Julien Rogue, Into the Storm

Lo stato dell’insurrezione

A che punto è la rivolta dei gilet gialli? In attesa di nuove mobilitazioni, un primo bilancio tra ultimatum a Macron, riappropriazione delle città, amicizia e repressione

«L’evidenza non è in primo luogo una questione di logica, di raziocinio.
È legata al sensibile, ai mondi.
Ogni mondo ha le sue evidenze.
L’evidenza è ciò che si condivide
o che divide.

Dopodiché torna a essere possibile la comunicazione, che non è presupposta, ma è da costruire.
E questa rete di evidenze che ci forma ci hanno insegnato così bene a metterla in dubbio, a fuggirla, a nasconderla, a tenerla per noi che quando vogliamo gridare ci mancano tutte le parole.»

Comitato Invisibile, L’appello

«È qui che risiede l’evento: non nel fenomeno mediatico che è stato forgiato per vampirizzare la rivolta attraverso la sua celebrazione esteriore, ma negli incontri che si sono effettivamente prodotti. Certo, è qualcosa di meno spettacolare del «movimento» o della «rivoluzione», ma molto più decisivo. Nessuno sa cosa può un incontro.»

Comitato Invisibile, Ai nostri amici

Sabato 16 marzo a Parigi, nel mezzo degli scontri pomeridiani, su Avenue George V c’è una pausa, come un time out. Un giornalista si avvicina ad un oggetto in un angolo accanto ad un chiosco coi vetri tutti esplosi, e scatta alcune foto. È una bottiglia di champagne targata Fouquet’s; evidentemente viene dal bar di lusso che brucia a 80 metri da qui, ed è stata usata come proiettile ma per qualche motivo non si è frantumata. È vuota: prima di lanciarla, una o più persone si sono premurate di gustarne il contenuto.

L’atto XVIII dei gilet gialli arriva dopo una grande chiamata nazionale a convergere sulla capitale. Un Ultimatum dal basso. Lo stesso giorno a Parigi sono previste la Marcia per il Clima ed un grande corteo antirazzista contro le violenze della polizia. Si poteva temere per l’effetto «grande esplosione finale», c’è stato invece l’ennesimo salto di qualità. Il giorno precedente era ufficialmente terminato il Grand Débat National: l’insieme di consultazioni municipali e online che doveva mettere a confronto il governo e la popolazione francese. Dopo essere stato sostanzialmente disertato per tre mesi, il Grande Dibattito è affondato del tutto sui Campi Elisi, quando le vetrine di quasi ogni boutique sono sistematicamente saltate per concedere alla piazza di arraffare quanto c’era di arraffabile.

La risposta macroniana è l’ennesimo indurimento della repressione, un pugno di ferro grottesco e spaventoso. Si sbaglierebbe a credere che questa non sia una soluzione «politica», lo è nel senso più pieno della parola: lo spazio pubblico è integralmente militarizzato, l’uso esplicito della forza la nuova normalità. Il punto però è che questa soluzione politica non sta funzionando, perché non produce più una popolazione spaventata, ma semplicemente persone ancora più determinate, e allora a vacillare è tutto il tentativo neo-autoritario che ha investito l’occidente. Se questo movimento ha chiamato Macron «monarca», lui ha deciso di assumere fino in fondo questo ruolo, fino ad esplicitarlo nei modi più ridicoli, quando è stato fotografato sulle piste da sci mentre a Parigi c’era un’insurrezione. Ma quanto manca prima che gli venga (simbolicamente) tagliata la testa?

Guardando indietro a questi quattro mesi di movimento, ci sarebbe bisogno anche solo di godersi la bellezza dei nuovi possibili, in un’epoca dove il racconto della «sinistra» ci condanna spesso al pessimismo e ad una tranquilla rassegnazione. Proverò però a dire qualcosa in più, organizzando il racconto dei gilet su tre piani che si intrecciano in maniera complessa e soprattutto non sembrano conclusi ma in piena evoluzione.

In primis chiamo piano locale quell’insieme di discorsi quotidiani e gesti di prossimità che sono diventati la fibra di un nuovo senso comune vestito di giallo. Il movimento comincia in novembre con l’occupazione delle rotonde e questo elemento modulare diffusissimo della rete stradale cambia di senso, da valvola di scorrimento diventa luogo di rallentamento o blocco. Quando si è sulla rotonda si comincia a discutere e poi si rimane per fare assemblea, spuntano le cabane, diventano luoghi di ritrovo. L’arma forse più potente dei gilet è stata la capacità di bloccare i flussi, un vantaggio tattico emerso senza preparazione proprio grazie a questa risignificazione dello spazio. Contrariamente all’attacco ai colli di bottiglia (la forma di blocco tipica del fordismo), questo blocco quasi spontaneo è avvenuto perché un’architettura è stata utilizzata diffusamente contro i suoi scopi: un sistema concepito per spostare merci, per attraversare luoghi senza viverli, è diventato qualcos’altro, come se una sostanza chimica avesse cambiato le proprietà di un composto, reso possibili nuove reazioni, e contemporaneamente impossibile il vecchio scorrimento del traffico.

Tra gli atti III e IV del movimento (all’inizio di dicembre 2018) si è giocata soprattutto questa perdita di controllo urbanistica, nel centro delle metropoli come negli svincoli periurbani. L’apparato poliziesco ce l’ha fatta, ha infine ristabilito l’ordine anche concedendo alcune misure simboliche (il ritiro della ecotassa sui carburanti, un’accelerazione nel piccolo aumento dei salari). Le reti relazionali però hanno retto: il 26 e 27 gennaio un primo grosso incontro a Commercy ha riunito almeno 75 gruppi territoriali nella prima Assemblea delle Assemblee. La seconda a St. Nazaire, sulle rive dell’Atlantico, si è appena concluso e ha visto la partecipazione di 300 delegazioni.

Mi interessa qui dare una schematica descrizione di due esperienze, quelle di Commercy e St. Nazaire appunto, che possono fare da bussola per ciò che accade nei territori dell’esagono. Si tratta di città piccole – St. Nazaire ha 69.000 abitanti e Commercy 7000 – entrambe con un passato industriale importante. A popolare le assemblee ci sono operai (particolarmente portuali nel caso di St. Nazaire) e impiegati, alcuni pensionati e lavoratori della funzione pubblica, una classe medio-bassa impoverita. In entrambi i casi c’è in atto un incontro, perché persone nuove alla politica attiva, che magari hanno oscillato tra il voto di sinistra e la tentazione fascistoide di Marine Le Pen, fanno riunioni con militanti di vecchia data della sinistra sindacale o partitica, e anche con persone più giovani provenienti dalle lotte ambientali di stampo libertario: Bure, piccola cittadina minacciata da un deposito di scorie nucleari, è a 40 chilometri da Commercy, la ZAD di Notre Dame des Landes (Zone à Défendre occupata dal 2008 contro il noto aeroporto, ha vinto la sua battaglia un anno fa) a 50 chilometri da St. Nazaire.

Tra un racconto personale e un’assemblea, è nata un’educazione alla discussione senza protagonismi militanti, ed è forse cominciata la decostruzione del rancore sociale, del razzismo strisciante. Le parole d’ordine, oltre le dimissioni di Macron, sono diventate la condivisione e redistribuzione delle ricchezze, e una domanda di accesso alla decisione che passa in particolare per il RIC (il Referendum d’Iniziativa Popolare già presente ad esempio in Svizzera). Se quest’ultima misura non suona sicuramente come una proposta radicale, l’impressione è che abbia avuto successo perché parla della necessità di dare potere alle nuove reti, e di generalizzarle: chi viene dalle esperienze anarchiche e ha frequentato Commercy, fa esplicito riferimento al federalismo democratico di Bookchin, mentre la «casa del popolo» recentemente occupata a St. Nazaire è descritta da uno dei partecipanti come «un luogo che serve per organizzare delle azioni, ma anche per creare un legame sociale tra categorie diverse della popolazione».

Il secondo piano, intermedio tra quello locale e quello globale dello spettacolo mediatizzato, si rende visibile in particolare sui social network. Non si tratta solo di ciò che succede su Facebook, Twitter, YouTube, ma di un senso comune che circola e si somma senza passare dai circuiti classici di formazione dell’opinione. I grandi giornali e telegiornali si imbattono in questo senso comune solo indirettamente, e ne restano il più delle volte stupiti. Come quando sembrano cercare una dichiarazione anti-casseurs tra i passanti, ma trovano piuttosto un moltiplicarsi di «prima del movimento ero contro la violenza, ora non più», «di fronte alle violenze della polizia, qualche vetrina distrutta non è un problema», «Macron non vuole capire! Dove bisogna arrivare perché ci ascolti?».

Contrariamente ad altri movimenti leaderless degli anni recenti, internet non diventa un luogo dove rappresentare delle nuove alleanze, cioè dove verticalizzare le istanze. Complice una modifica dell’algoritmo, oggi Facebook (il social network nettamente privilegiato) è una sorta di continuazione virtuale delle discussioni che nascono nelle assemblee, sulle rotonde e nelle strade: i gruppi sono diventati la dinamica privilegiata, mettendo in secondo piano le pagine, che erano meccanismi più federativi ed identificativi. È come se l’esplosione della necessità di parlarsi, che si manifesta pienamente nei momenti di vicinanza, avesse travolto la vuotezza relazionale su cui è costruita la cittadinanza moderna. Una vague che avvolge gli strumenti che le si presentano, primo tra tutti proprio il sito blu con la F.

In questo ecosistema del tutto instabile è possibile osservare un’evoluzione costante dei linguaggi: il fascismo e l’antifascismo che da dicotomia «utile solo a dividerci» col passare del tempo sono diventati termini accettati da tutti e su cui schierarsi in favore del secondo; la fascinazione per Marine Le Pen di una parte del movimento, che sembra scomparire; il dibattito ancora aperto sull’ambientalismo, in cui il green washing di Macron viene smascherato senza per questo derubricare la questione ecologica, ma anzi cercando di esprimerla nei termini di un rapporto con i propri territori.

Forse il fatto che più di tutti rompe con la narrazione classica avviene quando Adam e Fatih, due ragazzi della banlieue di Grénoble, muoiono in un incidente in motorino mentre la polizia li insegue. La solidarietà è spontanea, tutti hanno la consapevolezza che «si tratta di un omicidio» e «ciò che vivono i gilet gialli, le banlieue lo vivono da decenni». La figura forse più conosciuta tra i gilet, Eric Drouet, rilascia due giorni dopo un messaggio video: «Non importa cosa avevano fatto, se quel motorino era rubato o non avevano il casco, non è possibile morire per così poco […] c’è stata una caccia all’uomo inaccettabile da parte della polizia […] volevo esprimere la mia vicinanza alle famiglie dei due ragazzi, anche a nome dei gilet gialli, perché adesso quelle violenze le conosciamo anche noi e dobbiamo stare accanto gli uni agli altri».

Parole scontate per chi da anni si spende contro le violenze razziste delle divise blu, ma che mettono la pelle d’oca se a dirle è qualcuno che con una diretta Facebook raggiunge centinaia di migliaia di persone. Parole che non restano solo in un video: oggi si può realmente parlare di un’alleanza tra gilet gialli e periferie, non per un semplice dato di partecipazione ai cortei (feticisticamente inseguito dai media), ma perché questa crea complicità inedite.

Internet per i gilet gialli non è un terreno di organizzazione o di rappresentazione: viene scelto invece per la sua funzione espressiva. Gli stessi personaggi più carismatici e conosciuti, il già citato Drouet, Priscilla Ludosky, Maxime Nicolle e Jerome Rodrigues – quest’ultimo ha perso un occhio in diretta durante l’atto XI a causa di un proiettile di gomma della polizia –, hanno raggiunto e mantenuto la loro fama proprio utilizzando la piattaforma per diffondere opinioni, ma tenendosi ben lontani dalle tentazioni rappresentative. Ogni qual volta un pezzo di movimento si è avvicinato all’idea elettorale, o più banalmente ha tenuto una postura strumentale, è stato in breve ostracizzato e marginalizzato dal movimento stesso.

L’ultimo piano è quello dei cortei, delle metropoli riappropriate e della loro trasposizione mediatica. Se il governo tenta di costruire una ritualità pacificata, la routine degli atti settimanali continua a produrre incontri incendiari. Il rischio più temuto era quello che tutto si sgonfiasse in un dibattito diretto dall’alto; la sovrapposizione con gli altri due livelli ha invece tenuto aperta la situazione: il sabato non si va più a fare shopping, ma si va in gita nella città più vicina, o magari allo stesso centro commerciale – però stavolta per bloccarlo. Quando si va a Parigi non ci si limita a sfilare, ma si parla, ci si informa, anche con chi fino a ieri era il simulacro del «cattivo manifestante», come quei Black Bloc diventati alleati da applaudire.

Durante l’atto XVIII, la boutique Hugo Boss è tra le prime a veder sfondate le sue protezioni. I vetri frantumati ingurgitano persone entusiaste, alcune hanno il volto coperto mentre altre si sono prese dei rischi in più, magari senza pensarci troppo. Bastano una manciata di istanti per mettersi sottobraccio quante più camicie e maglie possibile, poi fuori. Via le etichette, via gli antifurto. Qualcuno scrive in giallo sulla facciata: «preleviamo la patrimoniale all’origine».

Per capire il fallimento della strategia di Macron conviene tornare sulla dinamica di piazza del 16 marzo. La scelta poliziesca è stata di organizzare un’enorme zona rossa attorno al palazzo dell’Eliseo, cioè nella parte settentrionale degli Champs Elysées, ma all’estremo opposto dell’Arco di Trionfo. In questo senso la speranza era di fiaccare i tentativi di raggiungere il palazzo presidenziale, tenere i gilet gialli lontani dalle altre manifestazioni (situate più a est), ed infine disperderli verso sud.

Sul lungo viale invece la gente ha messo temporaneamente da parte la distrazione dei «palazzi del potere»: ci si è concentrati sulla distruzione sistematica di questa avenue così simbolica, e il saccheggio è stata un’intuizione condivisa. Il risvolto politico di questo passaggio è importantissimo, perché quella che emerge è una coscienza collettiva, con obiettivi propri, che riesce almeno in parte a svincolarsi dalla simbologia repubblicana e dal dualismo con le istituzioni.

Le scene della giornata sono difficili da cancellare: i gioielli sradicati dalle vetrine di Swarovski piovono sulla folla, alcuni palloni viola-fucsia rotolano davanti alla boutique del Paris Saint-Germain, una ragazzina fuori dal negozio Nike con il volto radioso e le mani stracolme di capi d’abbigliamento, li lancia su amici ed amiche, un manipolo di Black Bloc riesce a divellere la protezione di Bulgari. Durante l’ennesima carica respinta, tra i colpi di tosse parte il coro «Révolution! Révolution!». Poco dopo, Fouquet’s brucia con tutta la sua simbologia di lusso e gerarchia, si ride e ci si abbraccia. Su Le Monde è riportato il commento di un passante: «almeno per una volta ci sono entrato». Alcune signore si portano via diverse bottiglie da centinaia di euro.

A fine giornata c’è come un buco tra le sensazioni che ho provato e il bisogno di «fare programma» e «organizzarsi sulla durata». Le locuzioni militanti mi sembrano sempre più vuote, il movimento si organizza e si protrae proprio perché non ha questi ostacoli verbosi a fare da intralcio. Il successivo atto XIX come già detto è stato accompagnato dal pugno di ferro di Macron e Castaner (il ministro dell’interno): sollevato dall’incarico il prefetto di Parigi (facile capro espiatorio), è stato sospeso di fatto il diritto di manifestare nel centro di Bordeaux, Parigi e Tolosa. «Chiunque partecipa ad una manifestazione non autorizzata dei gilet gialli è da considerarsi un facinoroso». Per la prima volta dagli scioperi del 1947-48 l’esercito è stato ufficialmente inviato a presidiare un’operazione di ordine pubblico nella Francia metropolitana (ufficiosamente questo era già avvenuto per alcune operazioni intimidatorie nelle periferie).

Il risultato? Quattro atti in cui la partecipazione non si riduce, e un secondo Ultimatum lanciato per il 20 aprile. Il livello dello scontro è sceso, ma è stato un ripiegamento tattico, perché controllare i cortei resta impossibile. I concentramenti si spostano in maniera imprevedibile: se gli Champs Elysées sono off limits, tutti si riversano sulla collina del Sacro Cuore, senza che la polizia capisca come è stato lanciato questo appuntamento pacifico. Oppure si va a spaventare i manager nel quartiere finanziario della Défense: pensavate di potervi nascondere qua?

 

Secondo alcune indiscrezioni giornalistiche, Macron è sull’orlo del burn out. Di sicuro lo sono i poliziotti: gli atti di indisciplina si moltiplicano, mentre la violenza, che non produce gli effetti sperati, diventa sempre più mostruosa: il 6 aprile viene sommersa di lacrimogeni un fiera delle giostre a Tolosa, e gli intossicati sono quasi tutti bambini e bambine. Prima del 20 aprile, Macron prenderà la parola per fare un annuncio; sono attese nuove misure per il «potere d’acquisto», ma ormai il presidente appare sistematicamente in ritardo: chi va in strada ha fatto una questione di principio di non rientrare nei ranghi prestabiliti, di non rassegnarsi al «vota e taci», di stare proprio fisicamente negli spazi di visibilità.

Più che fino a dove possa arrivare, guardiamo cosa il movimento ha già fatto: è nato uno spazio vitale e politico che fino a pochi mesi non pensavamo potesse esistere. Il personale è politico per i gilet gialli, perché il nuovo senso comune non è dietro alle vetrine frantumate, ma negli incontri fatti per spaccarle. Il punto è quanto siano cambiati i pranzi di famiglia, le serate tra amici, o gli incontri casuali. Quanto è più facile parlare delle proprie ansie, delle proprie sofferenze, della voglia di cambiare le cose. Quanto è più difficile per un poliziotto parlare del proprio mestiere senza vergognarsi.

C’è una texture di amicizie già strette o ancora da stringere, qualcosa che richiede di abbandonare le vecchie abitudini del «fare politica», e invita ad interrogare i tre livelli di cui ho provato a parlare. Se pensiamo alla sfida ecologica, quest’insieme di relazioni sembra anche la miglior scommessa per un movimento che si riprenda il mondo, contro l’ipocrisia dell’ecologismo liberal.

La sera del 16, mentre bevo una birra con degli amici, un gruppetto di persone della Val d’Oise entra nello stesso bar. Tutti portano il gilet giallo ed in breve ci si trova a parlare: due donne, maestre di mestiere, ci spiegano che sono sempre scese a Parigi nei sabati di manifestazione, ma questa volta non se la sentivano di percorrere gli Champs, sono venute coi figli e lunedì devono essere al lavoro. Quindi sono andate alla Marcia per il Clima, dove il rischio di respirare lacrimogeni era minore. «Non mollate! Non molliamo!». Si canta e ci offrono del vino.

Dall’appello della seconda «Assemblea delle Assemblee» svolatsi a St. Nazaire il 5-6-7 aprile 2019:

«Invitiamo tutte le persone che vogliono mettere fine all’accaparramento del vivente ad assumere una conflittualità con il sistema attuale, per creare insieme, con tutti i mezzi necessari, un nuovo movimento sociale, ecologico, popolare. La moltiplicazione delle lotte ci invita a cercare unità d’azione.

Chiamiamo tutti i livelli territoriali a combattere collettivamente per ottenere il raggiungimento delle nostre rivendicazioni sociali, fiscali, ecologiche e democratiche. Coscienti che dobbiamo combattere un sistema globale, crediamo necessaria l’uscita dal capitalismo. Così costruiremo collettivamente il famoso «tutte e tutti insieme» che abbiamo intonato e che rende tutto possibile. Costruiamo tutte e tutti insieme a tutti i livelli territoriali.

Il potere del popolo, attraverso il popolo, per il popolo. Non guardateci, unitevi a noi.»