’arroganza del gangsta rap, il nichilismo della trap e la leggerezza della musica elettronica da classifica, allo sfondo desolato e desolante di un’Estonia post-apocalittica.

Estetiche dell’ironia: eternamente sospese tra l’abbandono all’assimilazione da parte del mainstream e il rifiuto assoluto, esse sono, senza dubbio, le più difficili da identificare senza margini di ambiguità. Tali estetiche potrebbero anche essere definite «estetiche indigeribili», o «estetiche del super io», giacché perseverano nella loro attività critica e moralizzatrice persino dal ventre della balena. In quest’ultimo caso, la negazione non avviene attraverso il dispiegamento di un arsenale sonico, per mezzo di una fuga costante, o tramite la messa in bella mostra di una ferita insanabile, giacché i suoni e le immagini offerte dall’artista al pubblico non contengono (a prima vista e a primo ascolto) nulla di anomalo: esse si limitano a mettere in scena i suoni e gli immaginari dominanti. In alcune occasioni, tale messa in scena coincide con un più profondo movimento dialettico, attraverso il quale ciò che più vi è di orrido e immorale viene presentato come qualcosa di assolutamente normale, o come equivalente alla quotidianità. Per certi versi, le estetiche dell’ironia rappresentano una delle forme di resistenza più raffinate e complesse in assoluto, giacché, spesso, rasentano l’apparente complicità e connivenza con i poteri egemonici ‒ sino all’identificazione con brutali regimi totalitari (presenti o passati). Il caso archetipale di questa forma di resistenza può essere individuato in «Der Mussolini», dei D.A.F. ‒ che fa leva su uno spazio di nonsense per rappresentare il vacuo vortice dell’ideologia. Altri illustri esponenti di tale regime estetico sono i Laibach e, più di recente, la band russa Little Big: questi ultimi in particolare, pur muovendo da una cornice indubbiamente pop, sembrano quasi voler corrodere il genere dall’interno, rivelandone il carattere assolutamente vacuo, autoritario e violento.

Claudio Kulesko Si occupa principalmente di filosofia delle scienze e pessimismo filosofico. Ha tradotto Eugene Thacker e il Salvage Collective ed è stato tra i fondatori del collettivo di demonologia rivoluzionaria Gruppo di Nun. L’abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell’orrore astratto (NERO 2022) è la sua prima antologia di narrativa speculativa.