La nuova era oscura di Disco Elysium

Scomodare Marx ed Engles per un’avventura investigativa non basta: i videogiochi riusciranno mai a sbarazzarsi dall’ossessione per numeri e statistiche eredità dell’industria militare in cui sono nati?

Disco Elysium, sviluppato dallo studio indipendente ZA/UM, è un videogioco investigativo per computer uscito il 15 ottobre del 2019 e calorosamente accolto dalla critica per la sua rappresentazione delle dinamiche di classe e per l’intelligenza della sua divertente prosa. Le analisi si sono incentrate sui contenuti della sua trama, e su come questi contenuti vengano raccontati dalle meccaniche che regolano la sua narrazione. Ma «una comprensione puramente pratica dei sistemi è insufficiente» scrive James Bridle in Nuova era oscura, un saggio che esplora le conseguenze della nostra smisurata e disinformata fiducia nella tecnologia e nella sua capacità di descrivere il mondo e risolverne i problemi. Cioè, non basta osservare le meccaniche ma è necessario capirne la provenienza. Bridle si chiede: «da dove vengono questi sistemi, chi li ha progettati, a che scopo, e quali di questi scopi iniziali serpeggiano ancora oggi sotto la superficie?». Questo articolo pone tali domande a Disco Elysium e ai suoi sistemi per capire, con l’aiuto di Nuova era oscura, come questo videogioco (e il videogioco in generale) si inserisca in realtà senza grossi contrasti nella storia del capitalismo imperialista e militarista, della sua tecnologia e della sua fede in una descrizione computazionale della realtà.

Disco Elysium è ambientato in un mondo immaginario (molto simile alla Terra della metà del secolo scorso) inizialmente ignoto sia a chi gioca sia al personaggio principale, reduce da una sbronza che gli ha fatto perdere la memoria. Il protagonista, che possiamo personalizzare psicologicamente e sviluppare come vogliamo, è un detective impegnato a risolvere un omicidio in un quartiere proletario (e porto commerciale) di quella che fu la capitale di un intero continente del mondo di Elysium, e che ora, dopo una fallita rivoluzione comunista, è territorio occupato da potenze internazionali guidate da governi fieramente centristi e disperatamente capitalisti. 

In quanto poliziotto, il protagonista è visto dagli abitanti come parte di una forza di occupazione. Forse l’omicidio è legato agli scioperi attualmente in corso nel quartiere, forse è persino avvenuto per mano di persone che fanno parte del sindacato dei lavoratori, forse la vittima era un soldato mercenario assoldato per affogare nel sangue le proteste (o almeno spaventare i manifestanti). Le dinamiche di classe sono a volte al centro anche delle meccaniche del gioco. Scegliere di giocare a difficoltà «Hardcore» non rende più resistenti o pericolosi i mostri che incontro e che devo uccidere (non incontro nessun mostro e non c’è un vero e proprio sistema di combattimento), ma tra le altre cose rende più economicamente povero il mondo di gioco e, di conseguenza, il personaggio principale che si muove al suo interno. Nella modalità «Hardcore» i prezzi sono più alti e droga e alcol (e i loro bonus) diventano fondamentali per andare avanti. Diventano, come nella realtà, un’utile via di fuga dalle difficoltà socioeconomiche. 

Quando Disco Elysium è stato premiato a The Game Awards, i suoi sviluppatori hanno persino ringraziato esplicitamente Marx ed Engels. Non è quindi una sorpresa che il videogioco abbia anche attirato l’attenzione di chi si riconosce nella sinistra radicale. Ecco finalmente un’opera incentrata sulla narrazione, con una prosa complessa e brillante e una storia che affronta apertamente tematiche come colonialismo e lotta di classe. Ecco un videogioco di ruolo in cui il personaggio principale non è identificato da allineamenti morali o etici ma è plasmato dalle mie azioni da un punto di vista ideologico. Il protagonista di Disco Elysium non è «buono» o «cattivo», «rispettoso della legge» o «non rispettoso della legge» come accade altrove, ma comunista o fascista o ultracapitalista o centrista. Ecco un videogioco dove il personaggio principale viene costruito non solo da quello che pensa, dalle sue idee, ma da come reagisce di volta in volta di fronte a persone e a eventi, cioè da come le sue idee si inseriscono nella società intorno a lui e nelle sue relazioni. Ecco un videogioco dove il fallimento è spesso trattato meccanicamente e narrativamente come una parte normale della vita e non come un motivo per ricaricare la partita dopo un game over.

Ma in Disco Elysium caratterizzazione e sviluppo del personaggio si portano dietro numeri e statistiche. E numeri e statistiche non sono narrazione. Ogni videogioco è naturalmente fatto da codice, numeri, variabili, algoritmi. È così che un computer ragiona, è così che il suo software ragiona. Il problema, come spiega Nuova era oscura, è che in un’era in cui l’umanità vive effettivamente dentro un mondo digitale e digitalizzato, immersa nella rete di internet, in un «codice/spazio» (un luogo che esiste e funziona solo grazie al codice che lo sostiene), ciò che un computer può pensare diventa ciò che noi possiamo pensare, la sua rappresentazione della realtà diventa la nostra realtà. «La tecnologia non si riduce alla creazione e all’uso di strumenti: la tecnologia è la creazione di metafore» scrive Bridle. «Nel momento in cui creiamo uno strumento diamo forma a una certa interpretazione del mondo che, una volta reificata, è in grado di produrre un dato effetto su quel mondo. Diventa così un altro ingranaggio della nostra comprensione del mondo – per quanto spesso per via inconscia.» Il videogioco, come medium, è una glorificazione della mentalità descritta in Nuova era oscura, della «computazione militare e [del]la cieca fiducia nella predizione e nel controllo che essa incarna». Il videogioco crea mondi computazionali che sono credibili perché crediamo che il nostro mondo sia computazionale, e crea i suoi mondi digitali sulla base di come pensiamo sia possibile ridurre la nostra realtà a numeri e algoritmi. 

Per spiegare come l’apparato militare e capitalista abbia formato la mentalità della nostra era digitale, in Nuova era oscura Bridle racconta la nascita dell’informatica, tracciandone l’origine nei calcolatori militari progettati per prevedere il meteo e per calcolare le traiettorie missilistiche della Guerra Fredda. Il primo computer elettrico per uso generale, l’Electronic Numerical Integrator and Computer (ENIAC, 1945) «passò la gran parte dei suoi primi anni di funzionamento predicendo i rendimenti sempre crescenti della prima generazione di bombe atomiche termonucleari» ricorda Bridle. Il suo rivale, il Selective Sequence Electronic Calculator (SSEC, 1948) della IBM, fu utilizzato per compiere simulazioni sulla prima bomba a idrogeno. Entrambi, sia il SSEC sia l’ENIAC, erano stati sviluppati a partire dall’Harvard Mark I, impiegato per il progetto Manhattan. Lo Whirlwind I (1951) del MIT (in parte uno sviluppo dell’ENIAC) nacque come simulatore di volo per l’aeronautica militare e fece da base al Semi-Automatic Ground Environment (SAGE) che ha gestito il North American Air Defense Command dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta trasformandosi anche nel Semi-Automated Business Research Environment (SABRE) per la gestione delle rotte commerciali.  «Tutta la computazione contemporanea origina da questo snodo fondamentale: i tentativi militari di predire e controllare il tempo atmosferico, e quindi il futuro» conclude Bridle.

Come spiegano Nick Dyer-Witheford e Greig de Peuter in Games of Empire: Global Capitalism and Video Games (che parte da Impero di Negri e Hardt), anche i videogiochi nascono «dalla stessa matrice di ricerca militare che ha generato il personal computer e internet». Più avanti nel libro gli autori ricordano che «tutti i contendenti al titolo di inventore del videogioco erano dipendenti del complesso militare-industriale americano: William Higinbotham, che creò un semplice gioco di tennis nel 1958 [e che precedentemente aveva lavorato alla prima bomba atomica], Steve Russell, che sviluppò Spacewar! nel 1961, e Ralph Baer, che nel 1966 immaginò la prima console da connettere a un televisore». 

I primi videogiochi nacquero nel tempo libero come esperimenti sviluppati su macchine in teoria destinate ad altro, in complessi militari e in università comunque strettamente legate all’esercito USA. Gli esperimenti stessi possono essere letti come piccole ribellioni al lavoro e alla guerra e vanno interpretati all’interno della controcultura (a base di psichedelia e dissenso politico) che stava crescendo tra gli studenti, ma venivano tollerati perché funzionali alla scoperta delle potenzialità dei primi computer e quindi al progresso tecnologico necessario per vincere lo scontro contro l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Tennis for Two di Higinbotham nasce per un evento annuale aperto al pubblico del Brookhaven National Laboratory e sfruttava la capacità del computer Donner 30 di calcolare traiettorie balistiche influenzate dal vento. Spacewar!, vero figlio di una cultura hacker aperta e partecipativa che usava l’antenato di internet (ARPANET) per diffondere le sue opere e accogliere contributi, nacque al MIT, all’epoca finanziato dall’esercito per lo sviluppo di sistemi per la difesa aerea, su un computer della Digital Equipment, fondata da tecnici del MIT che avevano, tra le altre cose, lavorato allo Whirlwind I. Ralph Baer creò la sua console, il Magnavox Odyssey, all’interno della Sanders Associates, dove aveva il compito di supervisionare ingegneri impegnati nello sviluppo di sistemi elettronici per l’esercito. Il computer, liberato dagli hacker anche attraverso il videogioco e sottratto al controllo esclusivo da parte degli eserciti, venne poi recuperato dal Capitale che, grazie all’azione di aziende come Atari e Microsoft, trasformò il videogioco in un bene di consumo e la controcultura hacker nella gioventù liberista della Silicon Valley. E se con la prima cultura hacker il videogioco si era forse allontanato dal mondo militare, gli eserciti hanno rapidamente trovato modi per ricondurlo nella loro orbita, sfruttandolo come strumento di propaganda, di addestramento e di simulazione e, più in generale, come strumento di militarizzazione della cultura e dell’intrattenimento nell’epoca della guerra globale e permanente.

Il videogioco riproduce inoltre il generale desiderio del Capitale di regolare le nostre vite come accade in una fabbrica anche fuori dalla fabbrica, durante il tempo libero. Una necessità sempre più importante: con la perdita della centralità della fabbrica come luogo di controllo della classe lavoratrice, il Capitale sente la necessità di estendere la sua presenza a ogni momento della nostra vita per continuare a regolarla. Il tempo libero viene costruito totalmente in funzione del «tempo non libero»: il divertimento serve a riposarci e a prepararci alla prossima giornata di lavoro, le narrazioni (interattive e non) che ci vengono fornite dalle multinazionali dell’intrattenimento servono a consolarci delle delusioni della realtà e lo stesso intrattenimento (le missioni dei videogiochi, gli allenamenti degli sport…) è a volte costruito come un lavoro da svolgere. 

Come accade in Disco Elysium, spesso il modello computazionale che sta alla base di un videogioco non viene nascosto e trasformato in narrazione, ma viene esposto in modo che possa essere studiato e manipolato. L’avatar digitale, espresso in cifre che ne descrivono le caratteristiche (un personaggio non è «intelligente», per esempio, ma ha «un valore di intelligenza di 18») può essere perfezionato da chi gioca, ottimizzato come si ottimizza appunto una macchina. In fondo, l’avatar digitale è una macchina. È una macchina ma rappresenta un essere umano, e ci insegna così che l’essere umano può essere rappresentato da una macchina, può diventare una macchina. Come nell’Amazon descritta da Bridle, in cui «ci si aspetta […] che [i lavoratori] si comportino come robot, che ne interpretino il ruolo rimanendo – per adesso – leggermente meno costosi».

Personalizzare il protagonista di Disco Elysium vuol dire distribuire «punteggi» tra «statistiche» che sintetizzano le sue capacità. Intelletto (intelligenza, conoscenza). Psiche (sensibilità, emozioni). Fisico (muscoli, istinto). Motricità (agilità, sensi). Ognuna di queste statistiche influenza poi sei diverse abilità/capacità, per un totale quindi di 24 diverse abilità. Per esempio la statistica «Intelletto» controlla la logica, la conoscenza, la retorica, la capacità di fingere, l’inventiva e il ragionamento visivo. Ognuna di queste abilità è espressa da un numero, che esprime quanto il mio personaggio sia capace in quell’ambito.

Le abilità e i loro punteggi servono a fare «prove», cioè a verificare se so fare una cosa abbastanza bene da superare un certo ostacolo. Se voglio ricordare un particolare aneddoto storico farò una prova sull’abilità legata alla statistica «Intelletto» e deputata a misurare le mie conoscenze. Ogni prova ha una sua difficoltà, anch’essa espressa con un numero (per esempio, una prova potrebbe avere «difficoltà 12»). Per sapere se ho superato la prova il software simula il lancio di due dadi da gioco da sei facce, somma il loro risultato al mio punteggio nell’abilità interessata e confronta il mio totale con la difficoltà. Se la somma di abilità e tiro dei dadi ne eguaglia o supera la difficoltà, la prova è superata. Tutto ciò è mostrato apertamente a chi gioca: le prove sono esplicitamente segnalate e indicano chiaramente la loro difficoltà nel testo e il software mi dice anche quante probabilità ho (in percentuale) di raggiungere quel valore sommando un tiro di due dadi al punteggio della mia abilità interessata. 

Superare prove, soddisfare compiti e richieste e avanzare nella risoluzione del caso mi permette poi di guadagnare «punti esperienza» e, ogni volta che raccolgo 100 punti, posso aggiungere un punto a una delle abilità, come se in questo modo stessi simulando il miglioramento delle capacità del personaggio grazie alla sua esperienza sul campo. Anche questa crescita è espressa in modo solo numerico: faccio una qualche azione, il videogioco mi annuncia che ho guadagnato «5 punti esperienza» per il mio gesto, e che proprio grazie a questi 5 punti sono «avanzato di livello» e ho quindi a disposizione un nuovo «punto abilità» da distribuire. Magari sono ore che avanzo tra trame e sottotrame grazie alle capacità logiche e deduttive del protagonista, ma niente mi vieterà di mettere quel punto bonus, conquistato a forza di deduzioni logiche, nella mia capacità di… sopportare il dolore, per esempio. O nella mia coordinazione occhio/mano. O in qualsiasi altra abilità che non c’entra nulla con quello che ho fatto sinora (ma che magari penso possa essermi utile in futuro). Sono solo numeri, e io sono qui per ottimizzarli.

Così, gli abiti che il protagonista indossa possono influenzarne le abilità. Un berretto mi dà +1 a «velocità di reazione», ma toglie un punto alle mie capacità retoriche. Un paio di occhiali troppo spessi tolgono ben quattro punti alla mia percezione sensoriale, ma aggiungono due punti alle mie conoscenze. Se li indosso, e solo per il fatto che li indosso, conosco effettivamente più cose di quante ne conoscerei non indossandoli. Una giacca elegante mi rende più sensibile all’arte (+1). Per evitare di subire i malus causati dai pantaloni che possedevo mi sono appropinquato allo scontro finale direttamente senza calzoni. Nessuno ha avuto niente da ridire, come nessuno ha niente da ridire quando mescolo disordinatamente abiti che non c’entrano nulla solo per raggiungere un certo punteggio in una certa abilità a forza di bonus. Come nessuno ha nulla da ridire quando interrompo una conversazione perché mi trovo di fronte a una prova di una certa abilità e prima di tentare di superarla voglio indossare un abbigliamento adatto. Mi è capitato di interrompere un discorso per cambiarmi le scarpe in mezzo alla strada perché avevo bisogno di un certo bonus per riuscire a interpretare correttamente la postura della persona con cui stavo parlando. È un comportamento che ha senso se i vestiti son visti unicamente come oggetti che mettono o tolgono punti a delle variabili, senza alcun significato da un punto di vista narrativo. 

Uno degli aspetti più festeggiati di Disco Elysium è il «Thought Cabinet», l’armadietto del pensiero. In Disco Elysium è possibile guadagnare ed equipaggiare pensieri: il personaggio principale si fissa magari su un concetto, o ha un dubbio su cui vorrebbe ragionare per un po’ (per esempio, può interrogarsi sul suo orientamento sessuale). Equipaggiare il pensiero, cioè porsi il problema, permette dopo un certo periodo di attesa di giungere a una soluzione, trasformando quel pensiero in un tratto caratteristico del personaggio. Questo può avere alcune conseguenze narrative, ma se ho sviluppato una ideologia comunista, se ho equipaggiato cioè il pensiero a essa legato, Disco Elysium non mi vieta di cantare le lodi del libero mercato, e l’armadietto dei pensieri è (come ormai probabilmente vi aspettate) soprattutto un modo per ottenere punti per le abilità. Pormi il problema della condizione della donna mi dà un +2 di autorità quando parlo con personaggi maschili, e quando il problema è risolto e il pensiero si è finalmente cristallizzato essere femminista mi dà un bonus di +1 in empatia ma un malus di -1 nella mia sintonia con le droghe (a quanto pare incompatibili col femminismo). Uno dei pensieri equipaggiabili permette di guadagnare due monete ogni volta che supero uno specifico genere di prova sulle mie conoscenze. Questo vuol dire che ogni volta che, in mezzo a un discorso, qualcuno dice qualcosa di cui so già qualche dettaglio, nelle tasche del mio personaggio compare misteriosamente del denaro. Il testo del pensiero non aiuta a capire come questo possa accadere: è un potere che non ha alcun significato narrativo, e il denaro diventa solo un altro numero, un’altra statistica controllabile e manipolabile, in parte tradendo la rappresentazione dell’economia altrove così potente in Disco Elysium.

Dovreste ormai aver capito quanto Disco Elysium sia ossessionato con i numeri. Ogni cosa nel gioco è trasformata in numero, e ogni numero è sbattuto in faccia a chi gioca. Posso sapere quanto sono stato comunista, quanto sono stato fascista, posso sapere quanti punti ho totalizzato come «sbirro che chiede scusa di continuo». È un’ossessione che nasce dalle sue influenze, da radicate convenzioni: Disco Elysium è un racconto noir costruito sulle meccaniche di un CRPG, un videogioco di ruolo per computer, un genere a sua volta costruito sulle meccaniche dei giochi di ruolo cartacei, come Dungeons & Dragons, allo scopo di riproporle in un ambiente digitale. Chi gioca non deve cercare una persona che gestisca la partita, che costruisca l’ambientazione, guidi la trama e controlli i personaggi secondari, e non ha bisogno di un gruppo con cui combinare gli incontri tra un impegno e l’altro: grazie al computer, una sola persona può interpretare un gruppo intero di personaggi, mentre la macchina si occupa di tutto il resto. In Disco Elysium, il quartiere cittadino è il dungeon, i dialoghi sono i combattimenti e i pensieri equipaggiabili (ancor più dei pezzi di vestiario) sono i tesori che troviamo.

Anche i giochi di ruolo cartacei, come videogiochi e personal computer, provengono dal mondo militare. Per capirlo basta vedere come sia stato creato Dungeons & Dragons, primo gioco di ruolo commercializzato e modello di tutto ciò che è venuto dopo. Partendo dall’opera di un altro membro della sua Lake Geneva Tactical Studies Association, Gary Gygax co-creò il wargame d’ambientazione medievale Chainmail (1971), e sviluppò un suo supplemento fantasy ispirato alla narrativa tolkieniana e incluso già nel suo primo manuale (questo supplemento è in realtà un adattamento di Rules of Middle Earth di Leonard Patt, che non viene però mai citato da Gygax). Dungeons & Dragons (1974) nasce dalle regole di Chainmail e del mondo fantasy del suo supplemento e grazie alla collaborazione tra Gygax e un altro appassionato di wargame, Dave Arneson. Se Gygax e Chainmail forniscono a Dungeons & Dragons le basi del suo regolamento, è Blackmoor di Arneson (e, ancora prima, il wargame ambientato durante le guerre napoleoniche Braunstein di David Wesely) a creare l’idea del «giocare di ruolo», l’idea di interpretare un preciso personaggio facendolo crescere e migliorare grazie alle sue azioni e agli oggetti trovati nell’avventura e muovendolo in un mondo immaginato e descritto da un «dungeon master».

La storia dello sviluppo di Dungeons & Dragons è piena di momenti controversi e di contributi non riconosciuti, ma il gioco di ruolo cartaceo nasce insomma dall’opera di un gruppo di giocatori e autori di wargame, e le sue regole si sviluppano a partire da quelle degli wargame da tavolo. Wargame che, come quelli digitali sviluppati per svago o per seria simulazione bellica sui primi computer, vengono da reali strumenti di simulazione a analisi militare. L’antenato di tutti questi giochi è il prussiano Kriegsspiel («wargame»), progettato all’inizio del XIX secolo da Georg von Reisswitz e diffuso in Europa e nel mondo dopo che l’inattesa vittoria della Prussia nella guerra contro la Francia (1870-1871) convinse le altre potenze della sua efficacia rendendo il wargaming parte stabile dell’addestramento militare. Kriegsspiel include molti dei concetti che ancora possiamo ritrovare in alcuni wargame: una mappa come plancia di gioco, eserciti raffigurati da pedine con specifici punteggi e statistiche (redatte basandosi sui dati reali), combattimenti risolti attraverso calcoli matematici e uso dei dadi per aggiungere elementi di casualità. 

«La computazione si presta in modo particolare a […] narrazioni legittimanti, che a loro volta ne certificano tanto la necessità quanto l’inevitabilità» spiega Bridle. Le statistiche, i tiri di dadi, la capacità di rappresentare numericamente l’intera realtà del gioco di ruolo cartaceo non sono però una necessità impossibile da evitare ma uno strascico del desiderio di studiare, controllare e prevedere la realtà a scopo militare. Non dovrebbe essere considerato inevitabile che un videogioco racconti le persone come ammassi di numeri e non come, appunto, persone. Non dovrebbe essere considerato inevitabile neanche che lo facciano i giochi di ruolo cartacei. Senza valori, statistiche, tiri di dadi e prove da superare questi giochi restano forse privi di un chiaro sistema per risolvere i conflitti, ma questo è un problema solo perché siamo stati abituati a scrivere e a leggere narrazioni incentrate sul conflitto e sulla sua risoluzione, al punto da non trovare alcuna possibile alternativa alla reazionaria manualistica che viene solitamente fatta leggere agli aspiranti scrittori e sceneggiatori. Secondo questi manuali non potrebbe neppure esistere una storia priva di conflitti come Il mio vicino Totoro di Miyazaki.

Come la tecnologia descritta da Bridle in Nuova era oscura, la rappresentazione computazionale di Dungeons & Dragons, di Disco Elysium o di qualsiasi videogioco è inoltre capace di nascondere più di quanto sveli. Non so quante volte l’opera di ZA/UM mi abbia imbrogliato, quanti tiri di dadi siano in realtà fittizi o influenzati in modi a me ignoti. La descrizione che ho fatto delle meccaniche di Disco Elysium è una descrizione (uso qui un po’ forzatamente il linguaggio kantiano) di fenomeni, ma il codice, il noumeno, resta nascosto e inconoscibile. Come nella realtà, la sensazione di controllo che il software mi dà è solo illusoria. I videogiochi sfruttano spesso la possibilità di ingannare chi gioca: la realtà computazionale che questi software mostrano è manipolata per sortire precise reazioni, per ottenere precise emozioni. Nella serie di strategia XCOM, la possibilità di colpire un nemico è comunicata attraverso una percentuale, ma le percentuali viste da chi gioca non sono quelle realmente usate dal software, perché le persone che sviluppano i videogiochi sanno che gli esseri umani non saprebbero interpretare lucidamente quei valori. «Chi gioca vede quel numero non da un punto di vista matematico, ma da un punto di vista emotivo» ha affermato il lead designer Jake Solomon. «Se hai l’85% di possibilità di colpire, non ti rendi conto che hai il 15% di possibilità di mancare. Se te ne rendessi conto, sapresti che non è alla fine così difficile che il colpo vada a vuoto. Ma vedi una percentuale dell’85% e pensi che sia praticamente il 100% e che non sia possibile sbagliare l’attacco». Così, dietro le quinte quell’85% è in realtà trattato «più come se fosse un 95%».

Football Drama di Open Lab Games è un recente videogioco narrativo ambientato nel mondo del calcio. Interpreto l’allenatore Rocco Giuliano, chiamato a salvare dalla retrocessione la squadra del Calchester, e il videogioco alterna discussioni con vari personaggi (il gatto di Rocco, il presidente della squadra, la stampa…) a partite a turni che controllo usando due tasti e carte speciali, vaghi ordini che il protagonista può urlare dalla panchina sperando di essere ascoltato. Non è un videogioco pensato per darmi il controllo assoluto dell’esperienza, come non la ha un allenatore, e non è un videogioco pensato per darmi l’impressione che si possa avere il controllo assoluto della vita. A volte Rocco si rivolge all’I Ching, il Libro dei Mutamenti, in cerca di un qualche senso, ma i suoi responsi sono enigmatici. Le partite sono influenzate da sedici diverse statistiche, rappresentate da simboli misteriosi (quasi esoterici) e da nomi che non sempre ne spiegano chiaramente la funzione, un’orda che sembra rappresentare l’ineffabile ricchezza della realtà. Quando gioco una carta vedo che un qualche valore può aver ricevuto un +1 o un -1, ma prima di giocarla so solo vagamente quali statistiche può influenzare, a quasi nessuna di queste variabili viene mai dato un chiaro valore numerico (un totale) e durante le partite appaiono solo come misteriose barre colorate di cui riesco forse a capire e seguire l’andamento. 

In Football Drama devo usare questi indizi per cogliere il flusso della partita, il suo ritmo, e accordarmi a esso: la potenza di ogni squadra in ogni momento della competizione dipende dalle sedici statistiche, ma anche da molteplici altri fattori (come sto giocando, il tempo, se sto giocando in casa o fuori casa, i cartellini gialli e rossi) e da una funzione d’onda. A causa di questa funzione d’onda la potenza di una squadra cresce e decresce ritmicamente, e devo quindi cogliere il momento giusto per passare all’attacco. Sulla riuscita delle mie azioni interviene, poi, il caso, ma Football Drama non mi dice esplicitamente quante possibilità ho che succeda qualcosa, che la squadra recepisca i miei ordini, che il tiro non colpisca la traversa. Anche se non si tratta ancora di un trattamento completamente narrativo (le statistiche non sono espresse numericamente, ma sono comunque visibili e mostrate come statistiche), è comunque un atteggiamento che non vuole banalizzare la realtà e la sua rappresentazione.

Questa assenza di controllo non è piaciuta a tutti. «Chi giocava non capiva quali fossero gli effetti delle carte azione che venivano giocate» ci ha raccontato al telefono Pietro Polsinelli di Open Lab Games. «C’è chi sosteneva che non avessero proprio alcun effetto, alcuni sostenevano che gli effetti fossero solo casuali e che proprio non ci fosse nessun rapporto tra le statistiche della squadra e i suoi risultati». Non siamo abituati a pensare senza informazioni, senza che ci venga data la sensazione di controllo. Che questa sensazione di controllo sia finta, illusoria, come accade in XCOM è alla fine secondario: la sensazione di controllo fa parte dell’inganno del videogioco, dell’esperienza che vuole farci provare, dell’esperienza che cerchiamo entrando in questi ambienti digitali addomesticati per il nostro piacere, dell’esperienza che la società vuole darci mentre ci insegna che più informazioni, più computazione, vogliono effettivamente dire più controllo. «L’onda portante del progresso negli ultimi secoli è stata l’idea centrale all’Illuminismo stesso» scrive Bridle. «Ovvero che maggiore conoscenza – intesa come maggiore quantità di informazioni – conduca a decisioni migliori.» Open Lab Games ha cercato di andare incontro all’utenza rendendo più chiari gli effetti delle carte/azione sulle statistiche in Football Drama e ha aggiunto una nuova schermata riassuntiva. «Spero che questo non tolga magia» mi dice Polsinelli.

«Solo un pensiero nebuloso, solo l’accettazione della non-conoscenza può permetterci di fare retromarcia dal pensiero computazionale» scrive Bridle. Forse non abbiamo bisogno di videogiochi che usino sistemi sviluppati per le simulazioni militari in modi narrativi. Forse abbiamo bisogno di videogiochi che creino nuove meccaniche per la nostra nuova era oscura.