Fondamenti di Ecofagia Globale

Autoassemblaggio + capacità replicante: come il virus è passato da rappresentare il futuro tecnologico dell’umanità a emblema assoluto dell’estinzione pandemica

Le mascherine FFP3 le ho conosciute per la prima volta qualche anno fa, quando ho cominciato a lavorare in un laboratorio in cui si preparavano nanomateriali. Si tratta di un dispositivo di protezione individuale che, insieme ai guanti e al camice, può essere opportuno utilizzare nei casi in cui, non potendo lavorare sotto una cappa aspirante, si è esposti al rischio di inalare nanoparticelle. Queste precauzioni sono necessarie perché le nanoparticelle non sono oggetti comuni; le loro dimensioni sono così piccole che passano attraverso pressoché ogni cosa, anche la pelle e, in alcuni casi, le membrane delle cellule del nostro corpo. È anche per questa incredibile capacità di penetrazione che le nanoparticelle possono essere impiegate per applicazioni biomediche avanzate. 

La nanomedicina, una materia di studio interdisciplinare emergente, sfrutta la capacità di oggetti nanometrici di infilarsi in posti impensabili per qualsiasi strumento macroscopico, permettendo l’identificazione e, se necessario, la distruzione delle cellule tumorali con sorprendente accuratezza. Gli effetti sulla salute e sull’ambiente dell’esposizione a nanoparticelle inorganiche, come quelle che utilizzo nella mia attività di ricerca, dipendono dalla loro dimensione, dalla loro natura chimica e dal loro stato di aggregazione, e sono ancora oggetto di ampio dibattito. In ogni caso, ho sempre avuto una certa difficoltà a descrivere l’ansia sottile che qualcosa di invisibile e vagamente nocivo potesse essere entrato nei miei polmoni. Intendiamoci: i virus sono oggetti molto più raffinati e potenzialmente molto più pericolosi di qualsiasi nanoparticella sintetica; ma entrambi condividono una serie di caratteristiche interessanti, a partire da quella più ovvia: le loro dimensioni, che variano tra i 20 e i 400 nm e li rendono ugualmente difficili da filtrare. 

Confesso che parlare di virus mi mette una certa soggezione, e non solo per la loro potenziale capacità di sterminio. In realtà, il virus è uno dei sistemi biochimici che mi affascina di più, ma è anche un oggetto incredibilmente carico di rilevanza culturale e tecnologica. Il virus rappresenta simultaneamente una sorta di presagio oscuro del futuro della tecnologia e l’emblema del suo fallimento; il pensiero virale ha costituito una delle componenti più rilevanti dell’immaginazione del futuro nel secolo scorso, ed è stato capace di intersecare miracolosamente il mondo della materia biochimica, quello della tecnologia e quello della cultura umana. Il virus è un oggetto ibrido in tutti i sensi, che abita lo spazio al confine tra materia chimica e materia vivente, e, per questo, permette di illuminare i meccanismi di assemblaggio che dominano le strutture molecolari complesse. 

La capacità dei virus di autoassemblarsi è una caratteristica di particolare interesse: alcuni virus sono in grado di ricostruirsi da soli anche in provetta, senza l’aiuto di alcun organismo preformato, a partire dalle loro componenti elementari, un po’ come se un essere umano venisse buttato in un gigantesco frullatore per poi riemergere intatto dalla sua stessa poltiglia. L’interesse tecnologico di questa capacità è evidente: la possibilità di progettare sistemi complessi e funzionali capaci di assemblarsi in autonomia permetterebbe di estendere incredibilmente il nostro controllo della materia, soprattutto sulla scala nanometrica, dove la manipolazione meccanica degli oggetti presenta dei limiti evidenti. Questa idea è racchiusa nel concetto di nanobot, l’automa nanotecnologico che ha popolato i sogni di scienziati e futurologi per generazioni, ma che, di fatto, non ha ancora visto la luce. 

D’altra parte, il virus è anche un modello di come la materia e l’informazione siano in un contatto stretto e interdipendente; un’idea che, nella nuova era digitale, ci appare sempre meno aliena. Non solo il virus codifica l’informazione necessaria a costruire gli ingredienti che lo compongono sotto forma di codice genetico, ma è anche «quasi solo» informazione. Privo di qualsiasi struttura fisica che non sia strettamente funzionale alla replicazione di un codice, il virus è stato percepito come un oggetto quasi-virtuale, in grado di evidenziare la virtualità intrinseca delle strutture biologiche e, allo stesso tempo, capace di svelare la potenzialità creativa – e distruttiva – delle nuove scienze computazionali. Il virus come frammento di software parassitico illumina, infine, l’ultimo passaggio del pensiero virale, in cui l’informazione genetica viene soppiantata dall’elemento culturale, e ci conduce alla formulazione della dottrina memetica di Richard Dawkins, con cui siamo tutti, nel bene e nel male, diventati familiari. In generale, le due proprietà fondamentali del virus, quella dell’autoassemblaggio da un lato e quella della replicazione dall’altro, sono stati due concetti chiave per pensare il futuro tecnologico dell’umanità e, inevitabilmente, anche per immaginarne la fine.

La rilevanza del virus come categoria concettuale è espressa molto bene dall’articolo di Wired del 2000 di Bill Joy, l’informatico fondatore della Sun Microsystems, intitolato Why The Future Doesn’t Need Us Perché il Futuro Non Ha Bisogno di Noi»). Nel suo articolo, Joy passa in rassegna tutte le tecnologie che, nel corso del nuovo millennio, metteranno a rischio il futuro dell’umanità. Rileggere questo articolo oggi è, senza dubbio, abbastanza sorprendente; non si fa menzione di riscaldamento globale o di infezioni zoonotiche, ma si parla estensivamente, e con certezza quasi matematica, di superintelligenze artificiali e di futuristici nanobot che, sfuggendo da qualche laboratorio, rischiano di rendere obsoleta la vita sulla terra. In questo, Joy fa riferimento al cosiddetto scenario del gray goo (letteralmente «melma grigia»), una distopia nanotecnologica al confine tra fantascienza e speculazione scientifica che acquisì un’incredibile popolarità negli anni Novanta, destando anche concrete preoccupazioni, del tutto infondate, nell’opinione pubblica. Il gray goo, un’infestazione inarrestabile di nanobot automatici, somiglia, per molti versi, a una pandemia virale, con la differenza che, se i virus necessitano di organismi viventi per replicarsi, il gray goo riuscirà definitivamente a fare a meno di noi. In altre parole, il gray goo come pandemia nanotecnologica conduce il virus alle sue estreme conseguenze, teorizzando una replicazione esponenziale che non ha nemmeno più bisogno di un vettore biologico per realizzarsi. 

Nelle parole di Joy, «Abituati a vivere tra continue scoperte scientifiche ormai diventate di routine, ancora non siamo riusciti a venire a patti con il fatto che le più importanti tecnologie del XXI secolo – robotica, ingegneria genetica e nanotecnologia – pongono una minaccia diversa da quella rappresentata dalle precedenti tecnologie. In particolare, i robot, gli organismi transgenici e i nanobot hanno in comune un pericoloso fattore amplificante: sono in grado di autoreplicarsi. Una bomba può scoppiare soltanto una volta – ma un solo bot può costruirne altri e sfuggire rapidamente a ogni controllo. Gran parte del mio lavoro negli ultimi 25 anni ha riguardato il computer networking, dove l’invio e la ricezione dei messaggi crea l’opportunità di una ripetizione incontrollata. Ma se la ripetizione in un computer o in una rete di computer può costituire una grossa seccatura, il peggio che può fare è mettere fuori uso una macchina o interrompere una rete o un servizio. L’autoriproduzione incontrollata comporta, in queste nuove tecnologie, un rischio ben più grave: il rischio di un danno sostanziale al mondo fisico».

Il racconto di Joy attinge sia dalla letteratura fantascientifica, sia da quella scientifica a lui contemporanea. Il suo esplicito riferimento è lo scienziato K. Eric Drexler, diventato celebre per essere stato tra i primi pionieri del pensiero nanotecnologico, e per aver popolarizzato l’idea che il gray goo potesse costituire una minaccia effettiva per il futuro dell’umanità. Il pensiero di Drexler, del resto, è strettamente virale, sia nella sua trattazione dei nanobot – rispetto ai quali il virus costituisce un ottimo esempio di nanoignegneria naturale – sia nell’approcciare il problema dello sviluppo della tecnologia nel suo complesso. Il pool ideologico, nel pensiero di Drexler, è dominato dall’imperativo darwiniano della sopravvivenza delle idee più adatte, fino al punto di distruggere del tutto il confine tra realtà e virtualità. «Proprio come i virus evolvono per spingere le cellule a fabbricare virus», suggerisce Drexler, «così le voci evolvono per suonare plausibili ed interessanti, stimolando la loro ripetizione. Non vi domandate se una voce è vera, domandatevi come si diffonde. L’esperienza mostra che le idee evolutesi per essere replicatori di successo hanno ben poco bisogno di avere a che fare con la verità». È, forse, proprio per questa ragione che a Drexler importava ben poco che le sue teorie fossero pressoché pura speculazione, e che appartenessero più al dominio della fantasia che a quello della scienza rispettabile. 

Sulla scia di Drexler, l’idea che la catastrofe nanotecnologica fosse ormai alle porte cominciò a diffondersi in modo sorprendente, in una proliferazione di articoli e libri infarciti di gergo pseudo-tecnico e diagrammi di complicati accrocchi molecolari del tutto irrealizzabili nella pratica. Tra questi, l’articolo del 2000 di Robert A. Freitas Alcuni limiti all’Ecofagia Globale da parte di Nanoreplicatori Biovori, con Raccomandazioni di Ordine Pubblico costituisce un esempio brillante e surreale di scienza speculativa; una collezione strampalata di nozioni elementari di chimica inorganica, leggi fisiche fuori contesto e conclusioni completamente allucinanti. Il termine ecofagia, coniato da Freitas, indica lo scenario catastrofico in cui automi nanotecnologici sintetizzati dall’uomo cominceranno ad entrare in competizione con gli ecosistemi viventi, utilizzandoli come sorgenti di risorse chimiche e infine distruggendoli definitivamente. «Forse il pericolo della nanotecnologia molecolare più noto e identificato da più tempo», spiega Freitas, «è il rischio che nanorobot autoreplicanti capaci di funzionare autonomamente nell’ambiente naturale possano velocemente convertire quell’ambiente naturale (e.g., “biomassa”) in repliche di loro stessi (e.g., “nanomassa”) su una scala globale, uno scenario comunemente noto come il problema del gray goo, ma forse più propriamente denominato ecofagia globale». In un’amara ironia della sorte, tra i limiti più significativi alla replicazione esponenziale del gray goo Freitas indica proprio il cambiamento climatico: i nanobot, nel convertire le biomasse viventi in nanomasse robotiche, produrranno una quantità di calore tale da determinare un innalzamento catastrofico della temperatura del pianeta. 

Uno dei primi racconti di fantascienza a contemplare il problema del gray goo è il racconto del 1955 di Philip K. Dick Autofac. Nel suo racconto, Dick immagina uno scenario postatomico in cui l’umanità, minacciata dalla guerra nucleare, ha affidato il proprio sistema di produzione a un network cibernetico interamente automatizzato al fine di garantire la propria sopravvivenza. Al termine della guerra, questo sistema di macchine autoreplicanti ha ormai il monopolio assoluto delle risorse naturali, e i protagonisti del racconto provano in tutti i modi, ma senza successo, a riprendere il controllo della civiltà umana. Proprio alla fine, quando sembra che il sistema Autofac sia stato finalmente raso al suolo, dalle sue macerie emergono sciami di piccolissimi robot che, sparati come spore per il mondo, cominciano ad assemblare repliche microscopiche della loro fabbrica madre. Il racconto di Dick evidenzia l’angoscia di trovarsi intrappolati in un sistema produttivo che rivela la propria natura virale e parassitica, cieco e del tutto indifferente al futuro degli esseri umani che l’hanno progettato, dominato esclusivamente dai principi termodinamici dell’autoassemblaggio. «Un avvertimento», ci comunica con tono sinistro uno degli automi del racconto. «È futile considerare questo recettore umano, e coinvolgerlo in discussioni per le quali non è attrezzato. Anche se dotato di intenzionalità, non è capace di pensiero concettuale; può soltanto riassemblare il materiale che ha già a disposizione». Teorici della catastrofe, prendete appunti.