Jon Rafman, New Age Demanded (series)

Basaglia Reloaded

La malattia mentale è solo un fatto medico? Nei giorni in cui ricorrono i quarant’anni dalla legge che portò alla chiusura dei manicomi, torniamo alla lezione radicale di Franco Basaglia

Che il consumo sempre più ampio e diffuso degli antidepressivi sia anche collegato al contesto sociale e politico, lo notava l’Osservatorio della Salute in un dossier stilato lo scorso anno; a chiusura della sezione Consumo di farmaci antidepressivi, nel descrivere i dati ottenuti l’Osservatorio suggerisce che «si deve tener conto dell’aumento del consumo di questi farmaci in relazione ai mutamenti del contesto sociale, influenzati dalla crisi economica ancora in atto». In generale, le percentuali parlano di una problematicità più critica al Nord che al Sud e di donne che sono più colpite degli uomini; inoltre, la variabile dell’aumento della depressione è direttamente proporzionale alla variabile dell’aumento dell’età: crescono insieme. Allo stesso tempo, se prendiamo in esame i soggetti con diagnosi di depressione che però non ricevono il trattamento farmacologico, scopriamo che sono perlopiù giovani, maschi e abitanti nel Sud d’Italia – questo secondo quanto riportato nel rapporto OsMed del 2015.

Ora, indipendentemente dal consumo o meno di farmaci e dal relativo profilo tipologico, sempre più individui sono colpiti da un qualche disturbo (depressione, ansia ecc.) collegato al meccanismo sociale e politico in cui siamo immersi: ovvio, no? E invece no, non può esserlo mai. L’assenza o la difficoltà nel trovare un lavoro che corrisponda alle proprie personali aspettative e all’investimento fatto; la spasmodica necessità di essere in qualsiasi sfera della vita in cima alla scala sociale; l’umana esigenza dell’accettazione e della compiacenza degli altri, dalle persone più vicine fino all’estremizzazione della popolarità social: questi sono solo alcuni dei possibili contesti che possono generare negli individui un disallineamento con la realtà. In un arco temporale relativo, fattori esterni si tramutano in fattori interni, scatenanti una determinata e personale reazione che, solitamente, ha più di una motivazione: è semmai una catena di motivazioni. Ciò può verificarsi poiché l’individuo possiede già in partenza un proprio terreno fertile in cui il disagio mentale può nidificare e sbocciare: un terreno ereditato, presente da sempre in qualche parte di noi, invisibile fino a che non si manifesta; una predisposizione che non può essere accertata da nessun esame, prelievo o screening medico, ma solo da un lungo e doloroso cammino (attra)verso.  

Questi meccanismi non rendono la patologia meno malattia; piuttosto, mostrano ancora più di ieri come la variabile del tempo sia un macigno insopportabile da sostenere in una quotidianità dove l’imperativo è categorico: devi essere efficiente ora e non un secondo dopo! Gli psicofarmaci conferiscono alla persona in difficoltà una risposta relativamente breve a un bisogno spaventoso, creatosi tutto sommato «dal nulla». Alla terapia farmacologica dovrebbe, in seguito, essere affiancata la terapia psicologica che, al contrario, è per sua natura intrinsecamente lunga: il luogo semantico dove in teoria i nodi saranno sciolti. In teoria… Perché ciò che non è riportato nel bugiardino del rapporto psichiatra-paziente è: «Avvertenza! Sistema relazionale in corso». Questo rapporto sottostà a sua volta alla regola «pregi e difetti», e rientra anche nella categoria dei rapporti più assurdi: perché in mezzo a una cortina di formalità – dal «dare del lei» al «Dottore, mi scusi, ma io non ho capito» – ci passa anche il ruolo del confessore. Insomma non è detto che tutto possa funzionare.

Fin qui, appare comunque evidente che terapia farmacologica e terapia psicologica – due elementi di uno stesso scopo, ovvero la cura – sono caratterizzati da una differenza siderale: il tempo. Un altro aspetto da considerare è che non esiste cura senza consapevolezza – del paziente ma anche dello psichiatra. Questa lunghissima premessa sulla lentezza del tempo della cura, poco adatta ai tempi «iper» in cui viviamo, fa parte di un ragionamento più ampio, che comincia sulla scorta dell’articolo di Gianluca Didino intitolato Uscire dal realismo capitalista della mente. Nel suo intervento, Didino partiva ricordando l’eredità della Legge Basaglia, constatava anche lui il sempre più diffuso consumo di psicofarmaci, e infine si chiedeva: «I successi dell’antipsichiatria hanno qualche rapporto col trionfo degli stabilizzatori d’umore?»

«È una domanda che può apparire provocatoria, se non direttamente mal posta», ammetteva l’autore; il che non toglie che a questa stessa domanda siano state date le risposte più disparate: 

1) La riposta è: «sì!». Basta pensare al diverso binomio psichiatra (medico) vs. cliente (paziente), alla sempre più fievole stigmatizzazione della malattia mentale e all’apertura da parte dei medici di Medicina Generale nella prescrizione dei farmaci.

2) La risposta è: «forse!». Del resto ci sono tante domande a cui rispondere prima, perché piani diversi si vengono a intersecare: medicina, antropologia, storia della psichiatria, filosofia, sociologia… Ad esempio, cos’è stata l’antipsichiatria? Cosa voleva ottenere? Su quale piano ha giocato la sua partita?

3) La risposta è: «no!». In quanto è impossibile rispondere a questa domanda, e soprattutto alcune cose non tornano. Tipo: se proprio l’Inghilterra, dove il termine antipsichiatria è nato, è il paese con i dati in maggiore aumento, perché l’Italia, che non ha più gli ospedali psichiatrici attivi, vede un aumento più contenuto rispetto agli altri paesi europei? Allora è qui da noi che l’antipsichiatria ha avuto successo? Lo scopo dell’antipsichiatria era quello di chiudere i manicomi?

Simili interrogativi tornano inevitabilmente nei giorni in cui cadono i quarant’anni dall’approvazione della stessa Legge 180/833 «per la chiusura dei manicomi» e che già dal nome con cui la conosciamo rimanda a Franco Basaglia, non a caso figura centrale nel ragionamento di Didino sul rapporto tra eredità antipsichiatrica e consumo di psicofarmaci. Ma Basaglia era un antipsichiatrico?

Franco Basaglia intervistato sull’antipsichiatria

Al termine, viene in effetti associato di frequente. Ciò accade perlopiù per delineare il versante italiano di una situazione – la critica alla psichiatria istituzionale – che fu transnazionale, transdisciplinare e concentrata grossomodo nello stesso periodo (gli anni Sessanta e Settanta del Novecento). Ma quello che appare solo a posteriori come un movimento globale, fu in realtà un focolaio di situazioni tra loro diversissime. Certo, i vari esponenti di questa geografia della rivoluzione psichiatrica si conoscevano tra di loro e tenevano ben presente il rispettivo lavoro, ma poi teoria e pratica venivano risolti secondo la propria di esperienza. Cercando su YouTube, è possibile saggiare di persona la reticenza, quasi il fastidio, di Basaglia nei confronti di questo termine: una parola, espressione di un concetto mai veramente definito, nata in Inghilterra e di cui si ritiene David Cooper l’ideatore (o almeno uno dei pochi ad usarlo senza remore, basta pensare al suo libro del 1967, Psichiatria e antipsichiatria).

È altrettanto vero che nel periodo in cui Basaglia fu direttore del manicomio di Gorizia (1961-1969) il modello a cui si ispirava era quello delle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, che in Inghilterra aveva fatto scuola per quel che riguardava la possibilità di praticare un altro tipo di psichiatria da quella considerata istituzionale. Ma se figure come David Cooper e Ronald Laing, nel chiudere le esperienze nelle istituzioni psichiatriche che li avevano resi celebri, decisero a un certo punto di lavorare al di fuori della cortina, Basaglia – dopo Gorizia e le vicende del suo «manicomio aperto» – intraprese all’ospedale psichiatrico di Trieste (di cui fu direttore dal 1971) un’altra strada, delineando un «superamento» che si spinse ben oltre l’antipsichiatria di Cooper; l’apertura del manicomio verso un ipotetico esterno non era più sufficiente: il fine era diventato distruggere l’istituzione stessa. È una storia che ancora merita di essere raccontata anche perché, per una qualche ragione assurda, sembra provenire da un’era lontanissima. L’inizio di tutto fu Psichiatria democratica, un movimento nato nel 1973 – di cui Franco Basaglia era il leader carismatico – che ha raccolto tutta una serie di altri direttori e figure «illuminate» con disparate esperienze e che ha combattuto, talvolta stando anche su arroccamenti diversi, per arrivare a uno scopo comune: la chiusura e la completa dismissione dell’istituzione manicomiale (in Italia!).

Ma per Basaglia che cos’era la malattia mentale? O meglio, chiede nel 1968 Sergio Zavoli a Basaglia in un documentario girato per la Rai, «che cos’è in definitiva il malato mentale?». E Basaglia risponde che nessuno lo sa. L’importante «è avvicinarci alla malattia e avvicinarsi soprattutto al malato. Perché io penso che l’avvicinamento a una persona che soffre deve essere un compito che trascende la figura semplice e banale del medico che ha imparato determinate tecniche. Ma il suo avvicinarsi deve essere estremamente dialettico». E ancora Zavoli: «per concludere, professor Basaglia, francamente: le interessa più il malato o la malattia?» Basaglia risponde senza avere dubbi: «Decisamente il malato».

Questo mettere la malattia tra parentesi per concentrarsi e avvicinarsi alla persona, era un gesto naturale e necessario: un atteggiamento di profonda umanità per arrivare a stabilire un contatto con l’essere umano e non un tentativo di negare l’esistenza della malattia mentale, bensì il suo procedere per etichette. Una scelta metodologica perfettamente in linea per uno come Basaglia, che aveva fatto di Se questo è un uomo, il libro di Primo Levi, il suo viatico per la vita.

Basaglia parla di diverse istituzioni coercitive, fornendo un elenco molto preciso: famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale.

Il grande e rivoluzionario cambiamento ottenuto da Franco Basaglia e dalla moglie Franca Ongaro (che ha poi ereditato tutto il peso di vent’anni di lotta per la concreta attuazione della Legge 180/833), non è stato però soltanto la conquista della legge in sé, quanto un portato culturale dal valore tuttora inestimabile. In questo senso, presero forma due direttrici dalle maglie ampissime che vengono qui separate per ragioni di chiarezza espressiva, ma che nelle dinamiche dei fatti sono connesse in un tutt’uno. Da un lato, c’è quel complesso di azioni eterogenee (testi, convegni, strategia mediatica, documentari, reportage fotografici, artisti impegnati…) tese a denunciare la condizione del malato mentale nelle istituzioni manicomiali, fino al punto di ristabilirne lo status di persona e quindi di un essere umano avente diritti. È una miscellanea di attività che fanno capo a una richiesta a cui la stessa Franca Ongaro non smetterà mai di appellarsi: ancora nel 1981, a un anno dalla morte di Basaglia e a tre anni dall’approvazione della legge, è proprio lei a ricordare (nella sua introduzione al catalogo della mostra Inventario di una psichiatria) quanto fosse ancora indispensabile un mutamento in primo luogo culturale, perché «per poter convivere con questa sofferenza senza allontanarla e rinchiuderla, occorre che siamo tutti consapevoli della necessità di una trasformazione radicale dell’atteggiamento nei confronti di questi fenomeni».

Dall’altro lato e di pari passi, c’è la lotta dall’interno alle istituzioni, di cui quella manicomiale rappresenta però solo un tassello – importantissimo – di un mosaico ben più grande. È un aspetto che non viene mai sottolineato abbastanza: Franco Basaglia è stato un vero pensatore radicale. Nel suo testo «Le Istituzioni della violenza» contenuto nel fondamentale libro del 1968 L’Istituzione negata, Basaglia parla di diverse istituzioni coercitive, fornendo un elenco molto preciso: famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale. Tutte istituzioni che si reggono sulla «divisione del lavoro. Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha». Mentre il gradiente della violenza nella gestione dei rapporti specifici in ognuna di queste istituzioni varia «a seconda del bisogno di chi detiene il potere di velarla e mascherarla. Di qui nascono le diverse istituzioni che vanno da quella familiare, scolastica, a quelle carcerarie e manicomiali; la violenza e l’esclusione vengono a giustificarsi sul piano della necessità, come conseguenza le prime della educativa, le altre della “colpa” e della “malattia”».

Le grandi rivoluzioni cominciano sempre dal linguaggio e dalla scelta delle parole: tutto è partito dal suo campo d’azione, l’ospedale psichiatrico (mai manicomio!). Nel tempo che Basaglia non ha avuto, avrebbe poi tentato di scardinare anche il resto delle altre istituzioni che in parte erano collegate alla malattia mentale: come la famiglia, ad esempio.

Il primo campo di battaglia di questa lunga lotta fu, abbiamo detto, il manicomio di Gorizia: come racconta John Foot in La repubblica dei matti, «era l’ultimo posto dove si potesse immaginare di avviare una rivoluzione. Ma Basaglia accettò l’incarico, e in soli otto anni quello di Gorizia sarebbe diventato il manicomio più famoso d’Italia, se non d’Europa. Fu qui che scattò la scintilla che avrebbe creato un movimento capace di minare alla base tutte quelle “istituzioni totali”».

La resistenza alle «istituzioni della violenza» è figlia di una teoria precisa. Scrive Erving Goffman in Asylums. Le istituzioni totali: «Ogni istituzione si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante. […] Questo carattere inglobante o totale è simbolizzato nell’impedimento allo scambio sociale e all’uscita verso il mondo esterno […]. Questo tipo di istituzioni io lo chiamo “istituzioni totali”». Goffman formulò la sua teoria nel 1961; ma a portarla a conoscenza del pubblico italiano furono proprio Basaglia e Ongaro, che di Asylums curarono l’edizione Einaudi del 1968.

Un altro punto essenziale da sottolineare, ripreso tra l’altro nel testo introduttivo dell’oggetto-libro fotografico Morire di classe commissionato da Basaglia e Ongaro a Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, è quello da cui siamo partiti: e cioè che la malattia mentale è anche una questione socio-ambientale. Lo è su più livelli. In primo luogo, come risposta da parte dell’individuo a una sentita mancanza, la manifestazione concreta di una sottrazione a partecipare (leggiamo in L’istituzione negata: «Se la malattia è anche legata come nella maggior parte dei casi a fattori socio ambientali [lo è] a livelli di resistenza all’urto di una società che non tiene conto dell’uomo e delle sue esigenze […] elementi che non hanno retto allo sforzo, che non hanno sostenuto il gioco»). In secondo luogo, come territorio di discussione – proprio perché determinata anche da fattori socio-ambientali – la malattia mentale non poteva, e non può tuttora, essere discussa solo nel campo della medicina. Necessita di aprire le sue maglie e di tentare soluzioni alternative e altrove, al fine di sovvertire fino a distruggere la funzione reale per cui l’istituzione manicomiale era stata creata: «una residenza per categorie diverse di persone socialmente indesiderate». In terzo luogo, la malattia mentale, acquisendo il suo statuto di «malattia», mette in campo il concetto di recuperabilità. E questa, annota Basaglia in Morire di classe, «ha un prezzo, spesso molto alto, ed è quindi un fatto socio-economico più tecnico-scientifico»: è un prezzo alto per il malato, per le famiglie, per la società. Ma la questione economica, nelle riflessioni di Basaglia, non si esauriva solo negli eventuali «costi di gestione» della malattia; come ripeteva spesso lo stesso Basaglia, «Conosco almeno due tipi di psichiatria: la psichiatria per i poveri e quella per i ricchi».

Del resto il titolo scelto per il reportage fotografico commissionato da Basaglia e Ongaro a Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, già da solo dichiarava tutto: MORIRE DI CLASSE. E non morire di manicomio o di pazzia. Come dire: non stai morendo perché stai male, bensì perché non hai alternative, perché sei un miserabile e non servi a nessuno. Un’iperbole che suona familiare, no? Certo, era un titolo che si inseriva bene nello spirito del tempo. Ma è interessante come Basaglia e Ongaro, nell’introduzione al volume in questione, non intervengano con nessuna spiegazione o dichiarazione di intenti. Non lasciano indizi in merito. Il significato di quel titolo è sotteso e lasciato al lettore. Loro sono, invece, totalmente immersi nelle teorie di Goffman, appena pubblicate. Infatti, il testo si apre immediatamente con il pagamento del loro debito intellettuale: «Nell’analisi della carriera morale del malato mentale, Goffman precisa che il tipo particolare di strutture e di ordinamenti istituzionali, più che sostenere il sé del paziente, lo costituisce».

Torna allora il punto da cui siamo partiti: cosa vuol dire vivere un disallineamento con la realtà all’interno di una specie che non contempla la perdita di tempo? Cosa significa essere esclusi e modellati in questo scarto da meccanismi esterni?

Perché è proprio il meccanismo dell’esclusione sociale la chiave di volta su cui regge la vicenda dei Basaglia e di Psichiatria Democratica, di Goffman e delle istituzioni totali, di Gorizia e del modello delle comunità terapeutiche inglesi, di Foucault e della narrazione attraverso i secoli della figura del folle, di quasi vent’anni di lotta (dal 1961, anno di arrivo a Gorizia, al 1978, data dell’approvazione della Legge 180/833), per arrivare al primo traguardo: la chiusura dei manicomi. Altri vent’anni sono serviti per completarne l’attuazione. E nel frattempo cos’è successo? Oggi, qual è il destino delle persone che non si possono permettere né il tempo né il denaro per una terapia privata? Questa storia, è il capitolo che ancora deve essere scritto.