Se il futuro è ingiusto, non aspettare il futuro

Lo xenofemminismo è una minaccia – evviva la minaccia! Un invito ad agire qui e ora contro la norma eteropatriarcale, e una riflessione su queer antisociale ed eredità cyberfemminista

I cyborg sono figli illegittimi del capitalismo patriarcale, per non parlare del socialismo di stato. Ma i figli illegittimi sono spesso estremamente infedeli alle loro origini.

Donna Haraway

Dal personale al politico, le domande sul futuro si fanno sempre più pressanti. Per personale intendo mia zia che mi chiede quando farò un figlio e mio padre che mi chiede cosa farò quando mi scade lattuale contratto di lavoro di sei mesi; per politico intendo ogni slogan elettorale che contiene questa parola, ogni occhiello di un giornale che riflette sul destino di un partito, a livello un po’ più ampio l’idea di futuro come condizione fondamentale per pensare la politica.

I due livelli, ça va sans dire, sono legati (vedi tutto il femminismo).

Nemmeno le ultime e più audaci riflessioni politiche si sono potute sottrarre a questo, mi riferisco nello specifico all’accelerazionismo e allo xenofemminismo, entrambe riflessioni che ci spingono a immaginare e pretendere un futuro diverso. In particolare vorrei partire dallo xenofemminismo e dalla sua genealogia per provare ad accorciare un po’ l’attesa del futuro di cui parla.

Per xenofemminismo qui intendo quella teoria (più che movimento) delineata a partire dal Manifesto Xenofemminista pubblicato qualche anno fa dal collettivo Laboria Cuboniks (e tradotto in Italia dal collettivo Les Bitches) e dai testi pubblicati da Helen Hester, che di quel collettivo faceva parte. È quindi in qualche modo una visione parziale che si focalizza su un aspetto soltanto.

La scelta è dettata dal fatto che Hester nel libro Xenofemminismo riprende e amplia le tematiche esposte nel Manifesto proprio in direzione di un ragionamento sul futuro e sulla riproduzione, che evidentemente vanno di pari passo.

La prima coordinata di riferimento per capire meglio questo nesso è quella delle teorie queer antisociali, che rappresentano un’altra strada rispetto a quelle che Lorenzo Bernini identifica come teorie queer del «costruttivismo radicale»Entrambe sono teorie critiche che si situano proprio nel difficile rapporto tra politica e sessualità, non affatto uniformi ma che anzi a partire da come interpretano questo rapporto hanno anche un’idea diversa di azione o non azione politica.

In un certo senso le teorie queer più diffuse in Italia – quelle appunto del costruttivismo radicale, che ci sono arrivate attraverso le traduzioni di Butler e quindi si legano al pensiero di Foucault – immaginano azioni politiche pur senza immaginare un futuro. Essendo infatti qualsiasi soggetto sempre e comunque all’interno di una dinamica di potere, non potendosi mai pensare fuori da questa, essendone al tempo stesso assoggettato e soggetto, non può pensare a un futuro in cui il potere non ci sia. Allora non si tratta più di aspettare un futuro in cui i dispositivi di potere verranno annullati, bensì di pensare delle strategie e delle resistenze qui e ora, per sfuggirne almeno in parte. Ancora di più, non si tratta semplicemente di fuggire, ma di creare e immaginare altre modalità di starci come soggetti eccentrici: non soggetti ai margini, ma soggetti che ridefiniscono i confini in un processo potenzialmente infinito; un processo che tende al miglioramento e che quindi ha in sé una sorta di ottimismo e una fiducia nel progresso e nel futuro.

Il Bambino è la promessa del futuro, i soggetti (i corpi) che non fanno sesso per riprodursi ma per godere sono «un mucchio di frocie egoiste».

Le teorie queer antisociali invece sono meno diffuse in Italia. Tuttavia non sono, a mio parere, così antitetiche a quelle precedentemente citate e anzi si rivelano utili paradossalmente proprio per pensare una politica che non sia necessariamente legata all’attesa –  seppur attiva – del futuro. Queste teorie, infatti, non tendono tanto una resistenza perenne (piuttosto faticosa), ma descrivono invece la sessualità, in particolare quella queer, come una rottura del legame sociale e come soppressione del soggetto nel godimento.

Padre di queste teorie è Leo Bersani con l’articolo «Is Rectum a Grave?» del 1987 e più tardi con il testo Homos, in cui la sessualità è vista nei suoi aspetti più perturbanti, quelli più difficili da accettare a livello sociale. Accettazione di cui forse non c’è necessità.

Quello che Bersani critica a Butler, ma ancor prima a Foucault, è insomma il tentativo di pacificare la sessualità in una dimensione politica più accettabile, di renderla in qualche modo produttiva, tralasciandone quegli aspetti improduttivi e negativi inaccettabili nella società, rischiando così di pensare alla sessualità e non al sesso, alla società e non ai corpi. Parlare qui di produttività ci permette di inserire in qualche modo questo pensiero in un contesto liberale in cui i soggetti cercano un riconoscimento, che spesso si traduce in una richiesta di diritti. Per essere soggetti riconosciuti in questo contesto bisogna in qualche modo essere utili, ovvero riprodursi, tralasciando le pulsioni che non rientrano in questo quadro, non solo legato al liberismo ma al pensare la politica in sé dal contrattualismo in poi. Hester, invece, cita nel suo libro un altro pensatore fondamentale delle teorie queer antisociali: Lee Edelman, in cui la questione del futuro è più esplicita. 

Nel 2004 Edelman pubblica No Future: Queer Theory and the Death Drive. Il Bambino, figura fondamentale del testo, rappresenta tutto ciò attorno a cui si costruisce il futuro e, a cascata, la politica e il soggetto. Il Bambino è la promessa del futuro, i soggetti (i corpi) che non fanno sesso per riprodursi ma per godere sono «un mucchio di frocie egoiste».

Questo concetto ci può apparire comprensibile in modo molto concreto se pensiamo all’uso che le campagne «no gender» fanno della figura del bambino: coppie omosessuali che non generano figli, che sono pericolose per la loro educazione, che parlano di omosessualità nelle scuole e deviano le loro giovani menti, figli nati in altri corpi, con il ricorso a varie tecnologie tutto molto poco naturale. Ce lo spiega bene anche la «recensione» che il quotidiano La Verità ha scritto qualche giorno fa proprio riguardo l’uscita della traduzione italiana di Xenofemminismo, in cui uno dei principali problemi è che xenos vuol dire straniero e quindi la minaccia di questo nuovo femminismo sarebbe da una parte quella dell’essere contro natura per un uso improprio della tecnologia, e dall’altra di minacciare la naturale bianchezza della patria.

La famiglia tradizionale (riproduttiva) viene minacciata, e con essa una nazione (bianca) intera.

Frocie e abortiste minacciano la vita e il futuro.

Il soggetto che si delinea nelle teorie queer antisociali non aspetta il futuro, non vive nel ricatto di un futuro, né per aderire alla situazione presente e consentirne la continuità né per migliorarlo o trasformarlo. Scardina la progettualità neoliberista ma si contrappone anche a chi pretende un futuro e gli chiede di godersi il presente. Benché sia difficile pensare una dimensione collettiva di questo tipo di soggetto, non mi pare in sé un rifiuto di ogni azione politica (come in qualche modo gli imputa Hester), un no future punk, ma mi sembra piuttosto che costringa a pensare un’azione politica che non determini il soggetto a partire dalla sessualità, seppure il corpo sia sempre presente.

Ora, dati tutti questi elementi (natura, tecnologia, futuro, riproduzione) torniamo allo xenofemminismo. I pilastri su cui è costruito sono il tecnomaterialismo, l’antinaturalismo e l’abolizionismo del genere.

Per capire meglio cosa questo voglia dire dobbiamo da una parte ricorrere ancora una volta alla genealogia di questo pensiero, e dall’altra ricordarci che i soggetti di cui stiamo parlando sono corpi, e che i corpi, in particolare nella loro dimensione sessuata, sono in continua relazione con la tecnologia. Nelle modalità con cui avviene questa relazione si gioca una questione importante: in quali modi i corpi possono usare la tecnologia e non essere usati da questa?

Lo xenofemminismo è tecnomaterialista nel suo leggere e utilizzare la tecnologia in modo critico, nel suo credere che la tecnologia non è qualcosa di positivo in sé ma che va ripensata alle radici o che dobbiamo riappropriarcene. Il percorso intero viene messo in crisi dalla sua nascita, un percorso che comincia dallo stabilire qual è una scienza valida e chi può avere accesso a questa tecnologia, da quando una tecnologia viene progettata a quando viene utilizzata. Si mette in discussione tutto il paradigma epistemologico alla sua radice, ma anche il contesto in cui questo si sviluppa. L’eredità qui è tutta di Haraway e del femminismo, e lo mostrano bene gli esempi che Hester cita in Xenofemminismo, dal Del Em alle GynePunk, alla figura del cyborg che rimane sullo sfondo.

Il cyborg come corpo-macchina è una figura ibrida, un meccanismo che fa saltare ogni binario, natura/cultura, umano/animale, maschio/femmina. Proprio riflettendo sulle criticità che la figura del cyborg comporta e sui suoi risvolti nell’ambito del tecnocapitalismo, si creano infatti le premesse per riappropriarsi della tecnologia e del concetto stesso di cyborg, ridefinendolo da una parte come scardinamento del concetto di genere e dall’altra come una radicale critica al capitalismo.

Una critica che è già ben presente in Haraway ma che nello xenofemminismo viene messa ancora più in evidenza dal suo dialogare con l’accelerazionismo, nel suo pensare il soggetto come incarnato e quindi dipendente non solo dalla dimensione di genere in cui si trova ma anche dalle relazioni economiche in cui si sviluppa. Queste relazioni riguardano sia il lavoro produttivo che svolge ma ancor più quello riproduttivo. È chiaro allora che pretendere la piena automazione in questo contesto assume un significato diverso. Se l’accelerazionismo risponde parlando di riduzione/socializzazione del lavoro (salariato e non), del rafforzamento del welfare e dell’erogazione di un reddito di base su scala globale, lo xenofemminismo e più in generale parte delle recenti riflessioni su genere e tecnologia risponde in modo più radicale immaginando diverse modalità di condivisione del lavoro di cura e di riproduzione.

Lo xenofemminismo è antinaturalista perché non si può separare i corpi dalla tecnologia, la natura dalla cultura, e ancora una volta la tradizione in cui si colloca è quella di Haraway. La critica alla natura è qui una critica all’eteronormatività: se essere eterosessuali è considerato naturale è perché l’eterosessualità va di pari passo con la norma (intesa come legge e allo stesso tempo come normalità), una norma che si crea attraverso la sua stessa ripetizione. Tra una ripetizione e l’altra però si creano degli spazi in cui possiamo agire e destabilizzare la norma, e dimostrare così che questa non è naturale, che non si è eterosessuali per natura, ma che la natura è stata costruita a posteriori dalla ripetizione della norma e, in fin dei conti, dalla cultura. È antinaturalista se per natura intendiamo quel determinismo biologico che porta alla disparità di genere, quella natura che equipara il normale al naturale, da cui l’abolizionismo del genere.

Lo Xenofemminismo si colloca qui all’interno della teoria queer, con una linea che va dal cyberfemminismo e passa attraverso l’accelerazionismo. L’antinaturalismo ci permette di vedere la biologia non come un destino ma come qualcosa che si trasforma attraverso la tecnologia, per poter perseguire la giustizia riproduttiva e la trasformazione del genere in senso progressista. «La riproduzione biologica è avviluppata nella riproduzione sociale, nel senso che implicitamente rappresenta la trasmissione generazionale delle disuguaglianze», dice Hester. Che lo xenofemminismo si proclami abolizionista del genere allora non significa auspicare la non esistenza del genere o moltiplicare le categorie di genere all’infinito, ma decostruire un sistema in cui il genere sia determinante, ovvero riprodurlo al di là della norma.

E qui posso finalmente tornare a Edelman e al suo Bambino.

Se l’orizzonte politico del futuro e delle azioni a questo connesse sono schiacciate dalla figura del Bambino e dalla norma eterosessuale in cui questa ci colloca, allora mettere in discussione alla radice la riproduzione dei generi vuol dire qui immaginare altre forme di relazioni che permettano di pensare la politica al di là dei generi e al di qua del futuro. Ci viene incontro per l’ultima volta Haraway con il suo celebre «make kin not babies». Un invito che rende il personale politico. Un invito che non dipende tanto dal sovrappopolamento del pianeta che sarebbe già una buona ragione ma dal pensare la creazione di nuove alleanze per agire qui e ora: non tanto per evitare di preoccuparsi del futuro, ma per non aspettarlo.