COVIDNOMICS

L’economia dell’epidemia: contraddizioni e nuovi mondi da immaginare

Superate le prime giornate di assordante circo mediatico, fatta (quasi) pace con la noia e lo straniamento del necessario ridimensionamento delle nostre quotidianità, una larga parte del dibattito delle ultime ore sul coronavirus si sta concentrando sui suoi effetti di breve e di lungo periodo sull’economia. Le borse hanno registrato la loro peggior settimana dai tempi della crisi del 2008 e l’incertezza sul futuro è grande come non mai. Gli economisti si dividono tra chi sostiene che alla contrazione economica e finanziaria di queste settimane corrisponderà una rapida ripresa e chi pensa che l’effetto recessivo possa avvitarsi su se stesso con conseguenze disastrose. Chi è fiducioso nella tenuta dell’economia, come ad esempio la presidente della BCE Christine Lagarde, insiste sull’idea che «gli effetti del coronavirus sul sistema non saranno persistenti». Queste posizioni tendono a dare un grande rilievo al ruolo della politica monetaria come strumento di stabilizzazione del sistema finanziario, ma sembrano non tenere in alcuna considerazione il fatto che questo modello economico risulti sempre meno sostenibile per fasce sempre più larghe della popolazione: persone i cui problemi sono senza dubbio più materiali di indici finanziari scarsamente comprensibili, pur dipendendo ineluttabilmente da questi ultimi. 

Tra chi esprime maggiore preoccupazione, emergono sempre più frequentemente riflessioni sui limiti strutturali di un modello non solo inadeguato a reagire agli shock esogeni (ovvero non determinati da variabili interne al sistema economico – come appunto la crisi del Covid-19), ma anche che per sua natura intrinseca non può che continuare ad alimentare la forbice delle diseguaglianze. Se da una parte si possono – se non identificare – quantomeno immaginare i fattori chiave di una potenziale ripresa attraverso un calcolo probabilistico su dove (e quando) sarà nuovamente conveniente tornare a investire, dall’altra la numerosità delle variabili in gioco e la complessità attraverso cui queste stanno in relazione rendono più fumoso ogni tentativo previsionale di tale dinamica su scala globale. Elaborare previsioni in questo contesto risulta quanto mai azzardato, tuttavia la sensazione che questo modello economico non sia più sostenibile si fa sempre più netta e pare andare ben oltre la contingenza emergenziale che, semmai, ne ha fatto esplodere ancora una volta le contraddizioni. 

Su scala europea, l’Italia è l’epicentro di una crisi che sta mettendo in luce le fragilità e l’inadeguatezza delle politiche di governo economico dell’eurozona. Rispetto a questo in tanti, non ultimo il presidente del consiglio Conte, stanno invocando la necessità di aprire alla flessibilità sul deficit da parte delle istituzioni europee. Inoltre, in un contesto le cui dinamiche ricordano quelle di una bolla finanziaria, occorre tenere presente che, come ha dichiarato il vicepresidente della BCE de Guindos, il virus «può avere effetti sia sulla domanda che sulle forniture»: una ricaduta sull’economia reale che in Italia stiamo già osservando con la paralisi di interi settori della produzione e dei servizi, ma che prevedibilmente riguarderà diverse altre regioni del mondo nelle prossime settimane (proprio mentre scrivo è stato proclamato lo stato di emergenza in California). 

Una dinamica, questa, che apre a diverse riflessioni sul ruolo dei confini nella grande macchina globalizzata. Gli epifenomeni territorialmente circoscritti non solo amplificano la loro risonanza finendo per ripercuotere i loro effetti – localmente reali – su scala globale in termini percepiti, ma si diffondono anche in termini reali sempre più velocemente, e in questo modo la pandemia trascende la dimensione locale per approdare a quella globale. Si tratta di un processo non reversibile determinato dalla sempre crescente velocità di circolazione dei flussi di persone, informazioni e merci che il progresso – questo mito – porta connaturatamente a se stesso. Immaginare una risposta securitarista, focalizzata sulla necessità di irrobustire confini e controlli, oltre che inserirsi in una logica puramente razzista e repressiva, è profondamente antistorico: sarebbe una risposta vecchia a un problema  (relativamente) nuovo. Quello che serve è piuttosto aggiornare il paradigma sociale ed economico con strumenti nuovi, in grado di rispondere alla complessità determinata dal ridimensionamento di scala dallo spazio locale a quello globale. È necessario intrecciare nuove reti di protezione sociale, capaci di rispondere ai bisogni delle persone con un’aspirazione universalistica. Per tornare all’emergenza virale, ad esempio, sarebbe opportuno riflettere sulla necessità di un sistema sanitario che superi le inadeguatezze della scala nazionale, ma anche nuove forme di protezione economica – c’è chi parla di reddito di quarantena – per far fronte alla crisi generata dal blocco delle attività produttive.

Sebbene in questo scenario la crisi mediatica giochi un ruolo più rilevante della diffusione del virus vero e proprio, è utile ricordare come le misure precauzionali di blocco delle attività produttive che hanno colpito piccoli e grandi centri economici e produttivi fino a fare di tutta l’Italia un’unica zona rossa si riveleranno utili nel contrastare la diffusione del contagio. Le fughe incontrollate dalle prime città in quarantena a quelle fuori dalla zona rossa prima dell’estensione della misura, le code interminabili ai supermercati coi prodotti che finiscono, le città semideserte e gli sguardi diffidenti a ogni colpo di tosse nei negozi sono tutti effetti della propagazione della paura, dovuta anche a una gestione come sempre sensazionalistica da parte dei media. E se da una parte ci può essere una componente di scarsa cura verso la collettività in alcune scelte individuali, altre reazioni – pure un po’ scomposte – di fronte a un’inedita situazione di emergenza sono perfettamente comprensibili. 

Ridicolizzare le paure e le precauzioni delle persone, le mascherine e le corse ai supermercati, corrisponde a non riconoscere un privilegio: il privilegio di essere in di buona salute e verosimilmente non esposti alle complicazioni del virus.

In particolare, le misure adottate dal governo italiano non sono il frutto di una psicosi collettiva: come riportato da diversi esperti, la decisione è il riflesso di un calcolo razionale sulla capacità del Sistema Sanitario Nazionale, che non sarebbe in grado di reggere il colpo di un numero di contagi eccessivo. Infatti, qualora il picco del numero delle persone colpite dal virus fosse simultaneo invece che diluito nel corso del tempo, il SSN non sarebbe in grado di garantire cure adeguate per tutti: si tratta di una popolazione di trecentocinquantamila potenziali infetti a fronte di appena quattromila posti letto in terapia intensiva disponibili. 

È un ragionamento senza dubbio corretto, ma che arriva dopo decenni di smantellamento del welfare: un ragionamento che dovrebbe farci incazzare per la condizione a cui la sanità pubblica è stata ridotta, specie se riflettiamo su quale sia la fascia di popolazione maggiormente esposta ai rischi di un simile modello. Non si tratta di un problema solamente italiano: le dichiarazioni del vice presidente americano Mike Pence, che annuncia trionfalisticamente la disponibilità di 2500 kit per effettuare i test a tampone in un paese con una popolazione di 327 milioni di persone, dovrebbero far ridere se non mettessero in luce la totale impreparazione del sistema sanitario statunitense a fronteggiare un’emergenza sanitaria di tale portata. In Italia così come all’estero, osserviamo i risultati di decenni di politiche di privatizzazione e di costante disinvestimento sulla sanità, i cui effetti tanto sulla chiusura degli ospedali quanto sui fondi per la ricerca hanno una ricaduta distribuita in modo fortemente diseguale sulla popolazione: a pagarne maggiormente le conseguenze, come sempre, sono proprio le fasce meno protette.

Tuttavia, connettere lo stato di emergenza a una riflessione di stampo foucaultiano su biopolitica e controllo sociale, come ha fatto ad esempio Agamben, è nel caso in questione sostanzialmente scorretto – perché non esiste una linea di continuità tra la contingenza in corso e la tradizionale retorica repressiva. Valutare se ci sia o meno un’effettiva volontà politica di questo tipo è un’operazione che possiamo fare solo ex post, quando lo stato di emergenza sarà terminato: farlo adesso è pura mistificazione. Ridicolizzare le paure e le precauzioni delle persone, le mascherine e le corse ai supermercati, corrisponde a non riconoscere un privilegio, o meglio una serie di privilegi, di cui sarebbe bene essere consapevoli: il privilegio di essere in di buona salute e verosimilmente non esposti alle complicazioni del virus, quello dell’accesso alle cure e quello di godere di una continuità di reddito che consente di affrontare con relativa serenità questo periodo. 

Piuttosto che assumere atteggiamenti sprezzanti, sarebbe forse uno spunto più utile immaginare questa contingenza come l’occasione per attivare reti mutualistiche e di solidarietà, come alcune realtà aggregative e di movimento, ma anche tante singole persone, stanno tentando di fare. Nei palazzi e nei quartieri non è infrequente trovare cartelli di chi si offre di far la spesa o le commissioni per chi non lo può fare, e nascono ogni giorno piccole e grandi proposte di auto-organizzazione per affrontare le giornate dell’emergenza. Probabilmente è proprio questa solidarietà il miglior antidoto contro il rischio di una effettiva stretta repressiva.

Se davvero ci fa tanto incazzare la compressione delle nostre libertà personali, o più banalmente ci infastidisce dover rinunciare alla routine abitudinaria delle nostre giornate, conserviamo questa rabbia e indirizziamola a chi ha sistematicamente eroso ogni forma di welfare in favore del «libero mercato» e del profitto privato senza nessuna sostenibilità. Lo stesso modello nel cui nome, tra le altre cose, è stata sdoganata l’industria degli allevamenti intensivi che ha generato, per esempio, il ceppo dell’influenza aviaria; ma anche lo stesso modello secondo cui sarebbe normale e giusto che il prezzo dell’amuchina o delle cure mediche schizzi alle stelle, fedele solo al dio della legge della domanda e dell’offerta.

A un certo discorso, che riduce a statistica il valore delle vite, secondo cui a morire per il coronavirus sarebbero solamente i soggetti più deboli (gli anziani, gli immunodepressi e, come sempre, i più poveri), bisogna dunque rispondere con una proposta radicale di ripensamento del welfare, che deve rimettere al centro dell’interesse pubblico l’universalità dell’accesso alle tutele, tanto sul piano sanitario quanto su quello economico.

Infatti, se il dispositivo emergenziale messo in atto in queste settimane in Italia risponde semplicemente alla presa di coscienza della totale inadeguatezza del nostro sistema nel garantire la salute pubblica, pare che non ci sia altrettanta attenzione alla tutela economica dei soggetti maggiormente esposti ai rischi di questa situazione. Le contraddizioni della fase che stiamo attraversando sono ormai evidenti. Da una parte, la sospensione di numerose attività e servizi sta mettendo in grave difficoltà un enorme numero di persone, la cui già fragile situazione economica è minata dall’emergenza e per le quali è necessario disporre quanto prima delle tutele che ne garantiscano una qualità della vita dignitosa. Dall’altra, l’adozione da parte di svariate aziende di pratiche come il cosiddetto smart working, rappresenta un disperato tentativo di nascondere dietro la retorica dell’emergenza un’ulteriore flessibilizzazione del lavoro, in atto nei fatti già da anni (ad esempio per migliaia di freelance e partite IVA). Questo modello si è sempre tradotto in una maggiore frammentazione e precarizzazione per migliaia di lavoratrici e lavoratori, sulle cui spalle vengono scaricati i costi che dovrebbero spettare alle parti datoriali. Scaricare i costi su chi lavora giustificandosi attraverso il contesto è un atto politicamente irresponsabile che peggiora le condizioni di lavoro e di vita delle persone: per questo, è perlomeno necessario mettere a punto una serie di correttivi che rendano pratiche simili uno strumento realmente a tutela di chi lavora precariamente e non l’ennesimo dispositivo che ne alimenti lo sfruttamento e la fragilità economica, specialmente in una fase come quella che stiamo affrontando.

Questa contingenza, come già sottolineato, ci offre l’occasione di riflettere sui limiti strutturali del modello economico e sociale che abitiamo, ma anche di ragionare sulle sperimentazioni a cui aprire per superarlo.  Ad esempio, a Hong Kong, per far fronte al crollo della domanda aggregata è stata approvata una sorta di helicopter money fiscale che garantisce diecimila dollari locali (circa 1170 euro) a tutti i cittadini maggiori di diciotto anni: «a mali estremi, buoni rimedi», ha chiosato Roberto Ciccarelli in un bell’articolo uscito sulle pagine de il Manifesto, osservando come una manovra di questo tipo strizzi l’occhio neanche troppo velatamente a una misura da istituzionalizzare in modo strutturale sotto forma di reddito di base universale. 

Ne La grande livellatrice (2017), Walter Scheidel ripercorre la storia delle diseguaglianze dall’età della pietra sino ad oggi quale causa strutturale della violenza nella società umana e identifica, con toni  vagamente apocalittici, solo quattro grandi forze «livellatrici» in grado di contrastarle: le grandi guerre, il fallimento degli stati, le rivoluzioni e le epidemie. In Futurabilità (2019) Bifo, riprendendo Mbembe, esprime un’idea simile quando parla di necroeconomia, identificando la violenza come elemento essenziale del processo di produzione, un ciclo specifico dell’accumulazione di capitale. Nella narrazione di Scheidel, sarcastica fino a un certo punto, solo la morte di milioni di persone può svolgere un ruolo di riequilibratore sociale, ma a costi evidentemente insostenibili. Al di là della provocazione, la domanda che questa lettura stimola in modo naturale è se esistano strumenti alternativi in grado di livellare gli squilibri economico-sociali; e in effetti, uno strumento come il basic income sarebbe il più potente a disposizione per contrastare il crollo del sistema economico in una situazione come questa.

Inoltre, c’è un altro aspetto che rende l’emergenza di questi giorni un fenomeno assolutamente interessante. A voler esagerare, potremmo dire che abbiamo improvvisamente scoperto che la grande macchina del capitalismo si può – almeno parzialmente – fermare, che si possono mettere la salute pubblica ed il benessere davanti agli indicatori economici, e persino l’aria che respiriamo è visibilmente più pulita quando i meccanismi della produzione si inceppano. Pur senza cullarci in un mito decrescitista un po’ naive – da cui emergono altre e non meno complesse contraddizioni –, ci ritroviamo a essere spettatori in anteprima di quello che succede quando le falle del paradigma emergono in tutta la loro virulenza. Ragioniamo sui limiti e sulle potenzialità di una situazione inedita e decidiamo cosa vogliamo tenere e cosa buttare via. Costruiamo consenso attorno all’idea che modelli alternativi da praticare possono e devono esistere: facciamolo adesso, proprio in questo momento in cui il capitalismo, forse, finalmente, attraversa una sua crisi di consenso. Prima che ancora una volta impari a ristrutturare se stesso per continuare a riprodursi, portiamoci a casa questa lezione: questo modello economico può essere messo in discussione. Ricordiamocelo quando l’emergenza sanitaria sarà passata e teniamolo a mente per immaginare nuove possibilità.

Eleonora Priori
è dottoranda in Economia e Sistemi Complessi all’Università di Torino. Si occupa di trasformazioni socio-economiche e contrasto alle diseguaglianze, ma ogni tanto pure del come e del perché l’economia andrebbe studiata diversamente. A tempo perso scrive.