Italian Occult Urbanism

Da Torino a Roma passando per i rave parties e le rovine della civiltà industriale: per una teoria della psicourbanistica post-gotica italiana

«Nella nostra città», aggiunse,
«i dèmoni covano sotto la cenere,
e non v’è da stupirsi»
(Le venti giornate di Torino, Giorgio De Maria)

Lo spazio urbano è un aggregato di metafore, simboli e allegorie. Non è mai un elemento neutro in cui gli individui si muovono impermeabili all’influsso psichico di ciò che li circonda. C’è una strana connessione tra le catene semiotiche della mente e le disposizioni fisiche delle città. Questa relazione attraversa in maniera sotterranea la storia dell’umanità: dalla struttura delle necropoli, fino alla psicogeografia situazionista. Il doppio filo tra urbanismo e influsso psichico, inoltre, è particolarmente forte nelle correnti esoteriche e occulte che hanno influenzato l’architettura e l’urbanistica delle città occidentali tra il XIX e il XX secolo, concependo pezzi dello spazio urbano come portali o come facenti parte di un rito di cui lo stesso viandante ne è un elemento. Le città sono testi, riscritture in cui si nascondono tracce delle scritture passate, in cui si intravedono le tracce di futuri perduti mai realizzati; sono uno dei mezzi tramite cui la materia inorganica interagisce con la mente in una sorta di connessione magica. Questa inorganicità «magica» dello spazio urbano permea anche le rovine industriali, gli edifici abbandonati o degradati delle periferie in si sono coagulate una serie di sottoculture nella cui estetica si è spesso riverberata una fascinazione per l’occulto: la scena industrial e post-industrial, la rave culture, le pratiche estreme legate alle modificazioni del corpo, l’esplodere della Chaos Magick. Le rovine industriali assumono i contorni di un’architettura «post-gotica» che dai margini della città incanala e produce nuove forme di soggettività. 

Civitas Diaboli

Nella prima parte di From Hell di Alan Moore, Sir William Gull, il vero Jack The Ripper secondo l’interpretazione della graphic novel, intraprende un percorso a piedi attraverso una serie di luoghi della Londra di fine Ottocento. Con lui c’è John Neatley, uomo ignorante e taciturno che sarà cocchiere e complice del folle progetto. Il percorso che stanno intraprendendo non è casuale. Quello di Sir William Gull è un vero e proprio tour psicogeografico attraverso una serie di luoghi e simboli dal grande potenziale magico-esoterico: obelischi fallici, totem che rappresenterebbero il potere del Maschile, monumenti che nascondono strani dettagli. Il cammino termina con la Cattedrale di St. Paul, progettata dall’architetto Nicholas Hawksmore. La sua struttura inclinata, con le sue punte così estranee all’architettura cristiana, vista ancora oggi, sembra voler sovrastare lo spettatore che la osserva dalla strada ormai costellata di negozi e ristoranti. Durante il percorso, Sir William Gull, rivolgendosi a un certo punto al cocchiere, afferma: «I simboli determinano i nostri pensieri e le nostre azioni; sollecitano figure seppellite al di sotto del nostro stato cosciente. […] La stessa coscienza non è altro che un cumulo di simboli, metafore, che si costruiscono su se stesse espandendo così il loro dominio metafisico». Nella Cattedrale di St. Paul, infatti, Sir William Gull traccerà un pentacolo che congiunge i luoghi occulti fin là visitati, con la Chiesa al centro del disegno. Nella testa di Jack The Ripper, la città di Londra stessa fa parte di un rituale, a cui manca solo il sangue – quello degli omicidi di Whitechapel – per essere completato.

Al di là degli obiettivi di Sir William Gull, c’è un aspetto che emerge dal suo discorso: l’idea che una città, o una parte di essa, con le sue forme e i suoi dettagli, possa contribuire psichicamente a una rivoluzione di ordine sociale. Questo tratto si trova in diversa forma lungo tutta quella parte di tradizione esoterica che si intreccia al cristianesimo e alla massoneria. Lo spazio urbano, cioè, assumerebbe i tratti di un acceleratore per un tipo particolare di rivoluzione sociale: re-istituire una sorta di mondo cristiano sommerso dalla decadenza della civiltà seguendo le orme del Grande Architetto, cioè Dio. Come per il Jack The Ripper di From Hell, che vuole reinstaurare una sorta di società patriarcale tradizionale, così l’interpretazione cristiano-massonica dell’esoterismo porta con sé un’utopia eretica: l’architettura umana deve adeguarsi alla traccia del dio artefice-architetto del mondo in vista di ristabilire un regno divino in terra. Una genealogia che Alan Moore mette in bocca proprio a Gull nella sua ricostruzione della biografia pagana di Nicholas Hawksmoore, dove viene citata la tradizione degli Antichi Architetti di Dioniso, le supposte maestranze di Atlantide sopravvissute alla scomparsa del mitico continente. Le pietre parlano una lingua che pochi iniziati possono comprendere, ma che segretamente influenza tutti gli abitanti della città. 

Questo fenomeno urbano-semiotico in Europa dilaga nel XIX secolo, con l’esplosione dell’occultismo e delle società segrete. Non è estranea l’Italia, con le città di Torino e Roma a costituire gli esempi più noti. Nella capitale italiana, c’è ad esempio un quartiere in particolare la cui fama esoterica è entrata ormai nell’immaginario pop: il cosiddetto Quartiere Coppedè, costruito nei primi decenni del Novecento, situato nella parte nord della città. Camminare per il Quartiere Coppedè significa avere la costante sensazione di un viaggio iniziatico: maschere gotiche, simboli astrali, richiami mitologici ricoprono edifici e Porte… Tutto ha le sembianze di un rituale. Non è un caso che Dario Argento abbia scelto di ambientare qui il suo Inferno: secondo il film, è nei suoi sotterranei che risiede la Madre delle Lacrime, pronta a riemergere per sovvertire l’ordine in superficie. 

La dicotomia tra superficie e sotterraneo ricorre latentemente nei punti di contatto tra urbanismo e occultismo. Come vedremo, c’è sempre una città, per lo più arroccata nel suo centro urbano, che in qualche modo è falsa, una finzione frutto di una narrazione del potere, il cui ordine va sovvertito; e questa sovversione può essere sobillata tanto dalle forze della luce (cielo, per ristabilire la civitas dei) che da quelle dell’oscurità (il sottoterra, per far emergere la civitas diaboli).

Su una facciata del Palazzo del Ragno, nel Coppedè, campeggia una scritta: ARTIS PRAECEPTA RECENTIS / MAIORUM EXEMPLA EXTENDO – «rappresento i precetti dell’arte moderna attraverso gli esempi degli antichi». L’esoterismo, soprattutto massonico, applicato all’architettura si pone sempre come una sovversione che ristabilisce il continuum tra un’antichità perlopiù mitizzata e una modernità vista come epoca di decadenza da redimere. Ma la funzione di un’architettura esoterica, soprattutto di questo filone massonico-cristiano, è anche di potere che frena le forze sotterranee dal ribaltamento, cioè dalla possibilità che l’assetto urbano di superficie – sempre determinato da una volontà politica e istituzionale – possa essere destituito. Ogni città cova i propri demoni sotto la cenere. Questa architettura, insomma, viene concepita letteralmente come una barriera contro l’emersione delle forze infere.

La città di sopra teme sempre che la soggettività dei suoi abitanti possa essere sovvertita; l’occultismo nero si presenta come una forma di energia che destituisce la sovranità dell’Io, facendo emergere comportamenti e modi che nello spazio ordinato della città sono banditi.

In Italia, la città che più ha rappresentato il conflitto tra luce e tenebra è Torino, epicentro sia della magia bianca che della magia nera (com’è noto, si troverebbe infatti a formare tanto un triangolo bianco con Praga e Lione, tanto un triangolo nero con Londra e San Francisco). Torino oscilla tra la luce e l’oscurità, tra Piazza Castello, dove dalle due statue dei Dioscuri si diramano idealmente dodici linee che tagliano la città in dodici settori corrispondenti ai segni zodiacali, e Piazza dello Statuto, dove il monumento piramidale al traforo del Frejùs (chiamato anche Porta dell’Inferno) è sovrastato da un Genio con una stella a cinque punte sulla testa, oggi scomparso dopo i numerosi restauri; una figura che secondo alcuni corrispondeva a Lucifero. Torino è una città doppia: superficie e inferi. Nei sotterranei della città giacciono tre grotte alchemiche, dove – secondo la leggenda – si concentrerebbe un tale livello di energia da materializzare i desideri sepolti nell’inconscio, al di fuori del controllo del Sé, come nella Stanza del film Stalker di Tarkovskij. Anticipando un tema che emergerà soprattutto parlando del rapporto tra Chaos Magick ed edifici industriali, la città di sopra teme sempre che la soggettività dei suoi abitanti possa essere sovvertita; l’occultismo nero si presenta come una forma di energia che destituisce la sovranità dell’Io, o meglio che ne dissolve la sua identità compatta, facendo emergere comportamenti e modi che nello spazio ordinato della città sono banditi. 

Del conflitto tra superficie e inferi è testimone uno dei romanzi più singolari nel panorama letterario italiano: Le venti giornate di Torino di Giorgio De Maria. Nel libro compare un luogo occulto, denominato la Biblioteca: una sorta di archivio in cui, al posto di libri editi, si trovano scritti privati di cittadini, confessioni intime a volte terribili. Troppo spesso la critica ha insistito sulla Biblioteca come profezia che annunciava l’era dei social. Eppure, nel contesto del libro, Giorgio De Maria sta descrivendo «i demoni sotto la cenere» che giacciono al fondo della città. E cioè quel negativo della vita in superficie. Gli scritti, allora, sono piuttosto la materializzazione dell’inconscio collettivo, con il suo carico di violenza e il suo fluire senza tabù e senza limiti del super-io. La Biblioteca assomiglierebbe così più alle grotte alchemiche prima citate, il cui influsso magico influenza il mondo in superficie. Le statue-entità-monumenti che prendono vita e si muovono irrequiete nella notte, invece, andrebbero lette nell’ottica di uno spazio urbano che si ribella alla narrazione ufficiale imposta dal potere. Le statue soffrono la loro stasi, il loro status di ornamento marginale. Quella delle statue è una rivolta contro l’eccesso di Storia in cui le città sono immerse, condannate a una fissità posticcia, un’eternità costruita per la fruizione turistica.

C’è più di una dicotomia evidente che ricorre in questo connubio tra occultismo e  architettura: ordine/caos, alto/basso, dove il basso e il caotico spesso sono il segno dell’inconscio, delle potenzialità represse. In un film come La Chiesa di Michele Soavi, queste dicotomie sono all’opera in maniera evidente. La storia è incentrata su una cattedrale che nelle fondamenta cela un segreto demoniaco, collegato ad antichi fatti di sangue. La costruzione, tramite un meccanismo segreto, può autodistruggersi nel momento in cui il male sta nuovamente per emergere dai suoi sotterranei. La polarità apparente su cui è costruito il film sembra essere quella scontata della lotta tra bene e male che informa sotterraneamente molta produzione di genere. Le cattedrali, seguendo il celebre studio di Fulcanelli, hanno una funzione frenante rispetto al male che ribolle nelle viscere della terra. Eppure, alcuni indizi del film ci suggeriscono una prospettiva alternativa. La cattedrale nasce dal sangue e dalla violenza perpetrata in nome dell’ordine divino. L’edificio è stato costruito, infatti, sui resti di una carneficina ad opera di un gruppo di Cavalieri dell’Ordine teutonico (ordine da cui lo stesso Hitler avrebbe tratto ispirazione, secondo il protagonista del film) ai danni di un villaggio pagano. Il male che riemergerebbe è allora la sublimazione di quella violenza originaria e fondativa; e la distruzione del mondo minacciata da questo Male non è altro che la destituzione di un ordine reazionario fondato sulla repressione e sull’infelicità.

La figura di Satana come simbolo di emancipazione non è di certo sconosciuta alla cultura occidentale. Come spiega Ronald Hutton nel suo The Triumph of the Moon: A History of Modern Pagan Witchcraft, le raffigurazioni del Diavolo vengono mutuate dal dio caprino Pan, fino a stabilizzarsi nel vittoriano XIX secolo come emblema dell’erotismo selvaggio e, quindi, demoniaco – d’altronde, anche nei tarocchi il Diavolo viene raffigurato con un corpo transgenere, dalla sessualità mutante. In quest’ottica va letto il celebre racconto dello scrittore inglese Artur Machen Il grande Dio Pan. La storia di uno strano esperimento scientifico sul cervello di una donna, che avrebbe come risultato lo sbloccarsi della capacità di «vedere il Grande Dio Pan».  Il significato di quest’espressione oscilla tra uno stato di follia (portatrice di una scia di terrore e sangue) e la rivelazione della natura panica occultata dentro l’animo umano. La visione panica è sostanzialmente un atto anti-vittoriano; è l’apertura delle porte del proprio inconscio, dominato da pulsioni e desideri indicibili, come nella Zona tarkovskijana. L’elemento autodistruttivo e che innesca la scia di sangue non è altro che l’attrito conflittuale con la morale di quel periodo. Come scrive nel saggio Il risveglio della selva Susan Johnston Graf, studiosa del rapporto tra occultismo e letteratura, «forse Machen considerava Pan come una divinità capace di rovesciare la sensibilità vittoriana». Questa interpretazione ebbe una risonanza enorme nella concezione della magia sexualis di correnti esoteriche come la Golden Dawn. Scrive Graf: «Anziché comprendere la duplice natura dell’umanità e operare alla trasmutazione dell’inferiore nel superiore, la sensibilità vittoriana represse e negò l’inferiore, cioè l’istinto e la sessualità. In questo senso l’insegnamento relativo a Pan nel rituale della Golden Dawn fu davvero controculturale, in quanto riconobbe la sessualità e suggerì che invece di essere negata poteva essere trasmutata e utilizzata per fini superiori». 

L’elemento controculturale sta fondamentalmente nel concepire Satana e il demoniaco come elementi di accelerazione ed emersione delle pulsioni represse dell’essere umano, delle sue spinte di emancipazione. La possessione, allora, assomiglia più a un’apertura dell’inconscio, pericolosa ma liberatoria. Il demoniaco, già nel Malleus Maleficarum di Jacob Sprenger e Heinrich Institor Kramer, può essere letto come un elemento che irrompe e decostruisce l’identità del soggetto, la sua supposta padronanza del Sé. Ancora meglio: che rompe con la percezione di un Sé unico e stabile. Il posseduto è esposto all’Alterità radicale, all’elemento extra-umano che giace latente in ognuno. La possessione, in altri termini, è una forma di soggettività destituente. Nel rapporto con il demone, la «natura» umana si rivela una finzione, qualcosa di permeabile, di informe e quindi di modificabile. Il demone diventa così un termine di mediazione con se stessi. Può allora una città, come un corpo non-umano, essere posseduta? 

Se mai esistesse qualcosa come un urbanismo occulto, in contrapposizione all’architettura esoterico-cristiana, avrebbe come obiettivo proprio l’emersione delle forze che si agitano nei suoi sotterranei. Le città sono riscritture, segni che coprono altri segni. Come ricorda Owen Hatherley in Militant Modernism, il Modernismo, nel dopoguerra, si è posto all’insegna del motto di «cancellare le tracce. Distruggere per creare. Costruire un nuovo mondo sulle rovine del vecchio». Nuova urbanità per una società nuova. Ma che succede, si chiede Hatherley, se la «società nuova non è mai emersa?». I detriti si depositano al di sotto della superficie. Le tracce cancellate minacciano lo spazio urbano manifesto. 

La forma e le possibilità di una città sono sempre messe in discussione dai margini, dagli elementi espulsi dalla sua immagine ufficiale e normata: i soggetti marginali, le pratiche alternative di vita, diventano sostanzialmente gli spettri della metropoli, il ritorno del rimosso che inquieta e vivifica al tempo stesso.

 

Urbanismo caotico

We are bored in the city,
there is no longer any Temple of the Sun
(Formulary for a New Urbanism, Gilles Ivain)

L’urbanismo come guerra psichica è un’idea che prende una forma definita sul finire degli anni cinquanta. Mentre in Europa si comincia a parlare di «città nuove» e le aree al di fuori dei «ring» cittadini diventano teatro di sperimentazione urbanistica, l’artista situazionista Constantin Nieuwenhuys concepisce New Babylon, una megastruttura architettonica in cui la necessità di lavorare è sostituita da uno stile di vita nomade e creativo. Ancora in orbita situazionista, sono anche gli anni in cui Gilles Ivain immagina una città in cui ogni distretto avrebbe rappresentato e veicolato un sentimento diverso. Nel suo pamphlet-manifesto Formulaire pour un urbanisme nouveau, Ivain immagina uno spazio urbano libero da quella polarità tra centro e periferia che ricalca una dicotomia tra norma e incoscio represso, tra moralità e immoralità; il negativo urbano ha un ruolo e produce attivamente lo spazio della città – come nel caso del «quartiere sinistro» in cui «i bambini imparerebbero a non temere le angoscianti occasioni della vita, ma a divertirsi con esse».

Nel dibattito mainstream, l’eredità situazionista in campo urbanistico è diventata presto lettera morta. Eppure, come rivoli sotterranei, in Italia alcune di queste prospettive sono andate a ibridarsi con quel melting pot di occultismo, paranoie per la società del controllo, passione cyberpunk per le contaminazioni tra uomo-macchina ed estetica post-industriale che ha dato luce a tante esperienze sotterranee degli anni Novanta. A Roma, in quel periodo ribollono pezzi di underground che si situano ancora più ai margini delle controculture più «in voga», e gruppuscoli borderline destinati all’anonimato si muovono tra le macerie delle periferie e i capannoni industriali in cui vengono organizzati i rave illegali. Molte di queste esperienze vengono raccontate da riviste che segneranno la storia dell’editoria underground italiana come Torazine e Catastrophe (nata dallo stesso nucleo della prima), in cui la cultura pop viene riletta attraverso le lenti deliranti della psichedelia, del marxismo esoterico e di tutto ciò che è estremo, in un misto di vero e proprio terrorismo estetico-sociologico. 

Nel numero di Catastrophe datato primavera 2005, un misterioso collettivo a nome Laboratoire Untermensch prova a storicizzare la vicenda delle cosiddette «subavanguardie», gruppi che negli anni Novanta si agitarono nelle borgate romane rimescolando in sintesi improbabili pezzi di culture alternative del Novecento. Siamo ai piani più bassi del già marginale magma controculturale, talmente bassi da essere praticamente invisibili: come precisa il Laboratoire Untermensch, «nella stessa Roma questi movimenti non hanno goduto del benché minimo seguito, rimanendo testimonianza gratuita di un clima e di una stagione […]. Se l’avanguardia, nonostante il suo continuo scagliarsi contro la cultura ufficiale, rimane sostanzialmente “cultura alta”, pronta per le retrospettive e le gallerie, la subavanguardia […] è roba insulsa, borgatara». 

Nelle subavanguardie romane, psicogeografia e situazionismo si contaminano con la magia del caos. Tra i vari -ismi raccontati dall’articolo di Catastrophe troviamo appunto il Caoismo, un misto di occultismo naif, pseudo-fisica dei frattali, cospirazionismo, ma anche e soprattutto urbanistica radicale. Scopriamo così che, sull’onda dei Provos olandesi che nella seconda metà degli anni Sessanta dichiararono Amsterdam «città magica», i caoisti vollero fare altrettanto con Roma: lo scopo era mostrare l’altro lato della città, l’ombra della Città Sacra. La città, allora, non andrebbe analizzata a partire dal suo centro storico, come invece solitamente viene raccontata: del resto, il Centro è una parte infinitesima dell’area urbana – specie di quella romana, la quale si distende per lo più in una vasta periferia. Secondi i caosti, la città di Roma avrebbe inoltre un’essenza frattale, che si estende allontanandosi dal Centro e oltrepassando l’anello autostradale che la circonda, il celebre GRA. (Grande Raccordo Anulare). Man mano che ci si spinge verso il fuori, la città si dirada in maniera non uniforme, quartieri spuntano dal nulla intervallati da aree non edificate, pezzi di città non collegati tra loro, rovine industriali. In un misto di ingenuità e intuizione, i caoisti romani analizzano la forma geometrica dell’anello auostradale romano: «Mi sono chiesto cosa contenesse questo cerchio», racconta un Caoista, «e ho trovato che per prima cosa contiene un secondo cerchio […]. Allora ho indagato ulteriormente all’interno di questo secondo anello, e ho scoperto le cinque zone nevralgiche di Roma, i cinque “centri magici”». Tra questi, il già citato quartiere progettato da Gino Coppedè, ma anche Valle Giulia dove sorge «il museo etrusco, e gli etruschi avevano un complesso sistema magico al momento di fondare una città, con tre riti distinti: inauguratio, limitatio e consacratio». Collegando questi cinque punti, verrebbe fuori una stella a cinque punte col vertice ribaltato: il pentacolo. 

Non so quanto i caoisti romani si prendessero sul serio. Ma queste formulazioni, pur in uno spirito più iconoclastico che seriamente teoretico, fanno emergere uno sguardo alternativo sugli spazi urbani. La forma delle città, la sua materialità, può essere cioè riletta come un rituale, come un aggregatore di forze sotterranee. Nel suo Remoria. La città invertita, parlando del GRA, Valerio Mattioli ne ha sottolineato la natura totemica, più che funzionale, riprendendo e approfondendo il discorso abbozzato dai Caoisti. Il progetto del GRA, come racconta nel libro, prende vita nel 1946 e si presenta da subito come un’opera insensata per le esigenze cittadine di allora: sessantanove chilometri di asfalto in una città alle prese con le macerie del dopoguerra, con un traffico automobilistico a bassissima intensità, che all’epoca scompariva totalmente nelle vaste campagne romane in cui il GRA si snoda circolarmente. Questo anello stradale sembra sconfessare la struttura con cui siamo abituati a pensare Roma. D’altronde, il circolo è la forma che richiama il sabba, il rituale dell’inversione. La Roma moderna è intimamente costituita da questo cerchio d’asfalto – eppure, in origine, i limiti della città erano costituiti da un quadrato. Il mito della fondazione di Roma nasce notoriamente con un fratricidio. Secondo la versione più nota della leggenda, Romolo traccia un solco di forma quadrilatera che delimita la città. Il fratello Remo lo sfida oltrepassando il confine, e trovando in seguito la morte. La Roma Quadrata è l’urbe di Romolo delimitata dal parallelogramma tracciato. Come ricorda Mattioli, «il quadrato è un principio regolatore che obbliga all’ordine, al rispetto delle gerarchie; è un baluardo contro le forze del caos, un’irreggimentazione di spinte potenzialmente disgreganti. È anche in questa chiave che va letta la simbolica delimitazione del pomerium (il confine sacro) scavato da Romolo». La Roma di Remo (appunto Remoria) altro non sarebbe che la Roma sotterranea, la Roma che non fu mai, ma che da sempre fa da specchio oscuro alla città in superficie, il rimosso che il cerchio magico del GRA riattiverebbe. 

Nell’ambito della cultura industrial prima e della scena rave poi, le rovine industriali  acquistano un fascino distopico che riattiva – nella sospensione di tempo della festa – le possibilità sepolte della città ufficiale.

Le periferie, insomma, rappresentano un elemento di sovversione dell’ordine, ma anche di possibilità dell’immaginario. Nelle città – anche in quelle italiane – è dopotutto ai margini del centro che si sono sviluppate le principali esperienze controculturali, all’ombra della città «normale». Il caos è l’inconscio della norma – un inconscio che è però geograficamente situato. Ancora restando al caso romano, è nelle sue periferie che negli anni Novanta prende forma la cultura rave illegale italiana, che – come racconta Pablito El Drito in Rave in Italy. Gli anni novanta raccontati dai protagonisti ha il suo il suo apice nel biennio 1993-1994 quando arriva una spinta all’esplorazione dei margini periferici dello spazio urbano. Intorno al 1997, un’occupazione permanente in un enorme capannone industriale abbandonato alle porte di Roma (l’ex fabbrica edile Fintech) diventa una sorta di mecca del panorama rave internazionale. La Fintech era un complesso mastodontico composto da corridoi labirintici, esteso su più piani, con superfici ampie: inizialmente pensata come un’occupazione temporanea, diventa una sorta di rave non-stop, tramutandosi nella base di travellers di tutto il mondo, luogo di esperienze abitative alternative, ma soprattutto crocevia di droghe, personaggi improbabili, sessualità devianti, ibridazioni di stili musicali ed estetici. Un enorme dungeon in cui il rimosso della città ufficiale prendeva vita sotto forma di mostri metropolitani; dove gli spettri delle condotte di vita espulse dalla superficie venivano rievocate.

Nei rave romani degli anni Novanta si incontrano e si mescolano figure diversissime tra loro: dai punk convertiti al verbo techno ai sottoproletari in bilico tra cattivo gusto, proto-fascismo e violenza. L’edizione italiana del Manuale di Cultura Industriale, nei capitoli finali, traccia un parallelo proprio tra Torazine, Fintech e Peti Nudi (altra fanzine romana che aggiungeva un tocco dark-esoterico alla cultura rave), stabilendo una linea di continuità tra rave, vecchia scena industrial ed estetica occulta: ai margini della città, migliaia di persone riprogettano la geografia urbana al ritmo di musica elettronica e lasciandosi possedere dai demoni della droga. Il parallelo droga-demoni-rave è meno forzato di quanto possa sembrare. Nell’anime del 2018 Devilman: Cry Baby, tratto dal manga cult di Go Nagai, in una delle scene iniziali vediamo la nascita del Devilman all’interno di una sorta di rave. I demoni si insinuano nei luoghi marginali della città, dove le droghe spingono le persone a far uscire il proprio lato oscuro. In Devilman: Cry Baby la possessione è legata davvero a un confronto con le pulsioni nascoste di ogni essere umano: violenza, sessualità, carica autodistruttiva, seppure in una chiave moralistica. E il progetto finale è, non a caso, la sovversione dell’ordine vigente, la riconquista di un pianeta Terra dominato dall’egoismo. 

Nell’ambito della cultura industrial prima e della scena rave poi, le rovine industriali come la Fintech acquistano un fascino distopico che riattiva – nella sospensione di tempo della festa – le possibilità sepolte della città ufficiale. Come scrive Mattioli, facendo un parallelo tra i Saturnalia (le festività della Roma antica dedicate a Saturno da cui discenderebbero i sabba) e il sabato come giorno in cui solitamente i rave prendevano vita: «il canto e l’ebbrezza sono il linguaggio attraverso cui gli strati più infimi della società irrompono nell’ordine naturale delle cose: tecnica, analità, sovvertimento spaziale e temporale, rivolgimento di classe si ritrovano intrecciati in un’apoteosi dell’innaturalità che nel rave diventa baccanale macchinico». Il Dio Pan si aggira nelle periferie della Città Eterna, fuori dal centro si animano luoghi in cui la sessualità fuori norma può uscire alla luce del sole o delle illuminazioni al neon delle insegne metropolitane. Allora immaginare il Grande Raccordo Anulare come un sigillo magico, un tracciato che evoca i demoni della città invertita, diventa un vero esercizio di Chaos Magick applicato all’urbanistica. 

Tra i punti essenziali della Chaos Magick figura il concetto di decondizionamento. Le metafore e le azioni più o meno arbitrarie della magia caotica funzionano come dei riti che influenzano la realtà; ma questa influenza avviene come una vera e propria decolonizzazione dell’immaginario. Come scrive Phil Hine in Caos Concentrato, «il nostro ego è la finzione di una individualità stabile che si sostiene perpetuando le distinzione di “cosa sono/cosa non sono, cosa mi piace/cosa non mi piace”, le credenze sulle proprie scelte politiche, religione, gusti sessuali, razza, sottocultura ecc. ecc. aiutano tutte a mantenere un senso di identità stabile». Se sostituiamo ego a città, il negativo urbano – questo sottosopra della città ufficiale che si agita nelle sue rovine – corrisponde agli esercizi di decondizionamento della magia del caos, con cui allargare le crepe nella realtà consensuale. Non esiste, insomma, nessuna vera città ufficiale: essa si dà solo come dispositivo di potere che pone limiti, organizza corpi e materia, e occulta ai suoi margini quell’orizzonte di possibilità inespresse. D’altronde, le controculture post-industriali e rave spingevano letteralmente le persone a battere i territori più sperduti della città, ad esplorarne gli anfratti più oscuri e dimenticati. 

Se quindi volessimo tracciare un discrimine essenziale tra l’esoterismo massonico che spunta tra XVIII e XIX secolo in varie città d’arte europee e questa sorta di urbanismo occulto che stiamo delineando, avrebbe a che fare con la direzione, lo sguardo delle architetture. Nel primo caso, c’è una spinta verso l’alto, un anelito alla trascendenza nel voler replicare la costruzione del Dio Architetto che si materializza anche in termini spaziali in costruzioni verticali; nel secondo caso, la spinta è verso il basso, nell’underground metaforico e non, verso il fuori innominabile che cerca in tutti i modi di lanciare il suo grido: la realtà in superficie è falsa, l’ordine è solo apparente, nei sotterranei si agitano le forze della disgregazione. Come nel motto che dall’Islam transita attraverso Nietzsche, William Burroughs e Aleister Crowley, «niente è vero, tutto è permesso».

Magia e rovine post-gotiche

La Grande opera della Magia consiste
nel far collassare il futuro dentro all’immediato presente
(Caos Concentrato, Phil Hine)

Nell’estetica industrial si possono rintracciare diversi degli elementi dell’urbanismo occulto fin qui descritto. Le scorie industriali di città come Sheffield hanno prodotto esperienze come Clock DVA e Cabaret Voltaire, dove l’estetica (sonora e visiva) delle rovine industriali viene piegata in funzione di un immaginario futuristico di ibridazione tra organico e inorganico, umano e non-umano, attingendo a piene mani tanto dall’erotismo sinaptico di Ballard quanto dalle visioni weird-cyberpunk che nel 1989 saranno alla base del Tetsuo di Shinya Tsukamoto. L’anelito è a dismettere il proprio Io, e in questo processo sintetizzarsi sempre più con l’inorganico. I suoni e l’ambiente circostante trasformano l’individuo post-industriale per mezzo di uno shock neuronale simile all’esperienza dei protagonisti del Crash di Ballard, dove il kink sessuale dell’incidente automobilistico diventa un modo di decostruire l’umano, immaginare ferite e cicatrici come una possibilità di modulare il corpo, acquisire una nuova sessualità, che è sempre un modo diverso di sentire. La mutazione che richiama questa scena industrial è totale, come quella affrontata da Tsukamoto in Tetsuo. L’essere umano diventa un più che uomo, quel Man Amplified del sesto disco dei Clock DVA (1991): non meramente umano, ma nemmeno propriamente cyborg, in quanto ormai letteralmente sintetizzato con l’ambiente e con la città, in una sorta di delirio biomeccanico che realizza l’idea spinoziana di un mondo-natura permeato ovunque da agentività (agency). 

In Italia, molti tra i nomi principali della scena industrial (Ain Soph, Sigillum S, Rosemary’s Baby), accentueranno la dimensione esoterica di gruppi come Coil e Current 93, trasformando il suono post-industriale in una sorta di musica cerimoniale, di colonna sonora magica, se non proprio in un folk occulto contaminato da etnomusicologia e sciamanismo. Se quella per l’esoterismo è una fascinazione ben nota nel filone industrial, la scena italiana, in particolare, insisterà molto su un immaginario in cui lo spazio urbano post-industriale è legato a doppio filo a una dimensione occulta e inumana. Per alcuni di questi gruppi, cioè, le rovine industriali diventano un correlativo oggettivo delle rovine epocali della civiltà occidentale (spesso sconfinando nell’esoterismo fascistoide influenzato dagli scritti di Julius Evola e René Guénon, come nel caso degli Ain Soph). I clangori metallici si mescolano a litanie occulte, i ritmi marziali si sfaldano in tappeti ambient che sembrano provenire dalle ombre della città, là dove le pratiche controculturali diventano così estreme da sfiorare il territorio della mistica. 

Come già detto, nelle zone periferiche delle città, gli scheletri di complessi industriali diventano il teatro di esperimenti urbani. Nelle pratiche di occupazione, nelle feste, nei concerti, la funzione degli edifici diventa fluida, mettendone a nudo un tratto essenziale: la loro apertura soprattutto nel momento dell’abbandono, il non avere in realtà nessuna funzione predeterminata, qualificandosi come materia riplasmabile all’infinito, lontana da una finalità eterna impartita da una qualche soggettività umana creatrice. Rivelano cioè un tipo di spazio urbano impersonale aperto alla casualità e alla contingenza. Edifici sopravvissuti malamente alle desertificazioni industriali che hanno investito i paesi europei dopo gli anni Settanta, costruzioni figlie del gusto brutalista e modernista di moda negli ultimi decenni del Novecento, vengono ritrasformate in spazio occulto, nei cui sotterranei e tra le cui superfici masse di persone si sono riversate in una sorta di eccitazione neuronale senza precedenti. Le rovine industriali diventano luogo d’elezione di un’umanità che già si pone come essere ibrido alla fine di un mondo sull’orlo del collasso. 

Già il critico musicale Simon Reynolds nel suo Energy Flash ha descritto i rave party come rituali pagano-gnostici, dove le frasi ripetute in maniera ossessiva («Hardcore, you know the score») assomigliano a formule magiche «per accedere a una conoscenza segreta». Il dj Jason Walker, in Rave America, libro di interviste di Mireille Scott uscito nel 1999, descrive un rave party a Gray Wahle Cove in California in questi termini: «Quando a tutti cominciò a salire la botta dell’ecstasy e della loro roba psichedelica, si formò un enorme anello intorno alla cabina da DJ. Tutti si tenevano per mano e giravano, correndo in un cerchio veloce. Per me è stato come tornare alla stregoneria o qualcosa del genere – rituali magici pagani, insomma».

Queste ultime affermazioni verrebbero prese molto sul serio da un qualunque appassionato di Chaos Magick. Le frasi ripetute come formule, i movimenti codificati e ossessivi, assomigliano molto all’idea di magia-fai-da-te dei maghi del caos. Per quest’ultimi, la magia è un’organizzazione dell’immaginazione, un’energia che viene veicolata attraverso allegorie, metafore e rituali letteralmente inventati dall’individuo e che agiscono sulla mente. Nel pieno stile anarco-postmoderno della teoria del caos, non è importante il concetto di verità, di dogma o di liturgia occulta. L’influenza caotica agisce come una forma di iperstizione: «informazioni false producono eventi reali», come recitava negli anni Settanta la rivista controculturale A/traverso fondata tra gli altri da Franco «Bifo» Berardi. La possessione va intesa in questo senso come evento reale; come interazione con l’inorganico e con l’impersonale che in certe esperienze attraversa e decostruisce/decondiziona il soggetto. E cioè un’eccitazione indefinita, un nuovo modo di sentire e sentirsi, innescata tanto dalle droghe sintetiche che dalle linee sinusoidali, fredde e impersonali della techno, o dell’acciaio cyborg dei suoni post-industrial; dallo spazio e dall’estetica, dalle (poche) parole e litanie che aleggiano in queste scene musicali e che spingono verso un abbandono del sé come entità chiusa in se stessa. Tutto è sigillo, sabba, rituale in cui attraverso il proprio demone guardare oltre l’umano, in un’esperienza molto simile a una sessualità neutra, senza orgasmo, eccitazione neuronale costante, quel «darsi come una cosa che sente» che il filosofo Mario Perniola definiva «sex appeal dell’inorganico» e che concepiva come un decentramento o un riposizionamento del soggetto umano all’interno di una materia vivente più ampia e stratificata.

La città travalica continuamente il proprio concetto, è un fluido, di cui l’essere umano fa parte. Tutto è paesaggio, luogo di transito. La distruzione diventa così, paradossalmente, un atto di demistificazione dell’essenza dell’oggetto urbano.

Perniola descrive il decostruzionismo in architettura in maniera simile a quanto detto in precedenza di questo urbanismo post-umano, vale a dire un’architettura che spinge per dissolvere ogni forma e funzione: «Nell’affermazione simultanea della caducità delle configurazioni plastiche sta l’intuizione più profetica dell’architettura decostruttiva». Le rovine fanno emergere esattamente ancora di più questa «intuizione profetica» del decostruttivismo: l’impossibilità di contenere un edificio, anzi l’intera città, in se stesso; il suo non poter avere una funzione fissata eternamente da una mente umana creatrice. La città travalica continuamente il proprio concetto, è un fluido, di cui l’essere umano fa parte. Tutto è paesaggio, luogo di transito. La distruzione diventa così, paradossalmente, un atto di demistificazione dell’essenza dell’oggetto urbano. Esistono linee di pensiero in architettura che si sono mosse proprio a partire da tale principio. Lebbeus Woods, riflettendo sulla ricostruzione delle città dei Balcani vessate dalle guerre negli anni Novanta, arrivò a teorizzare una vera e propria architettura delle rovine. «Logore lacrime colano dalle pareti, dai tetti, dai pavimenti, create dalle esplosioni e dagli incendi, formando forme complesse uniche nella storia e nel significato. È impossibile trovarne due uguali, ma hanno tutte lo stesso aspetto. […]. Sono gli spunti per nuovi modi di pensare, di vivere e modellare lo spazio».

Nel suo pamphlet Guerra e architettura, Woods si scaglia contro l’ossessione del restauro: il tentativo di ripristinare il tessuto di città distrutte da eventi contingenti come la guerra «è una follia che […] impedisce l’emergere di un tessuto urbano e di uno stile di vita basato sulle esigenze contingenti». Il modernismo ha ricostruito l’Europa cancellando le tracce della guerra. Woods propone invece di costruire a partire dalle ferite, inventando forme spaziali nuove, inedite e non lineari. I suoi disegni sembrano venire da un’altra epoca dell’uomo, da un mondo alla fine dei tempi. L’architettura solitamente agisce imitando le leggi eterne della natura, leggi eterne che in realtà non sono tali; di conseguenza è un’architettura che rifiuta con orrore la contingenza, la fluidità del reale. Per Lebbeus Woods, «il caos è una forma di ordine complessa e non lineare».

Il discorso diventa più chiaro pensando al clamore mediatico intorno al recente incendio della Cattedrale di Notre-Dame. L’enfasi e la retorica sulla ricostruzione «esattamente come prima» (ma di quale prima parliamo, dal momento che la cattedrale è stata ricostruita lungo tutta la modernità seguendo i gusti estetici delle varie epoche?), celano la paranoia della città ufficiale di porsi fittiziamente come eterna, perpetuare una narrazione intoccabile dello spazio urbano. C’è una sorta di rifiuto collettivo intorno a questi eventi, una disperazione che fa emergere il surplus di storia in cui vivono immerse tutte le civiltà decadenti. Ma la storia è fatta soprattutto di monumenti che bruciano, crollano, scompaiono. L’incendio di Notre-Dame, come l’immagine dell’undici settembre che ha marchiato le pareti del nostro immaginario, era già diventata a sua volta un monumento nuovo con le sue fiamme, grazie anche all’immagine ripetuto e cristallizzata dai media. Come scrive Jacques Derrida in Memorie di cieco, «in principio è la rovina». La rovina è l’ immettersi di una rappresentazione in un processo di temporalizzazione, di perdita e di allontanamento dall’originale che è però anche la sua condizione d’esistenza. «Rovina è […] ciò che resta o ritorna come uno spettro non appena al primo sguardo su di sé una raffigurazione si eclissa». 

Il caso di Notre Dame, così come i brandelli di paesaggi industriali riutilizzati nelle pratiche controculturali, ci dicono che la rovina non è il residuo di una «monumentalità» andata persa. È essa stessa monumentalità, oggetto nuovo. La rovina, insomma, non implica necessariamente una perdita; indica piuttosto uno slittamento di senso di una data architettura. All’opposto di questo discorso, ad esempio si situa la teoria delle rovine elaborata da Albert Speer, l’architetto del Reich, e che informa segretamente molta urbanistica odierna incentrata sui concetti di decoro e restauro. Una concezione del genere tradisce subito la visione totalitaria che la sottende: rendere eterno un passato, che per altro è frutto di una narrazione autopoietica, di quella fabbrica del mito di cui parlava Jean-Luc Nancy a proposito del nazifascismo. Il senso da tramandare era chiaro: l’individuo corre verso la morte, ma il corpo politico rimane in eterno. Sulle orme di Walter Benjamin, le rovine sono invece testimoni della transitorietà di tutte le cose, del loro essere senza fondamento. Esse possono svolgere una funzione di critica della realtà ufficiale, della città che emerge dall’ordine costruito dal potere. Ma possono anche avere una portata psichica. 

L’architettura esoterica massonica ha sempre lavorato molto con il simbolo, che è un tentativo di rappresentare l’eternità. Un’idea dell’architettura improntata alla imitatio dei, proiettata verso la trascendenza. L’urbanismo caotico, invece, avrebbe più a che fare con l’allegoria nel senso descritto da Benjamin ne Il dramma barocco tedesco: una forma psichica che si esprime attraverso la concretezza della materia, uno shock sinaptico che de-mitizza un reale generato da una narrazione dominante.

I luoghi che hanno caratterizzato tanto l’estetica post-industrial che la rave culture sono pezzi di urbanità cyborg, cioè ricettacoli di elementi umani e non-umani, frammenti estranei trapiantati, elementi generati dalla casualità e caoticità dell’abbandono. Questa sorta di architettura post-umana, in cui l’impronta umana mira a fondersi con la materia, annullando la stessa dicotomia organico/inorganico, ha un elemento impersonale, una freddezza mortifera che ricorda le coordinate del «materialismo gotico» descritto da Mark Fisher nella sua tesi di dottorato Flatline constructs. Gothic Materialism and Cybernetic Theory-Fiction, dove descriveva una forma di materialismo in cui animato e inanimato vengono posti su uno stesso piano di «immanenza radicale»; una sorta di Spinoza gotico. Se per il filosofo olandese «l’agentività [agency] è ovunque, ma essa non appartiene ai soggetti umani», Fisher ribalta questa prospettiva portando alle estreme conseguenze l’assunto del cyberpunk: non che la materia sia ovunque viva, quanto più che tutti – esseri animati e inanimati – siano delle «cose», delle forme provvisorie che si staccano transitoriamente dalla propria eterogeneità essenziale, sempre intrappolati in un processo di diventare altro, in una prospettiva coincidente con quell’idea di sensualità inorganica esplorata da Perniola. Si domanda allora Fisher: e se invece fossimo un qualcosa di «morto» allo stesso modo delle macchine?

Fisher descrive gli individui non come ego pensanti alla maniera di Cartesio, ma come flussi. Il nostro Sé non fa altro che morire in continuazione, e il suo materialismo gotico pone in questione proprio ciò che chiamiamo vita e ciò che chiamiamo morte. Come scrive Rosi Braidotti ne Il Postumano: «Quello che noi umani bramiamo davvero è scomparire fondendoci al flusso generativo del divenire, presupposto per la perdita, la scomparsa, la distruzione del soggetto atomizzato e individuale. […]. Possiamo chiamare tutto ciò morte, ma […] ha più a che fare con l’immanenza radicale: la totalità radicata del momento in cui coincidiamo completamente con il nostro corpo, il processo di divenire quello che, alla fine, siamo sempre stati, ovvero cadaveri virtuali». Gli individui sono aperti alle sollecitazioni di tutto ciò che sta intorno, parafrasa Fisher: «“Noi stessi” siamo catturati all’interno dei ritmi, degli impulsi e dei pattern di forze non umane. Non c’è interno se non come una piega dell’esterno; lo specchio si spezza, io sono un altro, e lo sono sempre stato». Gli edifici abbandonati del paesaggio urbano sono i castelli di Walpole della nostra epoca. Come il gotico descrive una materia in cui il vivente e il non-vivente si confondono, in cui il decadimento è generatore di nuove entità, così le rovine del mondo industriale producono nuove soggettività fluide.

Attraverso clangori metallici, riverberi fantasmatici, scariche elettroniche, tra le ceneri della città ufficiale, gli spazi urbani abbandonati diventano acceleratori di un’esperienza occulta, rituali essi stessi, portali attraverso cui i demoni prendono possesso degli individui, squarciando veli di Maya e decostruendo l’idea di un soggetto impermeabile al divenire, incarnazione di un’idea di vita ontologicamente privilegiata e speciale. L’urbanismo post-gotico è allora uno shock magico-sinaptico, erotismo macchinico del farsi cosa, verso quell’oltre cantato da David Tibet:

Once you go beyond
the line between
human and inhuman
disappears