Dentro l’incendio di Parigi

Una testimonianza dalla Francia squassata dai gilet jaunes

Così un viaggiatore scozzese, dopo che nel maggio 1871 gli insorti appiccarono il fuoco all’Hôtel de Ville di Parigi, descrisse il singolare splendore del potere in fiamme: «mai avevo immaginato tanta bellezza. È superbo. I comunardi sono una massa di canaglie, ne convengo. Ma che artisti! E senza nemmeno avere coscienza della loro opera! […] Ho visto le rovine di Amalfi bagnate dai flutti azzurri del Mediterraneo, le rovine dei templi di Tung-hoor nel Punjab, ho visto Roma e molto altro ancora: ma nulla è paragonabile a quello che stasera mi si è parato dinanzi agli occhi».

Organizzarsi al di là del lavoro e contro di esso, disertare collettivamente il regime della mobilitazione, manifestare l’esistenza di una vitalità e di una disciplina anche all’interno della smobilitazione, è un crimine che una civiltà senza scampo non può e non vuole perdonarci. Eppure, è il solo modo per sopravviverle.

Comitato Invisibile, L’insurrezione che viene

Sono le 14 del primo dicembre quando passo, assieme a un altro migliaio di gilets jaunes, davanti alle Galeries Lafayette. Sono arrivato da circa un’ora e ancora nessun vero momento di tensione nel mio spezzone, solo qualche oggetto tirato in strada e tag sui muri. Nonostante questo i negozi dello shopping natalizio decidono di barricarsi, la security chiude le entrate ed un certo numero di clienti ci guarda interdetto transitare, intrappolato in una gabbia piena di addobbi natalizi e offerte irresistibili. Il capitalismo a volte fornisce simbologie così efficaci che spiegarle è una perdita di tempo.

Voltandomi vedo il fumo che sale dagli Champs Elysées, non mi è ancora del tutto chiaro ma in quel momento il quadrante di Parigi che va dall’Arco di Trionfo a Place de la Concorde, al Louvre, alla Gare st. Lazare, è punteggiato di scontri. Una manciata di chilometri quadrati in cui è impossibile per la polizia reistituire una parvenza di ordine, imporre alle cose il loro normale utilizzo urbano: le strade per transitare, le banche per prelevare denaro, le pensiline per attendere i bus e solo raramente scambiare qualche parola, i monumenti per ammirare la storia pietrificata dello Stato. Quando arrivo in Place St. Augustin, un punto di fissazione della rivolta si è appena formato. Qualche barricata improvvisata è diventata via via più grande, la polizia ha provato a impedire il coagulo con una carica a cavallo che è stata respinta a colpi di pavé. Nel giro di venti minuti la piazza è una roccaforte con centinaia di persone al suo interno, i lanci di lacrimogeni per disperderla sono sistematicamente ritirati indietro, e la determinazione condivisa permetterà di «tenere» il punto per più di un’ora.

Non è facile spiegare quello che è accaduto a Parigi e in tutta la Francia, perché un’insurrezione si piazza esattamente ai limiti del linguaggio, dove nuove verità, finora trattenute da vecchi ordini simbolici, debordano nel reale senza mediazioni. Escono da tutte le parti, in barba agli affanni del potere e allo sguardo militante che vorrebbe una parvenza di consequenzialità. Un’insurrezione si descrive meglio attraverso ciò che fa, momento per momento, piuttosto che attraverso una teoria, perché un’insurrezione è esattamente alla fine di una certa descrizione del mondo. Il «non ci sono alternative» è scomparso di schianto, tante alternative sono diventate disponibili, bastava la volontà di pensarle e allora la fantasia è andata al potere.

I blocchi autostradali e i cortei ci sono stati in ogni centro dell’esagono; a Narbonne un pedaggio autostradale è stato attaccato e parzialmente incendiato; a Le Puy-en-Valay, comune di 20mila abitanti, a bruciare è stata la questura; a Nantes la pista dell’aeroporto è stata bloccata per tutta la mattina; scontri tra migliaia di persone e forze dell’ordine si sono avuti a Tolosa, Bordeaux, Pouzin (nove ore di azioni per una città di 3mila abitanti); a Marsiglia le barricate sono spuntate sulla Canebière, non succedeva dal 1947. La colonia della Réunion è insorta da dieci giorni e ha già convinto l’imperatore-presidente a inviare le sue truppe oltremare. Infine è difficile capire davvero tutto quello che è successo nella capitale, dove fonti non ufficiali parlano di polizia che finisce le munizioni in moltissimi focolai, dove in centinaia hanno conquistato l’Arco di Trionfo vandalizzandolo dall’interno, dissacrando un simbolo fondante della Quinta Repubblica. Sabato la partita di campionato del Paris Saint-Germain è stata rinviata, il governo ha deciso che non poteva sprecare nemmeno un’unità di polizia su altri eventi.

Tutto questo e probabilmente altro è scomparso nel flusso informativo, ma perché? L’aumento delle tasse sul carburante? La caduta del potere d’acquisto? Le foto di una statua sfigurata dentro all’Arco di Trionfo fanno il giro dei telegiornali, mentre le guardo mi chiedo se chi lo ha fatto dà alla cosa lo stesso significato che gli do io: una rivincita su quel tempio militare, su quel luogo dove De Gaulle ha sancito la sconfitta del Maggio.

L’errore forse è continuare a pensare questo movimento come un contenitore, come un terreno comune attorno a cui ricomporre delle differenze. Invece i gilets sono un flusso, una precipitazione che continua a riprodursi.

Quando ritrovo un po’ di calma, mi accorgo che accanto all’esaltazione è spuntata un’altra sensazione, una specie di inquietudine per tutto ciò che potrebbe accadere adesso. Quando delle certezze vengono meno, anche se sono le certezze del potere, cade pure il sentimento rassicurante di conoscere cosa si ha attorno. È un esercizio strano quello di chiedersi «e ora?», e scoprire che nonostante tutto c’è una parte di sé che crede a quel ritornello per cui oltre lo Stato c’è il caos, per cui la torsione individualista e fascistoide è inevitabile. Mark Fisher direbbe che «è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo». Nelle chiacchiere, il tema ritorna. Chi erano quelli attorno a noi, con chi abbiamo fatto gli scontri? Chi siamo diventati dopo oggi?

L’errore forse è continuare a pensare questo movimento come un contenitore, come un terreno comune attorno a cui ricomporre delle differenze. Invece i gilets sono un flusso, una precipitazione che continua a riprodursi. Dopo i sabati, anche i lunedì sono diventati duri per il governo, con le occupazioni dei licei che hanno utilizzato le stesse forme di lotta. I fronti si moltiplicano, le differenze si sommano, non c’è una sintesi ma un discorso che si dipana, una grammatica che prova a nascere ed un sapere che si accumula (o forse pensate che gli occhialetti da piscina, apparsi in gran quantità il secondo sabato di lotta, siano dovuti ai «casseurs organizzati infiltrati in mezzo ai pacifici gilets»?).

Quasi 400 arrestati il primo dicembre, la maggior parte processati per direttissima già il giorno seguente. Il racconto delle comparizioni regala uno spaccato inaspettato, tra quelle persone alla sbarra si fatica a trovare un filo comune, molti vengono da fuori Parigi, sono saliti per un weekend. Vite accomunate da una certa ordinarietà, forse di provincia, forse di classe media proletarizzata, la sociologia ci viene in aiuto ma non sembra sciogliere il nodo. C’è Stéphane, macellaio incensurato quarantacinquenne venuto dalle Hautes Alpes, ha un occhio nero perché ha caricato da solo un cordone di CRS (i celerini francesi). Nel suo zaino, un coltello: «è per tagliare salame e formaggio. È la mia prima manifestazione, nessuno mi ha detto che era vietato». Matthieu è stato trovato con alcuni petardi, 27 anni, lavora alla metro di Lione, ha un contratto a tempo indeterminato da 1500 euro, ne paga 540 di affitto e presto vorrebbe andare a convivere, «Sono stato stupido. Non so se avrei avuto il fegato di servirmene». Tristan, 30 anni, è allevatore e agricoltore. Venuto a Parigi in car-sharing con altri gilets jaunes, è stato l’ultimo a salire sulla terrazza dell’Arco di Trionfo quando la polizia ne stava ormai riprendendo possesso. Da solo ha contemplato il tramonto. Alla richiesta di spiegazioni dice che i gas lo avevano soffocato, «avevo bisogno di respirare». Una penna paternalista quanto la lingua del giudice si sofferma sulle tracce di marijuana e cocaina trovate nel suo sangue.

A saltare è stata la «normalità» di queste persone, le loro vite sempre più organizzate e forse non sufficientemente vissute. L’abito che hanno scelto, il gilet giallo, è una delle tante piccole norme che regolano la quotidianità: ogni guidatore francese è obbligato ad avere uno di quei gilet nella propria macchina, da indossare in caso di incidente. Una micro-normatività assunta a simbolo della logica poliziesca presente ovunque, nel portale web che per accedere al sussidio ti impone di rivedere il CV, nella continua ingiunzione a fare di più e meglio, nella scelta calata dall’alto che la catastrofe ambientale si pagherà con la benzina di tutti, ricchi e meno ricchi. Forse non è così arbitrario che proprio sull’ecologia si sia consumata la contraddizione, quella parola che pretende di tenere insieme il mondo con gli stessi strumenti che l’hanno portato vicino al baratro: dividendo e controllando ogni suo aspetto, trasformando il pianeta in una fabbrica globale efficiente, sempre più efficiente perché adesso anche un po’ «verde»; la crisi climatica non è che un’altra insurrezione, un altro apparato di segni che crolla.

Non hanno esitato i collettivi di banlieue contro le violenze poliziesche ed i collettivi queer, che hanno deciso di raggiungere i gilets jaunes, di manifestare con loro senza dover fare alcun compromesso con le persone di destra lì presenti, ma semmai sfidandole.

Quindi non sappiamo davvero chi sono i protagonisti di questo movimento, ma forse cominciamo a comprendere che il movimento stesso funziona come un processo aperto, che di sabato in sabato si riproduce, rifiutando di tornare ad un sistema simbolico già dato. Per questo ha poco senso chiedersi quale ricomposizione dare a questo scenario, o ragionare in termini di mediazione, perché quella a cui assistiamo è una battaglia in cui non possiamo temere di immergerci, anche se i suoi esiti non sono scontati.

Non hanno esitato, in effetti, i collettivi di banlieue contro le violenze poliziesche ed i collettivi queer, che hanno deciso di raggiungere i gilets jaunes, di manifestare con loro senza dover fare alcun compromesso con le persone di destra lì presenti, ma semmai sfidandole. Non si tratta di una decisione tattica, ma della consapevolezza che lottare contro razzismo, sessismo, eteronormatività, significa prima di tutto lottare sui significati, e quindi quella piazza è un terreno potente ed irrinunciabile.

«Avere la propria specificità non significa non poter lottare insieme. Al contrario: verremo sabato col nostro gilet giallo, la nostra t-shirt gialla, con scritto Justice Pour Adama. E diremo “viviamo l’esperienza del razzismo, delle violenze poliziesche”. Venite andiamo insieme, rovesciamo Macron. Macron, dimissioni! è uno slogan che condivido»; a parlare è Youcef Brakni, portavoce del Collettivo Adama (dal nome di Adama Traoré, ragazzo di origine maliane ucciso nel 2016 nel commissariato di Beaumont sur Oise).

A fine giornata, tra i tag sui muri ci sono anche «Justice Pour Adama» e «Macron on t’encule pas, la sodomie c’est entre ami-e-s» (Macron non ti inculiamo, la sodomia si fa tra amic*), di che spaventare i pochi fascisti rimasti in un movimento per loro sempre più ostile, materialmente e simbolicamente. 

Il movimento dei gilets jaunes scende in piazza la prima volta sabato 17 novembre contro l’aumento della tassazione sui carburanti. Nel giro di tre settimane il tema del potere d’acquisto e del «governo dei ricchi» di Emmanuel Macron invade il dibattito politico. Il presidente si mostra inamovibile, ma vacilla. Il piccolo movimento nato sui social network, diventato una petizione da milioni di firme, adesso è una valanga, un ras-le-bol, come dicono i francesi, un grido di esasperazione che punta sempre più in alto. «Macron, démission» diventa lo slogan più intonato, e di settimana in settimana l’unico metro di paragone rimane il Sessantotto, nei suoi aspetti anche meno romanzati: la paralisi del paese, la polizia costretta a retrocedere sistematicamente, lo spettro di uno sciopero generale autoconvocato.

Il seguito è già qui. Macron ha ritirato la nuova tassa, ha abbandonato i toni altisonanti e adesso vuole trattare, ma sabato prossimo si annuncia una giornata ancora più radicale delle precedenti. Si vocifera che a Parigi arriveranno i blindati per cercare di contenere la situazione, e la polizia comincia a parlare di utilizzare proiettili reali, dopo che proiettili di gomma e granate esplosive hanno causato vari feriti gravi, almeno una mano amputata ed ucciso una donna a Marsiglia.

A essere crollata è fondamentalmente l’ipotesi di governo cominciata già con Hollande, l’idea che il crinale tra la Francia e i «nemici della Francia» (interni o esterni) potesse veicolare una nuova fase di riforme ed un tentativo di recuperare terreno egemonico sulla Germania. Dalla grande manifestazione «Je Suis Charlie» del 2015, subito dopo gli attentati, la scelta era stata di inglobare i contenuti dell’estrema destra dentro una retorica repubblicana, e radicalizzare l’azione di polizia. Dopo quasi 4 anni quest’ipotesi non funziona più, perché il terreno simbolico e materiale su cui doveva appoggiarsi sta scomparendo, un’idea di politica diretta e radicale invade il centro della scena, la rottura tra alto e basso della società torna ad essere imprescindibile in ogni analisi. Il meccanismo stesso della rappresentazione sta girando a vuoto da quando la protesta è cominciata, basti pensare ai tentativi di dialogo coi (presunti) «leader» dei gilets jaunes: tutti miseramente falliti, tutti rifiutati in maniera quasi irridente. Si dirà che questa propensione a «svelare» la verità del potere, a insorgere, è tipica della storia francese. Certo, ma senza autoassolverci guardiamo agli effetti su larga scala di questo movimento, alle strategie che suggerisce. Le rotture di paradigma non sono un sogno ingenuo, ma una possibilità sempre latente.

Intanto già li sentiamo, quelli che i gilets jaunes sono un significante vuoto pronto per l’appropriazione politica. E forse, ammettiamolo, in un’analisi del genere c’è un fondo di verità. Ma quanto è triste provare fin d’ora a capire come il vecchio troverà un modo di adattarsi al nuovo, gettandoci sopra i suoi tentacoli bavosi. Quanto è cieco lo sguardo di chi cerca negli effetti le cause, chiedendosi quale etichetta appiccicare qui e là, senza accorgersi che dopo queste giornate impareremo parole nuove, gesti nuovi, affetti nuovi, e forse torneremo ad utilizzare anche alcune delle vecchie parole, ma sarà certo quest’ultimo un fatto molto meno importante per le nostre vite.