Come ce ne andiamo via?

Lasciare relazioni, comunità, progetti: dalla militanza all’amore romantico, come affrontare il peso e la responsabilità dell’abbandono quando non ce la facciamo più

Questa conversazione segue quella tra Castillo e Fátima Masoud Salazar intitolata Allɜ nostrɜ amichɜ in terapia tradotta in italiano da Fau e Marta, e pubblicata da Not a dicembre 2021. La traduzione del qui presente testo è invece di Giulia Crispiani.

Nota della traduttrice

Come ce ne andiamo via è una conversazione tra due amiche, che comprende due letture di tarocchi e una bibliografia, in cui si affronta la questione del distacco, della difficoltà intrinseca di lasciare un impegno, sia esso fervore romantico o militanza. Qui si parla di come ci si accorge quando la dedizione diventa incombenza, tanto da corrompere quelle relazioni che all’inizio erano sembrate salvifiche. Mentre questo sentimento si consolida, non è mai facile rendersene conto né trovare le parole per dire che cosa c’è che non va.

Ringrazio Lili PJ, Marge e Castillo perché anche io sogno una cerimonia per ogni addio, una lettera per ogni commiato. (—Giulia. Roma aprile 2023)

Introduzione

Lili PJ e Marge: In questo testo discutiamo e registriamo le nostre riflessioni a proposito di conclusioni, discordie di vita di collettivo, e le sofferenze che ne derivano. Parliamo di situazioni di attivismo e collettività che hanno fatto parte di noi e di cui noi facciamo ancora parte: nello specifico collettivi queer, femministi, e sex worker; collettivi che si formano su strutture professionali e/o impiegatizie. Questa conversazione non è esaustiva e non si arroga il diritto di esplorare tutti gli aspetti della questione. Tocca argomenti delicati che a volte possono farci del male o allontanarci. L’intenzione è di prendere nota di queste esperienze, per fare spazio a nuove conversazioni.

Marge: Io e Lili PJ ci siamo incontrate poco prima dell’estate del 2020. Ci eravamo già incrociate qualche volta, amiche di amichɜ di amanti, non siamo mai state troppo lontane, anche se a L-Bruxelles non ci conoscevamo granché. Abbiamo iniziato a frequentarci, e poi ad offrirci supporto dopo le rispettive separazioni; durante questo doloroso processo abbiamo accompagnato l’un l’altra, in momenti in cui non avevamo riacquistato parole né occhi, mentre stavamo sprofondando nei nostri sentimenti e non capivamo nulla di niente. Ci siamo regalate dei fiori a vicenda, ci siamo ascoltate ridendo di dolore, e brindato alla nostra disperazione.

Come ce ne andiamo via? Siamo capaci di lasciar perdere qualcosa – che sia amore o comunità – in cui abbiamo messo così tanto di noi?

Lili PJ stava affrontando una rottura romantica, mentre la mia era con una comunità. Questa conversazione sul distacco dal collettivo è avvenuta in diverse fasi, spesso e volentieri le basi della nostra storia erano proprio lì, tra il romantico e il collettivo. Come può il nostro modo d’amare, di essere coinvolte, venire tradotto nelle modalità in cui ci diamo da fare – a volte con ardore e passione – per poi distruggere noi stesse e i gruppi di cui facciamo parte? Allora come ce ne andiamo via? Siamo capaci di lasciar perdere, io e Lili PJ, qualcosa – che sia amore o comunità – in cui abbiamo messo così tanto di noi? Queste domande sono sorte come sfoghi spontanei, a modo nostro. Poi ci siamo messe a scavare più a fondo, a divagare e studiare.

In questo testo parliamo delle difficoltà che sorgono quando siamo insieme, tra tentativi e disaccordo, quando si è già sofferto abbastanza; quindi delle difficoltà causate dalle separazioni, di andarsene, di trovare le parole per capirci a vicenda anche mentre ci stiamo lasciando. Proviamo a parlare dei meccanismi collettivi che studiamo, che osserviamo, e delle mancanze che ci affliggono.

Certo, tutte le nostre esperienze sono complesse e non tutto entra facilmente in definizioni razionali. Ciò significa che le nostre conversazioni sono inevitabilmente posizionate: noi siamo entrambe – tra le altre cose – bianche, abili, cis, o percepite come tali, e magre. Che ci piaccia o meno, i nostri punti di vista sono orientati da queste qualifiche. Ed è chiaro che nella maggior parte dei casi ci ritroviamo in gruppi dove la norma è qualcosa di simile a noi. Così come le nostre relazioni non si limitano a queste definizioni privilegiate, noi siamo comunque testimoni di esperienze diverse dellɜ nostrɜ amichɜ e amanti, anche se non ne abbiamo esperienza diretta. Quindi per forza di cose questo testo avrà delle mancanze, a seconda dell’esperienza vissuta da ogni lettrice. Comunque, osiamo sperare che prendere nota delle nostre sofferenze e i nostri punti di vista ci permetta di condividere le nostre riflessioni e venire contraddette, e che tutto ciò si possa inscrivere da qualche parte, nel contesto dell’attivismo di Bruxelles.

Lili PJ e Marge
Bruxelles, giugno 2020

Una conversazione

Marge: Abbiamo iniziato la nostra conversazione in modo molto semplice. Con Lili PJ – un’alleata fedele durante questa separazione con la comunità che mi ha molto scossa negli ultimi anni – che mi ha chiesto “perché te ne sei andata, che cosa ti sei lasciata alle spalle e perché?”

Mi stavo letteralmente lasciando morire a poco a poco, mentre continuavo a dare anima e corpo “per la causa”. Era come se fossi stata catturata da qualcosa di “più grande”. Forse dall’idea di costruire alla fine un mondo in cui non avremmo più sofferto – o sofferto un po’ meno.

All’inizio la domanda ha come rigirato un coltello in una piaga – nell’impressione dolorosa e in qualche modo vergognosa che non ero riuscita a lasciare un collettivo che mi stava soffocando e consumando da dentro. Mi stavo letteralmente lasciando morire a poco a poco, mentre continuavo a dare anima e corpo “per la causa”. Era come se fossi stata catturata da qualcosa di “più grande”. Forse dall’idea di costruire alla fine un mondo in cui non avremmo più sofferto – o sofferto un po’ meno. Per creare una famiglia, o anche un sentimento aleatorio di qualcosa simile. Per fare giustizia. Un motore che bruciasse l’odio, le sofferenze di ognuna e quelle di coloro che avevano avuto meno opportunità e privilegi di noi. Allora vedevo la teoria – vale a dire, quei valori con cui sulla carta avremmo dovuto lottare (autocontrollo, auto-sostegno, anti-autoritarismo, la creazione di spazi protetti, orizzontalità e femminismi e via dicendo) per ottenere certi diritti, per combattere la violenza – anche se non mi ero accorta che per altre persone ci fossero altri aspetti in ballo: giochi di potere, secondi fini e ruoli prestabiliti.

Ero diventata un’impiegata. Le dinamiche di potere si erano instaurante in fretta, e la precarietà dell’organizzazione era un terreno fertile per gli abusi. Una dinamica violenta prese progressivamente piede. Prima occasionalmente, poi più spesso, ogni tanto, e poi sempre di più, fino a diventare la regola, continuando a degenerare. Era come una palude. Avrei dovuto essere fatta fuori, per uscire da questa macchina, per essere in grado, ad esempio, di verbalizzare queste dinamiche intrinseche – impercettibili se non si fa lo sforzo di spacchettarle – in cui ci sono due o tre figure dominanti, e lɜ altrɜ svaniscono appresso a loro, vivono nella loro ombra. Chiunque rompa questa dinamica – per diversità caratteriale, comportamentale o identitaria – viene consideratə assolutamente deleterio.

Se nessunə fosse in grado di cogliere i segnali (messaggi impliciti, bullismo, silenzio e isolamento), ci si ritroverebbe a poco a poco messɜ da parte. Lɜ leader rimangono al loro posto o proseguono la loro scalata sociale, nella loro torre blindata, fino a che lɜ altrɜ non vengano schiacciatɜ. Io non avevo colto niente di tutto ciò. Provavo ad esprimermi, e a proteggermi il più possibile. Poi c’era questa dinamica piuttosto triste che subivo mio malgrado: più venivo schiacciata, più mi mettevo in gioco. Siccome non riuscivo a dire di no, alla fine dicevo sempre di sì sorridendo. Avevo paura. Come se non avessi nessun altro posto dove andare, come se altrimenti sarei finita in un abisso o scomparsa, come se l’unico modo di sopravvivere fosse sacrificarmi per la causa. Non volevo lasciare andare niente, avevo dato così tanto e sperato così forte, che alla fine questo era tutto ciò che avevo.

Sentivo che non andava bene per niente, che stavo soffrendo. Non dormivo più, mangiavo poco, e stavo rinunciando a tutti gli altri impegni. Forse ero veramente pazza come pensavano loro. Ero debole. Ma non avrei mai pensato di andarmene. Potevano trattarmi nel modo peggiore, umiliarmi, per ingannarmi e poi abbandonarmi, mettermi le altre contro, ostracizzare le mie iniziative, mettermi a tacere, farmi causa, e comunque mi sentivo di vivere nel terrore. Avevo dato così tanto, che ne sarebbe stato di me senza tutto ciò?

Moltɜ di noi cercano di costruirsi un’identità validandola con l’attivismo – in cui a volte la comunità sembra essere quasi una facciata, un modo di raggiungere una qualche forma di celebrità.

Com’era prevedibile, è tutto finito in un incubo, e io mi porterò sempre dentro questa storia. Ero molto arrabbiata con me stessa, e talvolta lo sono ancora, per non essere stata in grado di andarmene. L’altra sera però ho raccontato alla miə carə amicə/alleatə/amante di questa frustrazione, di non essere stata capace di andare via, che mi faceva ancora male, e ləi mi ha offerto un’altra versione, un punto di vista diverso, meno vittimista: «tu hai rinunciato al ruolo che ti era stato affibbiato, che ti avevano assegnato loro. Il ruolo di quella che non contesta, che segue il gruppo e il capo. Tu l’hai rifiutato e hai continuato a tenerlo alla larga. Non potevano sopportarlo, e sono loro che hanno lasciato te.»

Lili PJ mi ha parlato di ruoli nei collettivi. Abbiamo parlato di ruoli autorizzati e non, nei vari “teatri attivisti” e queer (un’espressione che ho scoperto nel lavoro di Kai Cheng Thom), ma abbiamo parlato anche di quei ruoli che dipendono dalle norme implicite di ogni gruppo (questa riflessione è legata alla mia lettura di Starhawk); di come altre forme di autorità sono imposte attraverso codici anti-autoritari; come moltɜ di noi cercano di costruirsi un’identità validandola con l’attivismo – in cui a volte la comunità sembra essere quasi una facciata, un modo di raggiungere una qualche forma di celebrità – e poi chi siamo davvero dietro i nostri ruoli da attivistɜ? Siamo capaci di essere “Altro” e moltɜ? Come ci perdiamo nella retorica politicizzata della giustizia sociale senza rivelare troppo di noi stessɜ – con tutte le contraddizioni e sfumature – alla comunità a cui apparteniamo?

Parlare di ruoli, di norme, dei diversi tipi di potere che prende forme differenti in ognuno dei vari gruppi, del divario di privilegi in gioco, è un modo di affrontare più contesti in cui emerge la nostra sofferenza. Perché è così difficile gestire il conflitto? Che cosa mettiamo in discussione, sul piano dell’identità, quando mettiamo a confronto i nostri rispettivi traumi, parlando di fragilità e dei possibili rischi, quando consideriamo i pericoli che corre un individuo che esce da un gruppo? Rinunciare al gruppo significa abbandonare una strategia di sopravvivenza, un modo di vivere. Essere capaci di andarsene significa avere altre risorse per non rischiare il baratro.

Lili PJ: Inizierò raccontando un po’ il contesto.

Studio astrologia. Oggi Mercurio è retrogrado in Gemelli, e Giove è entrato in Ariete, quindi è un buon momento per rileggere e completare la prima stesura di questo testo.

Sono di nazionalità francese, bianca, lesbica, queer, e mi assumo la responsabilità di rendere ben chiara la mia identità prima di parlare di certi argomenti. Sono abile e ho un permesso di residenza in Belgio che cita “accesso illimitato al lavoro”.

Non mi piace dover lavorare ad orari prestabiliti, non mi piace la polizia né mi piacciono i governi autoritari, e nemmeno il rumore delle auto.

Vivo in centro a Bruxelles, ho un lavoro retribuito con orari fissi, e faccio volontariato in diversi collettivi socioculturali queer.

Mi piace la gente, ma non tutti i giorni.

Credo che le stelle ci dicano delle cose, e che i nostri sensi colgano solo una porzione infinitesimale dell’universo.

Che cosa dice di me tutto questo?

So che le “politiche identitarie” sono destinate a fallire se non vengono usate come mezzo d’emancipazione e di sviluppo creativo. Sam Bourcier, intervistato da Laura Dasinières per la rivista svizzera queer 360° dice «più che altro, le strategie individuali hanno soppiantato ogni idea di comunità. Sui social network questo crea una politica identitaria che tende all’esistenzialismo, ed è una politica della visibilità. Lɜ femministɜ LGBTQIA+ si mostrano come individui vulnerabili. Quindi, stiamo andando verso un individualismo da “wee-wee”. Il risultato è un’agenda politica che è destinata a rimanere incompiuta, che si lamenta ma che quasi sempre fallisce, così come le azioni se sono minime ed essenzialiste.»

Le famiglie che scegliamo diventano campi di battaglia simili a quelli che abbiamo lasciato – della famiglia biologica.

Non mi ricordo da chi ho sentito dire una volta che una delle strategie della polizia era quella di aspettare abbastanza, tanto sarebbe scoppiata una lite interna ancor prima che arrivassero loro. Non siamo utili a nessunə se caghiamo sui piedi della comunità, nemmeno a noi stessɜ.

Non si riesce a parlare nel modo giusto, a fare le cose come si deve, nell’avaria dell’attivismo, della comunità e della queerness. Fallimento e rabbia, fallimento e conflitto.

Proviamo, facciamo errori, impariamo, e reinventiamo. Facciamolo con amore (#NoHippy).

Tante volte ho visto scagliare strumenti per l’analisi politica contro di noi, come se fossero munizioni.

Quando le famiglie che scegliamo diventano campi di battaglia simili a quelli che abbiamo lasciato – della famiglia biologica.

In qualche espressione mi piacerebbe rimpiazzare essere con avere (questo penso di averlo sentito all’Habibitch, alla conferenza sulla decolonizzazione del dancefloor, e che fosse a sua volta citato dal podcast kiffe ta race) – quindi non dire che si è abilista, razzista, grassofobicə, ma piuttosto che si ha avuto un commento o un comportamento che era abilista, razzista o grassofobico.

Essere fissa le cose mentre avere permette un’evoluzione.

Quando abbiamo iniziato questa conversazione, alcunɜ se ne stavano andando dai collettivi di cui facevo parte.

Era nell’aria da qualche mese: conflitti irrisolti, aspettative non rispettate, e bisogni non soddisfatti.

Questa è una mia interpretazione, non parole loro.

Le frustrazioni sono spesso legate a una mancanza di riconoscimento. Come possiamo offrirci questo riconoscimento, l’unə con l’altrə? Quando troviamo del tempo per dirci a vicenda: “per me essere vistə significa…”

Penso che dal lato del collettivo, ci sono state mancanze rispetto all’ascolto, al supporto offerto collettivamente per i bisogni espressi. Inoltre, siccome siamo statɜ sottopostɜ a ritmi e vincoli dettati dalla produttività – l’organizzazione di eventi, far muovere la macchina, perché è così che funziona.

Oltre ad oppormi a certi sistemi di riproduzione della violenza che insistono sulle nostre vite, siamo su un campo condizionato. Quando i nostri desideri di sovversione si svelano troppo in fretta, e a volte ci dimentichiamo di fare spazio per le cose a cui aspiriamo.

Ad esempio, io aspiro ad una vita che rispetti un mio ritmo.

Quando si va di corsa come se ci fosse sempre uno stato d’emergenza, si fa fatica, ci si esaurisce e si finisce per crollare lungo la strada. L’esaurimento nervoso dell’attivista o qualcosa del genere – quando mi hai detto “hai letto La magie du burn-out? Quel testo è stato fondamentale quando dormivo venti ore al giorno.”

È stato come se avessimo dimenticato altre cose importanti, o le avessimo declassate. Il lavoro emotivo, come si dice – che ci permette di pensare con calma, gentilezza e intelligenza alle dinamiche, alle modalità operative e ai nostri bisogni. Ascoltare. Far passare il tempo. Mettere l’essere sullo stesso piano del fare.

Dal punto di vista astrologico, la fine del mondo sarà nel 2025. Mi dicono tuttɜ che è molto lontano. Io non credo, magari significa farla finita con secoli di rozza balbuzie.

A seguito di queste separazioni, volevo far partire un progetto collettivo sui ruoli che rivestiamo e sul nostro bisogno di riconoscimento – i ruoli che ci assegnamo, e quelli che ci vengono assegnati, e ciò che io ho percepito come una mancanza di chiarezza.

Mi pare d’intendere che le frustrazioni sono spesso legate a una mancanza di riconoscimento. Come possiamo offrirci questo riconoscimento, l’unə con l’altrə? Quando troviamo del tempo per dirci a vicenda: “per me essere vistə significa…”

Per cosa siamo ben notɜ? Ci chiediamo spesso, fino a che non impariamo ad amare noi stessɜ per il semplice fatto che esistiamo. Perché vogliamo essere vistɜ? Come impariamo a notare le forme differenti che questo riconoscimento prende nel modo di essere di ognunə? Io ho Venere in Leone, sestile con Mercurio in Gemelli. Per forza di cose ti dirò che sei bellə, divertente, intelligente. Ci sono quellɜ che ti portano una torta. Altrɜ ti sistemano la bici. Ci sono molti modi di ascoltarsi e vedersi a vicenda.

A volte non sappiamo come comportarci, perché siamo stanchɜ, perché non siamo alla pari nel conflitto, perché non abbiamo le parole, perché non abbiamo abbastanza fiducia, perché non abbiamo altra scelta. Perché non siamo sicurɜ che valga la pena di sforzarsi di decostruire.

Ti faccio un esempio: io mi vedo come una persona gioiosa a cui piace la leggerezza. Mi sento spesso gioviale e allegra. A volte pretendo di esserlo, o mi presento come tale, anche se non mi va e non ho le energie – come se fosse un ruolo. Anche perché penso che questo sia il motivo per cui sono amata ed apprezzata. Perché vengo vista in questo modo, e a volte rispondo a questa proiezione in maniera automatica. Perché sono abituata così, per pura preservazione.

Tu mi hai risposto con una citazione di Lao Tzu che apre un capitolo del libro Emergent Strategy: Shaping Change, Changing Worlds di Adrienne Maree Brown: «Parla con qualcunə come se non ti fidassi e diventerà inaffidabile.»

Ho fatto altri esempi di posizioni intrinseche di un modo che non è sempre comodo né desiderabile.

Quelli che sono stati i fattori trainanti, le figure autoritarie, e le persone con risorse per la cura, e via dicendo.

È tutto lo spettro delle nostre qualità che dà colore alle nostre re-invenzioni. Mi è capitato di vedere un disegno dei diversi tipo di guerrierɜ (anche se preferisco chiamarli creatorɜ) di cui abbiamo bisogno per far fiorire le nostre comunità – e, in generale, il mondo.

Abbiamo bisogno dellɜ introversɜ e dellɜ chiacchierone, dellɜ spensieratɜ e di quellɜ seriɜ – ci servono tutte le sfumature. Abbiamo bisogno di spazio per ballare sui fantasmi del nostro passato, per poterci permettere di viaggiare da una fine all’altra, secondo i nostri stati d’animo e la risonanza con i bisogni del momento.

Noi gravitiamo attorno a circoli che rivendicano la fluidità dell’identità come un riconoscimento alla vita, fonte di felicità e lotta politica.

Che cosa significa convivere con violenza, rifiuto, ferite profonde, o traumi, tutto all’interno di gruppi dove pensavo di trovare rifugio, ripararmi, crescere e restare?

Credo che per sorpassare le nostre abitudini limitate e limitanti, e dovremmo essere in grado di formulare i ruoli che pensiamo di avere, per ribaltarli e scambiarli.

Quei ruoli che ci fanno stare bene. Le aspettative che implicano, e le responsabilità. I ruoli che vogliamo poter prendere ad intermittenza – la drag room dei nostri statuti comunitari.

Scambiamoci i copricapi che portiamo! Se ti piace essere un direttorə, se sei portatə, se sei riuscitə a formulare un accordo esplicito su questa energia insieme allɜ altrɜ, allora perché no, vestire i panni del boss per un giorno o una settimana (con una parola chiave che possa farti riaggiustare il tiro nel caso di abuso). La settimana dopo, il mantello del moderatore dell’assemblea generale, poi il cappello dell’asino della commissione, poi gli occhiali del commercialista, e la tuta dell’hobbista tuttofare, e lo strap-on dellə casalingə della comunità.

Potresti essere molto bravə a fare una cosa e essere contentə di farla. Evviva! E ricordiamoci il potenziale della rotazione delle attività (sì, penso proprio a te) che possono sempre rivelare delle competenze, per scambiarsi conoscenze e poteri, ad esempio, evitando ciò di cui parlavamo prima: slanci individualistici e celebritismi.

Il celebritismo è un concetto di cui mi hai parlato tu, dal libro I Hope We Choose Love: A Trans Girl’s Notes from the End of the World di Kai Cheng Thom, «In assenza di leader formali, dalla cultura della giustizia sociale è scaturito un sistema di micro-celebrità […] nascoste tra le gerarchie del movimento […] ed è ancora più inquietante che la celebrity-culture ci incoraggi a considerare il valore delle persone, il loro diritto alle risorse e all’inclusione sociale, come contingente alla loro abilità produttiva.»

Quando usiamo il nostro prestigio, il nostro ruolo di attivistɜ per valorizzare un individuo, mi chiedo se non si confonda la posizione con la persona. Di nuovo, la questione riaffiora, a chi e a che cosa serviamo? Quando questa “stima” viene usata per guadagnarsi del capitale sociale o economico e potere, ma non viene più usata a servizio delle lotte e delle persone e dei loro strumenti, che sono stati espropriati; finiamo per vederlo come un vecchio inganno o un triste fallimento. Ma se questa celebrità, con la sua forza che viene dal pubblico che la segue, continuasse il suo lavoro al servizio dei bisogni da cui è emersa, se portasse a compimento la sua funzione e usasse il suo potere con la consapevolezza di averne – sarebbe bene sia per coloro che lo investono che per quellɜ che non lo vogliono e ricoprono altri ruoli. Non ci metteremmo la toga da giudice (nemmeno) per far vergognare coloro che fanno soldi e like (ma a dir la verità non ce la metteremmo per nessun motivo, che posizione tediosa).

Ma come funziona? “Come si fa con le restrizioni?” Mi chiedi.

Giù la maschera: autorità in incognito.

Ti stavo parlando di un collettivo che volevo lasciare, in particolare per mio fastidio, o per la mia mancanza di controllo di fronte a “personalità autoritarie, ma da una posizione “wuuush” (fischio del vento) di autorità, un’autorità dal basso.”

Tu hai parlato della metafora del mezzo-coniglio mezzo-lupo che agisce come tale “siccome siamo anti-autoritariɜ, lo diremo in modo anti-autoritario, ma ecco che finiamo per essere autoritariɜ.”

A volte, questo succede per pregiudizi maternalistici – “questo è il modo migliore di farlo / pratica_femminista_convalidata©.”

I discorsi dominanti che emergono da posizione gerarchiche – più senior, più attivɜ, più comodɜ con le parole, + + +

Dobbiamo essere in grado di confrontarci con questi meccanismi.

Come si può condividere l’esperienza attraverso una comunicazione che non implichi prevaricazione?

E ancora: su chi proiettiamo il nostro potere?

A volte non sappiamo come comportarci, perché siamo stanchɜ, perché non siamo alla pari nel conflitto, perché non abbiamo le parole, perché non abbiamo abbastanza fiducia, perché non abbiamo altra scelta. Perché non siamo sicurɜ che valga la pena di sforzarsi di decostruire.

Forse è per questo che ce ne andiamo. Quando l’equazione non torna.

Investimento di energie + impegno > creazione di adempimento + felicità

Marge: per cercare di capire che cosa fosse realmente successo, ne ho parlato per un po’ con un nodo alla gola, senza neanche riuscire a dire tutto. Poi mi sono aperta. Per capirci qualcosa, ho letto e ascoltato storie di altrɜ, storie che sembravano simili. Che cosa significa convivere con violenza, rifiuto, ferite profonde, o traumi, tutto all’interno di gruppi dove pensavo di trovare rifugio, ripararmi, crescere e restare? Ho scritto un articolo sulle diverse articolazioni della violenza all’interno della nostra comunità, intervistando attivistɜ queer di Bruxelles e alcunɜ di altrove.

Attraverso tutte queste esperienze vissute e ciò che leggevo (una lista di letture segue alla fine di questo testo), c’è sostanzialmente molto da dire sul perché è così difficile andarsene. Ci sono vulnerabilità che sono tutte peculiari all’attivismo di comunità e che rendono l’abbandono, e perfino tentare o immaginare di andarsene, impossibile, inaccessibile e troppo rischioso per la nostra integrità fisica e psicologica.

È come se volessimo un mondo postumo alla sofferenza, senza aver imparato ad affrontarla insieme. Le dinamiche relazionali dell’attivismo sono come le nostre storie d’amore: complicate, ferite, complesse, stimolanti e vitali ma anche, a volte, violente e traumatiche.

Quando entriamo a far parte di un gruppo che sembra essere fatto di persone come noi, forse finalmente troviamo un posto per noi stessɜ per la prima volta. Questo gruppo diventa attivo, facciamo molte cose, e forse finalmente sentiamo di aver trovato un senso, di essere significativɜ in qualche modo, con quelle persone per le quali volevamo essere utili. Abbiamo uno scopo, un ruolo e ci sentiamo bene. Ci salva la vita.

Ma quando le cose si complicano, quando il disaccordo si accumula, anche il silenzio cresce. Quando diamo tutto – viviamo, facciamo l’amore e sudiamo con il filtro di questo ruolo. Per andare avanti. Per non pensare alle ferite del passato. Per non pensare troppo a noi stessɜ, ma solo e soltanto a noi in quel contesto. Perché funzionava, perché ci sentivamo al sicuro, perché se non altro sapevamo come farlo.

E poi diventa complicato bisticciare, perché tira fuori tutte le nostre ferite passate. I nostri legami, gli abbandoni, e tutto il resto. Non sappiamo come fare. Ci spaventa troppo perdere quel che abbiamo conquistato. Se mi capita di litigare con qualcunə, non siamo in grado di tornare indietro, e forse mi troverò qualcun altrə contro. Ho paura che si parli male di me. Non posso rischiare un altro rifiuto.

L’altrə che si permette di contraddirmi, mi attacca. Come si permettono di rimettere tutto in discussione dopo che ho speso tutta una vita ad essere fiera di me per quello che sono? Non si può fare. Mettersi in discussione, dubitare dellɜ altrɜ, lasciar perdere, o avere l’audacia di prendersi lo spazio per il quale i nostri genitori ci hanno abbandonato quando eravamo bambinɜ, un posto che dichiara i limiti, che afferma “no, tu mi fai del male quando mi dici queste cose”, che dice “non ci lasciamo andare, proviamo a capire che succede senza esagerare”, per vedere gli specchi nelle ferite e in ogni attacco. Per vedere la vergogna che ci è stata inculcata mettersi in mezzo; questa vergogna che ci fa sentire deviate, spaventate, e che rende tutto troppo rischioso.

Tutto questo. Fa sembrare l’andarsene troppo, troppo rischioso, o troppo radicale. Come se le uniche soluzioni fossero levarsi via tutto come un cerotto, in un soffio, senza guardarsi indietro. Oppure il ghosting – spendere momenti di piacere senza riuscire davvero a costruire nulla. Come alternativa all’“andare via”, al posto delle parole, per la difficoltà di esprimersi e smettere di volersi bene. È come se volessimo un mondo postumo alla sofferenza, senza aver imparato ad affrontarla insieme. Le dinamiche relazionali dell’attivismo sono come le nostre storie d’amore: complicate, ferite, complesse, stimolanti e vitali ma anche, a volte, violente e traumatiche.

Con Lili PJ ci siamo dette che non è stato facile lasciare andare, che volevamo che fosse “per sempre”, che le cose cambiassero e si evolvessero, che potessimo decidere ogni volta come sarebbe andata la volta dopo, che avremmo deciso di scriverci lettere di addio, o di tenere cerimonie d’addio di passaggio, in cui nominiamo le parti dell’altrə che vogliamo rimangano con noi, e quelle che lasciamo per sempre all’altrə.

Lili PJ: Sedersi vicino all’altrə e sapersi ascoltare: sto bene qui?

Tu hai detto che “a volte rimani per tutto quello che hai investito. La metafora della macchinetta automatica: metti 1€ per una bibita che non esce, ne metti un altro e non scende niente, ma ne metti un altro ancora perché ci hai già buttato 2€ e via dicendo. Insisti per quello che hai già speso, non per la bibita.”

A che cosa s’attaccano i nostri legami?

“Se lasciassi andare tutto quello su cui hai investito, che ti rimane? Mettiamo così tanta speranza in un progetto…” così tanta speranza in una storia e in proiezioni di futuri possibili.

Andarsene come un atto di auto-riconoscimento, andarsene come possibilità: fare spazio a ciò che vogliamo, quello che amiamo, e chi siamo veramente.

Siamo condizionate dall’idea che “andarsene sia un fallimento” o che “ andarsene sia una sofferenza”.

È difficile rinunciare alla nostra identità, o a una bibita fresca.

Non sono abituata a pensare che “andarsene” sia una cosa positiva o tantomeno neutrale.

Andarsene per diletto, andarsene per scelta. Andarsene per librarsi in volo.

Andarsene come un atto di auto-riconoscimento, andarsene come possibilità: fare spazio a ciò che vogliamo, quello che amiamo, e chi siamo veramente.

Andarsene perché non ci sta più bene. Fare la muta.

Saper dire di no per dire “sì” sinceri, come mi hai detto tu.

Siamo rimaste tutte e due deluse da come avevamo idealizzato le nostre comunità. E questo è un bene.

Non so tu, ma a me è servito ad aprirmi.

Le comunità collettive mi hanno dato molto e voglio ancora esistere e fare all’interno di “famiglie” ma voglio estendere le connessioni a coloro con cui normalmente non avrei avuto così tante cose in comune. Eppure…

Modi di andarsene.

A coloro che se ne sono andatɜ.

Quando ce ne andiamo senza dire niente, lasciamo lɜ altrɜ nel buio. A volte è così che deve andare. Nessun giudizio.

Me ne sono andata dicendo che mi serviva una pausa. E non sono ancora tornata. Una porta aperta.

Me ne sono andata sbattendo la porta, e sono tornata.

Me ne sono andata quando sono andata a vivere da un’altra parte.

Me ne sono andata scrivendo delle lettere.

Diverse volte sarei voluta andare via mentre ero in vacanza.

(Buffo, mi sono dimenticata: e sono stata lasciata. Lasciata per telefono. Lasciata in una discussione con delle conclusioni che non avevo colto. Lasciata per omissione. Essere “lasciata”: azioni concomitanti).

Oggi, penso che ciò che desideravo fosse un rituale, una cerimonia. Vorrei avere cerimonie di addio, quando ci lasciamo, insieme.

Parlando, abbiamo trovato tante cose in comune con le nostre storie d’amore. Ti ho detto dei miei goffi tentativi di andarmene mentre ero in viaggio. La prima volta volevo lasciare qualcunə, eravamo in vacanza insieme e ho pensato bene di comunicarlə all’inizio del viaggio che tra di noi sarebbe finita al rientro. Bene, atmosfera rilassata. Avevo diciotto anni.

La seconda volta avevo litigato con lə miə compagnə prima di andare al mare. Le ho suggerito di andare lo stesso, di lasciarci lì, in riva al mare. Ləi non ha gradito l’idea, e siamo rimastɜ insieme, con i piedi nell’acqua.

Tu mi hai chiesto “perché volevi rompere per la via? Perché ti faceva sentire meglio? Perché ti sei resa conto che sarebbe stato doloroso e che fosse un modo di supportarsi a vicenda mentre vi stavate lasciando?”

Sì, penso che ci sia qualcosa nell’idea di supportarsi a vicenda, ma anche nell’idea di rompere con un tipo di relazione e tenerne un’altra, trasformandola. E affrontando la trasformazione insieme.

Oggi, penso che ciò che desideravo fosse un rituale, una cerimonia. Vorrei avere cerimonie di addio, quando ci lasciamo, insieme.

Dare un nome a quello che ci siamo datɜ a vicenda, perché ci siamo amatɜ. Ricordare i bei momenti. Parlare di dove ci separiamo. Dandoci qualcosa a vicenda. Baciandoci per l’ultima volta mentre ci si lascia andare.

Due letture di tarocchi

Abbiamo finito questo processo come previsto – con due letture di tarocchi. Quattro carte ognunə: 1. Che risorse ho a mia disposizione per andarmene? 2. Che cosa mi mette in difficoltà quando decido di andarmene? 3. Se me ne vado cosa guadagno? 4. Come affronto la sofferenza?

Puoi andare: scegli tra il primo e il secondo sorteggio e leggi – dimmi se ti torna.

Abbiamo usato il Next World Tarot di Cristy C. Road e Thea’s Tarot di Ruth West. Il primo è stato realizzato alla fine del 2010 da unə cubanə americanə queer, e l’altro da una lesbica bianca statunitense nel 1980.

Cristy C. Road ha scritto su ogni carta. Oliver Pickle ha scritto un libro nel 2015 che s’intitola She Is Sitting in the Night: Re-Visioning Thea’s Tarot. Abbiamo usato le parole di Cristy e Oliver nelle citazioni che seguono. Nelle citazioni abbiamo usato un linguaggio inclusivo che originariamente non c’era.

Primo sorteggio

         Le risorse: il cinque di spade

La saggezza nel scegliere le tue battaglie. «Un simbolo di resistenza. [Questa carta] è potente. Il cinque di spade è l’atto di credere in una giusta causa mentre lɜ tuɜ cospiratorɜ superiorɜ o presuntɜ alleatɜ si alleano con l’altro lato per motivi di potere. Il cinque di spade ti chiede di mettere in dubbio la stabilità così da trovare delle garanzie.»

         La difficoltà: la Forza

Giochi di potere. Pensare che «resistere è essere forti.»

         L’input: fante di bastoni 

Un nuovo inizio, un’aria fresca di desiderio. «Lə fante di bastoni ti ricorda che il tuo potere risiede nel profondo del tuo inconscio. Il trauma chiude tutto come una botola senza chiave, fino a che un’idea, una creazione, un gesto gentile o di resilienza porta te e la tua comunità a combattere, imparare e perseverare insieme. Sei coraggiosə. Sei prontə alla sfida. Presto conoscerai l’intensità della tua magia.»

         Il dolore: il due di spade

Impara a proteggerti. «Si sta aprendo uno spazio opulento per l’auto-preservazione e la comprensione. Questa carta richiede d’imparare seguendo il tuo andamento, diffondere le tue scoperte nell’etere e essere clemente con te stessə.»

Tra il mare e la terra, trova uno spazio dove la tua vulnerabilità può aprirsi. Lo spazio per accogliere le tue paure e desideri. Lo spazio dove puoi far accomodare la tenerezza. Se non è qui, continua il tuo viaggio verso la luce di questa impresa. La cosa più importante è che questo spazio venga costruito dentro di te.

Sommario del sorteggio

Affinché tu conosca la tua forza: ritirati da battaglie senza vittorie, vincitorɜ, né limiti. Decidi il tuo limite e vagli incontro con la curiosità della scoperta.

Scegli il tuo percorso tra territori che ti entusiasmano.

Per trovare l’equilibrio con i tuoi impulsi: falli scorrere dalle tue fondamenta.

I poteri rilasciati cresceranno più morbidi e consistenti.

Secondo sorteggio

         Le risorse: lɜ amanti

Scegli le strade che ti portano soddisfazione, e tutto diventerà più facile. «L’unità che la relazione [la carta] ti spinge a perseguire esiste dentro di te, per trovare pace e compromessi […] dove la passione e la ragione sono un’unica cosa.» «Ti ricorda di prenderti la responsabilità per le scelte compiute, siano esse razionali, passionali, rischiose, ristrette o quel che sia.»

         La difficoltà: amazzone di coppe

Romanticismo idealizzato. «Potresti semplicemente essere motivatə dal desiderio di scappare dalla profusione di dolore nel mondo. Se sei statə guidatə dalla fantasia verso la tua stessa distruzione o dissoluzione, tieni duro! Bevi meno e lavora di più.»

         Il contributo: figliə di denari

Fiducia in te stessə, nella tua abilità di creare abbondanza. Calma e serenità nel tuo corpo e ambiente. L’opulenza che condividiamo.

         Il dolore: l’eremita

Un tempo per la ricerca e l’osservazione. Andare dentro per cercare la luce e la saggezza per illuminarti e irradiare.

Sommario del sorteggio

Tra il mare e la terra, trova uno spazio dove la tua vulnerabilità può aprirsi. Lo spazio per accogliere le tue paure e desideri. Lo spazio dove puoi far accomodare la tenerezza. Se non è qui, continua il tuo viaggio verso la luce di questa impresa. La cosa più importante è che questo spazio venga costruito dentro di te.

Una lista di nostre letture

Le nostre riflessioni si sono costruite grazie a quelle di altrɜ che hanno studiato questi argomenti prima di noi, e i nostri pensieri sono stati direttamente inspirati da loro. Qui di seguito alcune letture che ci hanno aiutato a capire e a trovare le parole giuste:

Audre Lorde. Sister Outsider. USA: The Crossing Press, 1984.

Adrienne Maree Brown. Emergent Strategy: Shaping Change, Changing Worlds. Stirling: AK Press, 2017.

Kai Cheng Thom, “8 Steps Toward Building Indispensability (Instead of Disposability) Culture” in The Village magazine, 2016. 

Kai Cheng Thom. I Hope We Choose Love: A Trans Girl’s Notes from the End of the World. Vancouver: Arsenal Pulp Press, 2019.

Kai Cheng Thom, “Why Are Queer People So Mean to Each Other?” in Xtra magazine, 16 August 2019.

Laure Dasinières. “Sam Bourcier: Les militant-e-s virent vers l’individualisme et le ‘ouin ouin’” in 360°: Le magazine queer suisse, 5 May 2022.

Lily Zalzett and Stella Fihn. Te plains pas, c’est pas l’usine: l’exploitation en milieu associatif. Le Mas d’Azil: Niet!éditions, 2020.

Lisette Lombe. La magie du burn-out. Bastogne : Image publique éditions, 2017.

Marie Dasylva. “Partir or not : Le dilemme de Sabrina” in the podcast Better Call Marie, 20 mai 2020. 

Marie-France Hirigoyen. Le harcèlement moral dans la vie professionnelle. Paris: Pocket, 2002.

Marie Semelin. “Faut-il souffrir pour faire les bien?” in the podcast Travail (en cours) de Louie Media, 2021. 

Pascal Chabot. Global Burnout. London: Bloomsbury, 201ɜ.

Pascale Jamoulle. Je n’existais plus. Les mondes de l’emprise et de la déprise. Paris : La Découverte, 2021.

Rokhaya Diallo and Grace Ly. Podcast kiffe ta race

Sarah Schulman. Conflict Is Not Abuse: Overstating Harm, Community Responsibility, and the Duty of Repair. Vancouver: Arsenal Pulp Press, 2017.

Starhawk. The Empowerment Manual: A Guide for Collaborative Groups. Gabriola: New Society Publishers, 2011.

Postfazione

Care Lili PJ e Marge,

La vostra conversazione s’intitola “Come ce ne andiamo via?” – la domanda a cui cerchiamo una risposta da quando vi ho invitate a scrivere questo testo sei mesi fa, a gennaio del 2022. Grazie per aver accettato.

Che cosa diciamo quando ce ne andiamo?

La proiezione di questo testo inizia all’intersezione di due miei impegni: da un lato, una serie di conversazioni tra miɜ collaboratorɜ per un progetto di ricerca artistico-sperimentale che elabora procedure per la realizzazione di progetti artistici e per la salute della comunità transfrociabilesbica, che non si appropriano di ma cooperano con l’attivismo radicale. Portiamo avanti questa ricerca in collaborazione con erg: l’accademia école de recherche graphique di Bruxelles e con il supporto del Fonds de la Recherche en Art in Belgio. Pensando a progetti artistici e per la salute della comunità transfrociabilesbica, abbiamo provato a rispondere alla domanda: che procedure scegliamo per trasmettere saperi transfrocibilesbici? La vostra è la seconda conversazione, pubblicata a seguito di una che io e Fátima Masoud Salazar abbiamo intitolato “Alle nostrɜ amichɜ in terapia” che è uscita sul sito del Kaaitheater nel 2021.

Ora tocca a me presentarmi. Sono una frocia radicale cis bianca, vengo da Castilla-La Mancha. Undici anni fa mi sono trasferito a Bruxelles. Poco prima ho ottenuto un diploma di educazione superiore a Madrid. In passato mi sono occupato di contabilità e curatela per produzioni artistiche no-profit. Oggi sono un artista che beneficia dei fondi statali per la ricerca artistica. La mia pratica artistica ha a che fare con l’amministrazione di assemblee transfrociebilesbiche, la scrittura e la performance. Collaboro con diversi processi legati alle arti e alla salute della comunità transfrociabilesbica.  

Inoltre, il progetto di questo testo è legato alla mia partecipazione nel gruppo di lavoro A Fair New Idea?!: Working Internationally in The Arts (“Una nuova buona idea?! Lavorare internazionalmente nelle arti”) organizzato dal Flanders Arts Institute di Bruxelles. Più precisamente, questo testo ha a che fare con il fatto che, da quel gruppo di lavoro, me ne sia andato. Durante il mio impegno di un anno con A Fair New Idea?! ho preso parte al sottogruppo che si occupava di “sostenibilità” da cui mi sono ritirato ad ottobre 2021. Quando me ne sono andato, ho deciso di esporre allɜ altrɜ partecipanti le motivazioni che mi avevano spinto verso questa decisione. Ho mandato questa mail:

«Ho deciso di far parte di questo gruppo per mettere in discussione il significato stesso di “sostenibilità.” Per metterlo in discussione dalla mia posizione di praticante nelle arti e attivismo queer. Una posizione che s’interseca con altre lotte. Ora capisco che questo non è un forum per questo tipo di lavoro. All’interno del gruppo, non voglio dover ricoprire l’incarico di rimarcare continuamente la necessità di mettere in discussione l’idea stessa di sostenibilità da un punto di vista politico che sia queer, anticapitalista e consapevole del colonialismo. D’altra parte, non voglio impedire al gruppo di riflettere sulla questione della sostenibilità nel modo in cui riguarda ognuno dellɜ partecipanti. Quindi, me ne vado dal gruppo.»

Dopo che me ne sono andato, il Flanders Arts Institute mi ha proposto di scrivere qualcosa sulla mia esperienza. Non ho intenzione di dare ulteriori spiegazioni: me ne sono andato.

Come me ne vado?

Accetto l’offerta del Flanders Arts Institute per pubblicare un testo sul distacco, come un’opportunità per aprire una conversazione pubblica a beneficio della comunità. Tra le persone transfrociebilesbiche e nel contesto della produzione artistica e teorica. Invito voi due, Lili PJ e Marge a scrivere questo testo.

Che cosa diciamo noi, transfrociebilesbiche, quando ce ne andiamo?

Castillo

Bruxelles, giugno 2022

Colophon

Come ce ne andiamo via, aprile 202ɜ

Titolo originale in francese:  “Comment quittons-nous?

Titolo della traduzione inglese: “How Do We Leave?

Scritto da Lili PJ and Marge

Copyediting del francese di Joëlle Bacchetta

Traduzione inglese dal francese di Raphaël Amahl Khouri

Traduzione dall’inglese all’italiano di Giulia Crispiani

Editing di Castillo

Prodotto e pubblicato in inglese e francese nel marzo 202ɜ dal Flanders Arts Institute all’interno del programma “A Fair New Idea?!”Pubblicato per la prima volta in italiano da Not.