La maledizione della povertà

Per essere parte del branco bisogna essere un lupo fra i lupi: ed è qui che divampano morte e malattia

La storia dello scrittore Édouard Louis è una storia come tante. Nasce negli anni Novanta a Hallencourt, in Francia, in una famiglia povera, o come preferisce dire con un moto d’orgoglio chi vive questa condizione, popolare.  Una vita passata fra alti e bassi, composta dalle piccole soddisfazioni che può permettersi una famiglia proletaria, sfruttata e ignorante. La sua storia parla di una fuga da un ambiente impossibile: a 18 anni smette di nascondere la sua omosessualità e decide di abbandonare ogni legame stabile per trasferirsi a Parigi, nella speranza di lasciarsi alle spalle una povertà del corpo quanto dello spirito, espressione di una comunità violenta e omofoba. Anni dopo tornerà a Hallencourt, per tentare di ricucire il rapporto con il padre ormai gravemente malato: in quell’incontro, da cui nascerà il libro Chi ha ucciso mio padre?, Louis racconterà la maledizione della povertà; il dramma di un padre, e in generale di una famiglia che ricoprono contemporaneamente il ruolo di vittima e carnefice. 

All’interno di questo dialogo emergerà l’ambivalenza della maledizione: se da un lato, il padre è responsabile della violenza che ha costretto Louis alla fuga, dall’altro è anch’esso vittima di un sistema malato che isola e abbandona le persone a se stesse, facendo pagare loro il peso della povertà economica e culturale che produce. Molto spesso l’unico collante a disposizione di questi gruppi di persone che vivono ai margini della società è rappresentato dal forte senso di appartenenza nei confronti del medesimo circolo vizioso, all’interno del quale ignoranza e sofferenza si alimentano a vicenda.  Come sostiene Preciado in un articolo uscito da poco su Internazionale  «è il paradosso della biopolitica: ogni atto di protezione comporta una definizione immunitaria della comunità, con cui la collettività si concede il potere di decidere di sacrificare una parte della popolazione, a beneficio di un’idea della propria sovranità». Per essere parte del branco è necessario essere un lupo fra i lupi, non c’è spazio per un pensiero deviante: tutto deve essere ricondotto allo stesso, medesimo, squallore esistenziale, pena l’esclusione da quei pochi vantaggi anche solo indiretti che l’appartenere a una comunità (per quanto malata) può garantire.

Sono lontani gli orizzonti comunitari delineati da Steinbeck in Furore: le comunità che nascono e crescono unite dalla privazione non sempre sono così fortunate da sviluppare quei legami, quel senso di appartenenza e quella solidarietà sulle quali i turisti ricchi amano fantasticare durante i loro tour esotici dei bassifondi. E dove mancano quei legami, è molto probabile che giungano la morte e la malattia. Come ha evidenziato uno studio della Northwestern University, la povertà è in grado di inscriversi direttamente nel DNA di chi ne è vittima: sembra infatti che le privazioni e le rinunce, che vanno dall’impossibilità di ricevere cure appropriate fino alla piaga costituita da un’alimentazione a basso costo e di scarsa qualità, possano essere trasmesse ereditariamente a livello genetico, modificando fino al 10% della sequenza del DNA. Come racconta Creagan Reid in Il Corpo dell’Antropocene, «gli effetti di qualcosa di negativo accaduto a nostra madre possono agire su di noi e sui nostri figli, a tal punto che possono occorrere cinque generazioni per superare una sola generazione di carestia, o di malattie epidemiche o di qualcosa di simile».

A complicare questo scenario, negli ultimi anni si sono aggiunti gli effetti devastanti della crisi climatica, di cui le fasce più povere della popolazione si ritrovano a pagare il prezzo ogni giorno. Le periferie, soffocate dall’inquinamento, dalla sovrappopolazione e dall’assenza pressoché totale di servizi, sono ricettacoli di malessere fisico ed esistenziale. La stessa aria che si respira rende difficile persino pensare lucidamente. Come scrive Bridle, in Nuova Era Oscura: «L’anidride carbonica annebbia la mente: va a deteriorare direttamente la nostra capacità di pensare in maniera lucida. A 1000 ppm (tasso di concentrazione dell’anidride carbonica nell’aria), le capacità cognitive umane crollano del 21%. Fuori dalle abitazioni, la Co2 raggiunge già regolarmente i 500ppm nelle città industriali: all’interno, in abitazioni poco ventilate oppure in scuole e luoghi di lavoro, può superare normalmente i 1000ppm». Da febbraio 2020 il virus Covid-19 ha mostrato chiaramente come le condizioni critiche di questi luoghi e di chi li abita non pongano solo interrogativi etici o politici, ma vere e proprie questioni di vita o di morte. Meno di tre mesi di pandemia hanno dimostrato ampiamente come la narrazione pacificatrice che ha attraversato un po’ tutti gli organi di informazione a livello mondiale faccia acqua da tutte le parti: i dati raccontano un’altra storia, dove il divario economico e culturale pesa più che mai, al punto che in molti paesi il codice d’avviamento postale risulta essere un indicatore più che attendibile riguardo l’aspettativa di vita di molte persone.

In Italia, in attesa di vedere gli effetti della Fase 2 e mentre si continua a romanticizzare la quarantena ignorando deliberatamente la sua intrinseca dinamica classista, il prezzo più alto in termini di vite umane viene pagato da chi è costretto a esporsi al contagio per ragioni lavorative: ad oggi, il tasso dei contagi sul lavoro ha superato le 30.000 unità. Lo stesso concetto apparentemente neutrale di «lavoro essenziale» nasconde diverse criticità: se per un manager l’ipotesi del telelavoro è attuabile senza grandi problemi, lo stesso non si può dire per tutte le migliaia di manovalanze che si trovano a dover scegliere fra morire di fame in attesa di un sussidio molto simile a un’elemosina e l’eventualità, che magicamente diventa preferibile, di contrarre il virus. Com’è ormai noto, chi soffre di determinate patologie come ad esempio asma, obesità, diabete e malattie cardiovascolari – tutte patologie connesse a condizioni di vita precarie in ambienti spesso insalubri –, ha probabilità significativamente maggiori di contrarre la malattia. 

Oggi, di fronte agli effetti devastanti che una pandemia può causare a persone e luoghi già da anni sull’orlo del collasso, ad andare in crisi è lo stesso istinto di sopravvivenza: è stato dimostrato da vari studi come le diseguaglianze socioeconomiche costituiscano il più importante complesso di elementi in grado di influire sulla salute nella popolazione, fino al punto di alterarne la stessa capacità di distinguere fra comportamenti e abitudini «sane», in grado di aumentare le probabilità di sopravvivenza e comportamenti e abitudini «malate», che al contrario riducono drasticamente tale probabilità. A livelli culturali tendenzialmente bassi corrisponde un deficit cognitivo in grado di alterare la percezione dei rischi legati alla salute.

È in questo spazio che proliferano le pratiche più assurde e controproducenti: dall’autodiagnosi ottenuta trattenendo il respiro ai Covid Party, passando per le manifestazioni che rivendicano il diritto di potersi tagliare i capelli durante una crisi sanitaria mondiale. Il dramma della disuguaglianza economica e culturale, precedente a qualsiasi pandemia, mostra attraverso le dinamiche del contagio i suoi effetti più deleteri. Se è pur vero che non sempre è possibile individuare un filo diretto che leghi ignoranza e povertà, come dimostrano i recenti suggerimenti del presidente americano Donald Trump di curare i malati di Covid19 con iniezioni di disinfettante, rimane anche vero che le comunità più escludenti, fobiche e razziste tendono spesso a mostrare quel trait d’union che collega inevitabilmente disuguaglianza, violenza e in generale una mancanza di alternative possibili. Gli antichi greci usavano maledire attraverso la pratica della defissione: l’anatema veniva scritto su una lamina che poi veniva trapassata da un chiodo e sotterrata, così da mantenere il suo effetto nel tempo; la povertà per molte persone funziona esattamente allo stesso modo: un chiodo conficcato nel corpo, capace di condannare al degrado intere esistenze.

La storia di queste comunità è una storia negata, che parla della riproduzione delle stesse emozioni attraverso il tempo, un racconto già scritto nei corpi e contro il quale ribellarsi è tanto difficile quanto necessario. La vita dei maledetti è una vita in negativo, composta dalle infinite privazioni che ne vanno a comporre il mosaico: le esperienze, sin dalla nascita, diventano un esperire la mancanza di tutto ciò che non si è potuto fare, essere e avere a causa di una società che cresce e prospera sulle disparità e sulle disuguaglianze, e che fa dell’ingiustizia il proprio valore fondativo. Nel mondo che verrà ci sarà bisogno, prima di ogni altra cosa, di ribaltare quelli che Édouard Louis nel suo libro (parafrasando il sociologo francese Francoise Eribon) chiama i verdetti: giudizi calati su di noi «gay, trans, donna, nero, povero e che hanno reso certe vite, certe esperienze e certi sogni, impossibili». Questa sofferenza porta il nome di chi ha scagliato queste maledizioni e ha la responsabilità di aver contribuito a distruggere i corpi e le menti di milioni di persone sparse su tutto il pianeta, creando il deserto sul quale oggi imperversa la pandemia. L’unica speranza possibile passa dall’avere memoria: quando tutto sarà «finito» bisognerà ricordare che la storia di questi corpi derelitti accusa la storia della politica, chiedendo vendetta.