Foto di Loup Caccia

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“Salute mentale”, psicofobia e attivismo: come distruggere il sanismo e rivendicare il diritto alla follia?

Dopo aver concluso una residenza all’interno del programma How to Live and Work Now? In the Arts and Beyond (“Come vivere e lavorare ora? Nelle arti e oltre”) al Kaaitheater di Bruxelles a febbraio 2021, abbiamo scritto questa composizione epistolare sulla nostra collaborazione in un progetto di ricerca artistica sperimentale e collaborativa sugli approcci collettivi queer alla riduzione del danno e all’azione del riunirsi. Il progetto è iniziato nel 2020, con un primo esercizio preparatorio tra Talya Cholet e Alberto al centro d’arte Komplot, sempre a Bruxelles. Per mettere insieme questa riflessione, siamo partitɜ da una serie di domande ricevute da Eva Decaesstecker dell’ufficio stampa e comunicazione del Kaaitheater. Per scrivere questo testo abbiamo portato avanti uno scambio di e-mail per molte settimane.

Nella corrispondenza che abbiamo condiviso con voi, dopo questa introduzione, abbiamo messo in pratica un esercizio di confluenza politica, artistica e discorsiva, oltre che un saggio sulla dissidenza. Lo scopo di questo testo è quello di avviare una concatenazione di domande che ci aiuti a continuare la condivisione di conoscenze tra di noi e con le persone che hanno lavorato al nostro fianco negli ultimi sei mesi, così come con lɜ futurɜ partecipanti a questo progetto di ricerca e con coloro che leggono questo testo. Il testo non è alla ricerca di conclusioni; piuttosto, tramite un saggio conversazionale, si propone di partecipare alla costruzione di una narrazione contronormativa in opposizione alle tecnologie psichiatriche e psicoterapeutiche di normalizzazione e ai modelli egemonici biomedici e biopsicosociali della “salute mentale”*.

* (Fino a che non troveremo un’espressione migliore, scriveremo “salute mentale” tra virgolette per esprimere i nostri dubbi sull’uso di questo termine. Anche nel caso in cui decidessimo di accettare la definizione dicotomica generale di salute come assenza di malattia, continueremmo ad affermare che né la follia, né la sofferenza psichiatrica sono malattie.)

Da Bruxelles, Madrid e Parigi immaginiamo, tramite una prospettiva folle e critica di “salute mentale”, un nuovo modello di riduzione del danno relativo alla “salute mentale” come strumento di costruzione di narrazioni che ci permettano in futuro, all’interno delle nostre comunità queer, di disertare la normalità del sistema cis-etero, capitalista, coloniale e patriarcale. 

Il lavoro che abbiamo portato avanti fino alla pubblicazione di questo testo ci ha permesso di cominciare a tessere alleanze politiche e artistiche con molte persone. Vogliamo ringraziarle per la loro solidarietà. La citazione di Talya è tratta da una serie di conversazioni tenutesi in Francia durante il primo esercizio preparatorio per questo progetto; queste conversazioni sono state trascritte da Héloïse Prax-Jacques. Abbiamo scritto questo testo in castigliano, e il collettivo Other Ways to Care si è occupato della traduzione in inglese. Il testo è accompagnato da una foto di Loup Caccia che ci ritrae a Bruxelles durante il nostro periodo di residenza al Kaaitheater. Joëlle Bacchetta ha scattato una foto di Talya e Alberto che non è riportata qui ma che è stata pubblicata da Komplot nel 2020. Ringraziamo anche John Rodríguez Forrest per aver letto la prima bozza di questo testo.

Alberto e Fátima
Bruxelles e Madrid, 2021

Alberto
Come ci siamo incontratɜ noi due?

Nel dicembre dello scorso anno, avevo appena completato un periodo di residenza con Talya. Avevamo portato avanti un esercizio preparatorio per il nostro progetto di ricerca. Ho conosciuto Talya nel 2011 a Marsiglia, durante l’UEEH (Universités d’Été Euroméditerranéennes des Homosexualités, “Università Estive Euromediterranee delle Omosessualità”). Un incontro autogestito di persone lesbiche, gay, bisessuali, trans, queer, intersessuali, asessuali, non binarie, GSD (Gender and Sexually Diverse People) e femministe che promuove lo scambio, la trasmissione e la condivisione dei saperi in uno spazio di vita e gestione collettiva. Nella primavera dello scorso anno, durante il primo periodo di lockdown in Europa dopo l’esplosione dell’epidemia** di covid 19, Talya e io abbiamo parlato spesso per telefono. Io ero ad Atene e Talya ad Amiens. Nell’autunno dello stesso anno, durante la nostra residenza, che ha coinciso con il secondo lockdown in Europa, abbiamo negoziato e immaginato insieme come vivere, sopravvivere, trasformare e convergere politicamente. 

** (Anche se è più comune usare il termine “pandemia” per parlare del covid 19, abbiamo scelto di usare “epidemia” in questo testo per sottolineare l’impatto impari che questo virus e le misure mediche, legali e politiche di contenimento hanno avuto e stanno avendo sulle persone e le comunità di classe, genere, etnia, sessualità differenti… all’interno dello stesso territorio e tra territori diversi. Utilizziamo covid 19 con la lettera minuscola come nome comune che non parla di una malattia ma di un’esperienza politica e sociale collettiva.)

Settimane dopo la mia residenza con Talya, ti ho scritto un’e-mail per invitarti a partecipare a un secondo esercizio preparatorio per lo stesso progetto, questa volta al Kaaitheater. Avevo seguito su internet la creazione dell’Orgullo Loco Madrid del 2018 a cui hai partecipato. La tua prospettiva queer sull’attivismo folle mi ha aiutato ad accedere a una narrazione politicizzata della mia sofferenza psichica e a connetterla con la mia partecipazione, dal 2009 in poi, all’attivismo e all’arte queer e ad altri spazi di condivisione dei saperi queer. 

Noi due ci siamo incontratɜ per la prima volta a Madrid nel 2008, e da quel momento ci siamo vistɜ ogni tanto al Nasti, un nightclub per “modernas” (froce alla moda) nel quartiere di Malasaña. Credo che l’ultima volta ci siamo vistɜ a un festival a Madrid nell’estate del 2017 o 2018. Tuttavia, non abbiamo condiviso uno spazio politico queer comunitario fino a che non ce lo siamo andatɜ a cercare lo scorso febbraio a Bruxelles. 

Stavo per iniziare con una domanda ma in realtà vorrei iniziare col ringraziarti per la settimana che abbiamo passato insieme a Bruxelles a febbraio e passarti la parola.

Fátima
Alberto, sono io a doverti ringraziare in realtà. Collaborare con te a questo progetto ha rappresentato per me un punto di svolta. Essere in grado di riunirci, viaggiare e andare in giro durante l’epidemia di covid 19, in un periodo in cui le riunioni si fanno su zoom e in cui è impossibile persino incontrare le persone dei collettivi di cui facciamo parte. Vorrei anche ringraziarti perché è stato così possibile portare il discorso dell’Orgullo Loco Madrid al di fuori dello Stato spagnolo e traslare la violenza che subiamo all’interno del sistema spagnolo di “salute mentale”, la patologizzazione e la violazione dei diritti umani nella pratica psichiatrica al contesto in cui si sviluppa questo progetto. 

Anni fa, quando eravamo al Nasti a divertirci e non avevamo ancora chiaro il nostro impegno nella militanza politica, non potevo immaginare che un giorno saremmo statɜ abbastanza fortunatɜ da avere uno spazio per collaborare. Nello specifico, uno spazio che fosse sicuro, ancor più in questi tempi incerti. 

Un’altra cosa per cui vorrei ringraziarti è che, a causa di questo progetto, ho ripreso le letture sull’attivismo queer e ho potuto immaginare, collegare e associare l’idea egemonica di “salute mentale” nel modello biopsicosociale, basata sulla malattia mentale, alla costruzione binaria del genere. 

Vorrei farti queste domande. Pensi che potremmo interpretare (performare) la sofferenza psichica per rimuoverla dalle costrizioni dei modelli egemonici biomedici e biopsicosociali? Come potremmo farlo?

Sarebbe possibile rivendicare una conversazione sulla sofferenza psichica che parta da una posizione politicizzata e chiaramente situata?

Alberto
Quando ripenso oggi alla mia esperienza con le tecnologie psichiatriche e psicoterapeutiche, e più precisamente alla mia esperienza di psicoterapia con una psichiatra, mi rendo conto di aver partecipato a una pratica di normalizzazione, almeno in parte. È stato un esercizio di normalizzazione che mi ha dato gli strumenti per portare avanti le attività normali; attività a cui la società attribuisce un valore di normalità.

Parallelamente alla psicoterapia ero, e sono ancora, a stretto contatto con amicɜ impegnatɜ nel pensiero e nell’attivismo queer. Insieme siamo statɜ in grado di partire dalle nostre esperienze di sofferenza psichica per mettere in discussione la nostra psicofobia interiorizzata*** e quella che esiste dentro e fuori le nostre comunità. Queste conversazioni mi hanno permesso di sviluppare una posizione critica da cui comprendere oggi la mia esperienza di psicoterapia come, tra le altre cose, un esercizio di normalizzazione. 

*** (Riporto qui la traduzione del termine francese “psychophobie”, che abbiamo usato spesso durante la nostra residenza a Bruxelles.)

Questa consapevolezza mi è fondamentale per essere in grado di mettere in discussione le tecnologie della psicoterapia e per assumere un posizionamento critico in relazione a un processo di cui sono stato parte. Con questo esempio cerco di spiegare l’importanza di adottare una prospettiva politicizzata, parziale e coinvolta sulla comprensione della costruzione storica e politica della “salute mentale” e di essere in grado di creare un pensiero dissidente rispetto alle tecnologie normalizzanti della psichiatria e della psicoterapia. 

Per rispondere alla tua domanda con altre domande: sarebbe possibile rivendicare una conversazione sulla sofferenza psichica che parta da una posizione politicizzata e chiaramente situata? E inoltre, come si potrebbero far proliferare dei discorsi liberi dai modelli egemonici biomedici e biopsicosociali? Come possiamo rivendicare uno spazio di scambio politico in cui questi modelli egemonici di salute mentale non costituiscono i parametri di riferimento? Credo che il movimento del Mad Pride si stia già occupando di molte di queste riflessioni.

E ora, tenendo a mente il nostro progetto in particolare: come possiamo creare degli spazi per parlare di sofferenza psichica nelle nostre comunità queer? Possiamo farlo da un posizionamento di critica delle tecnologie psichiatriche e psicoterapeutiche? E mentre lo facciamo, come possiamo muoverci verso un modello di aiuto reciproco e apprendimento collettivo evitando il moralismo?

Fátima

Mi interessa molto tutto quello che stai dicendo, perché ci colloca in uno spazio di conoscenza situata, che mi sembra il modo più adeguato per iniziare a pensare alle domande che poni.

Ma prima di andare avanti, vorrei richiamare la tua attenzione su una piccola sfumatura della parola “psicofobia” che abbiamo utilizzato spesso durante la settimana al Kaaitheater. Persino i termini che cercano di andare contro la discriminazione subita dalle persone psichiatrizzate possono perpetuare ciò contro cui lottiamo. Se noi consideriamo la psicofobia come l’oppressione contro le persone psichiatrizzate potremmo finire per validare l’esistenza dei disturbi mentali, per esempio, o per cercare di stabilire un’equivalenza con altre categorie di oppressione come il razzismo o l’omofobia. Il problema non è che ci sono persone che sperimentano una sofferenza psichica, che è qualcosa che accade a tutte le persone. Il problema è come la sofferenza psichica viene trattata dall’approccio psichiatrico, che la considera come una malattia che richiede etichette diagnostiche, medicalizzazione, assoggettamento a ricoveri involontari, ecc. Credo che sia interessante nominare il termine “agateophobia” [in italiano comunemente indicata come “maniafobia”, NdT], che significa paura della follia. Mi fa ridere che anche la paura della follia abbia una dimensione diagnostica… Abbiamo bisogno di trovare delle parole che non perpetuino un sistema di persone folli e sane, come se queste fossero categorie naturali e fisse. Alla fine, colui che decide se sei folle è sempre lo psichiatra. Esistono, quindi, un’asimmetria di potere e delle regole che definiscono cosa è normativo e cosa patologico. 

“Il dolore dell’anima” non dovrebbe essere localizzato nell’ambito sanitario, quanto piuttosto in quello della giustizia sociale. 

Rispetto alle domande che poni, penso che sia più che necessario rivendicare l’importanza di parlare di sofferenza psichica prestando attenzione a tutte le prospettive di analisi. Di fatto, parte della complessità di tutto ciò che ruota attorno alla follia è la diversità e quantità di settori della conoscenza dedicati al suo studio: filosofia, antropologia, storia, sociologia, biologia, economia, teologia… È stato dato per scontato che la follia appartenga al campo della medicina ma “il dolore dell’anima” non dovrebbe essere localizzato nell’ambito sanitario, quanto piuttosto in quello della giustizia sociale. 

Per generare dei discorsi critici, avulsi dai modelli egemonici biomedici e biopsicosociali, credo che dovremmo, da un lato, creare dei discorsi solidi di rottura di quei modelli ogni volta che ne abbiamo l’opportunità; e, dall’altro lato, dobbiamo generare un cambiamento di paradigma. Nel nostro collettivo, Orgullo Loco Madrid, stiamo imparando che alzare la voce non serve a niente se non si è accompagnatɜ dallɜ compagnɜ di lotta, e mi riferisco allɜ compagnɜ queer, femministɜ, antirazzistɜ, ecc. 

Il lato positivo del fatto che esiste ancora poco di tutto questo, è che è ancora tutto da costruire. A proposito della tua ultima domanda su come rivendicare uno spazio per lo scambio politico al di fuori del modello di riferimento egemonico, mi azzardo a chiederti: come possiamo fare una cosa del genere prima a livello europeo e poi transcontinentale? Può un progetto come il nostro servire da seme per costruire qualcosa del genere? Ci mancano modelli a cui fare riferimento?

Credo che l’epidemia di covid 19 ci abbia portato a essere tuttɜ più consapevoli dei nostri malesseri psichici; quindi, questo potrebbe essere un momento ottimale per parlare di sofferenza psichica nelle nostre comunità queer da una prospettiva critica della “salute mentale”. Allo stesso modo, questo sembra essere un buon momento per generare spazi collettivi di ascolto e supporto reciproco, nei quali il supporto non è solo materiale ma è anche cura. È essenziale che questi siano spazi dove ogni persona possa esprimersi senza sentirsi giudicata, ostracizzata o abbandonata alla pratica psichiatrica-psicologica. 

Inoltre, credo che questo sia un buon momento perché le nostre comunità queer capiscano che, così come tutto ciò che è relativo alla sessualità e al genere è stato storicamente patologizzato, la stessa cosa è avvenuta con la sofferenza psichica e la follia. Per esempio, nello Stato spagnolo oggi stiamo lottando in favore di una legge per le persone trans che include una rivendicazione di non patologizzazione e psichiatrizzazione. Credo sia importante, in chiave pedagogica, che all’interno delle nostre comunità queer iniziamo a domandarci perché alcune psichiatrizzazioni vengono rifiutate e altre accettate e che smettiamo di comportarci come sbirri della norma, al di là del genere. In primo luogo, iniziamo a creare spazi sicuri che siano necessariamente critici della psichiatrizzazione, e gradualmente elimineremo i fardelli morali, e a quel punto inizieremo sicuramente a pensare alle cose da prospettive che non abbiamo ancora immaginato. Per cominciare: cos’è che stai già immaginando Alberto?

Alberto
Grazie mille per aver aperto la nostra conversazione a una molteplicità di intrecci tra il pensiero storico antipsichiatrico, il pensiero folle contemporaneo e il pensiero queer. Cercherò di rispondere alle tue domande relative a come immaginare il nostro progetto, a quali punti di riferimento prendere e a come creare delle reti scavando nei modi in cui stiamo cercando di partecipare all’elaborazione di linguaggi per la dissidenza e per la confluenza politica di persone impegnate in modalità molteplici di creazione di discorsi contronormativi. 

Quando mi chiedi, Fátima, come immaginare il nostro progetto, mi sembra importante dire a chi legge questo testo che stiamo preparando degli incontri di artistɜ e attivistɜ queer con l’intento di creare strategie collettive di opposizione al sanismo**** e lo facciamo a partire dalla consapevolezza della stretta moralizzante e sanista che ha seguito l’esplosione dell’epidemia di covid 19 nel 2019 e 2020 e considerando l’eredità politica e artistica che la comunità queer prende dall’attivismo nato durante l’epidemia di AIDS dagli anni Ottanta ad oggi. Per contrastare il sanismo, in questi incontri ci proponiamo di elaborare modelli di riduzione del rischio*****, un insieme di pratiche usate nell’attivismo della salute e in quello queer, ma anche nelle campagne sanitarie di salute pubblica finalizzate a ridurre il possibile impatto negativo dei comportamenti sociali in maniera non giudicante.  

**** (Traduciamo “sanismo” dall’inglese “healthism” [e dallo spagnolo “saludismo”, NdT]: un sistema di oppressione che considera la salute come proprietà e responsabilità dell’individuo e che giudica le persone sulla base del loro livello di salute o malattia, un livello che la medicina e la legge hanno il compito di determinare.)

***** (Il termine “riduzione del rischio” tradotto letteralmente dal termine francese “réduction de risques” verrà privilegiato da questo momento in poi rispetto all’espressione più comune “riduzione del danno” per sottolineare l’obiettivo di contestare le preoccupazioni saniste che anticipano un determinato comportamento sociale provocando giudizio ed esclusione.)

Avendo parlato prima di psichiatria e psicoterapia come tecnologie di normalizzazione, continuo chiedendo a me stesso e a te: quali sono i rischi di quei comportamenti sociali non normativi che vengono psichiatrizzati e/o la cui modulazione viene rivendicata dalla psicoterapia? Se, come sta facendo il movimento internazionale Mad Pride, invitiamo a una risignificazione del termine “follia”, quali sono i rischi della follia?

La follia e la sofferenza psichica, e la loro espressione pubblica e disobbediente (come scrivevi tu giustamente: “Il problema non è che ci sono persone che sperimentano una sofferenza psichica, che è qualcosa che accade a tutte le persone. Il problema è come la sofferenza psichica viene trattata”), comportano dei chiari rischi legali (il caso della cantante musicista statunitense Britney Spears, che dal 2008 ad oggi ha vissuto sotto la tutela medica e legale del padre dopo essere stata psichiatrizzata, è noto), medici (concepire la psichiatrizzazione come un rischio e non come una “cura” o un “trattamento”), lavorativi, economici, di socializzazione, tra gli altri. La modulazione di questi rischi va di pari passo con l’oppressione sistemica machista, razzista, transfobica, omofobica, classista, ecc. Questo l’ho imparato dai movimenti dell’attivismo folle e dalla loro intersezione con le lotte femministe, antirazziste e queer. Ma mi domando: come ti immagini una nuova prospettiva di riduzione del rischio creata a partire dall’attivismo per la “salute mentale”? Che interesse potrebbe avere l’attivismo per la “salute mentale” nel creare questa nuova prospettiva? 

Come possiamo generare dei cambiamenti nelle nostre comunità per assicurare, tra le altre cose, il “diritto alla follia” di cui parlate nel movimento Mad Pride?

Pensare alla riduzione del rischio all’interno delle nostre comunità queer mi riporta a una delle domande alla base del nostro progetto: è possibile immaginare una risposta collettiva ai rischi? E per estensione: come possiamo generare dei cambiamenti nelle nostre comunità per assicurare, tra le altre cose, il “diritto alla follia” di cui parlate nel movimento Mad Pride?

È possibile che nel futuro il nostro progetto e gli incontri di artistɜ e attivistɜ queer ci porteranno più vicinɜ alle risposte a queste domande o, forse, ci mostreranno come riformularle. Ma, perché questo accada, abbiamo bisogno di creare strategie per “rivendicare uno spazio per lo scambio politico al di fuori del modello di riferimento egemonico”, come hai detto poco fa in questo testo. Come si può fare questa cosa?

Vorrei condividere qui un’idea che potrebbe aiutarci a immaginare come fuoriuscire dai modelli egemonici e sanisti, che proviene da una conversazione che ho avuto con Talya nel 2020 durante un esercizio preparatorio per questo progetto. Talya parla di “disertare” come strategia di disobbedienza e dissenso. Nella conversazione con Talya, nel parlare di profilassi e trasmissione del coronavirus, ha dato una spiegazione a partire dalla sua esperienza:

“Je fais des arrangements tous les jours entre la considération pour les multiples enjeux épidémiologiques – la transmission, la vulnérabilité, les oppressions qui se jouent autour de cette circulation de virus – et la considération de mes besoins qui participent à ma vie et qui sont manifestement plus essentiels que ce que l’opinion publique et les directives légales et réglementaires ne l’accordent. En ce sens la résistance est l’ambivalence qui est la plus difficile sur le plan politique. Pouvoir à la fois dire que cette crise révèle des inégalités systémiques criantes et violentes qui mettent en danger des personnes que la société a vulnérabilisée et que cet ordre sanitaire participe aussi à la destruction de nos vies. En tout cas à leur amoindirissement, leur inconsidération, leur illégitimité, leur caractère non essentiel. L’essentiel c’est la vie familiale hétérosexuelle. Ca ne me concerne pas. Ce n’est pas ça qui va me faire vibrer, vivre et exister. Je ne veux plus attendre d’être validée. Je ne veux pas me faire honneur de n’avoir pas attrapé ce virus comme preuve de légitimité dans cette société. Je le pose parce que j’ai vu notamment au travail qu’être en bonne santé et rester en bonne santé sont des termes extrêmement normatifs. Tomber malade c’est un peu ne pas être à la hauteur des enjeux. Je ne veux plus jouer sur ce terrain là. Je veux déserter toutes ces oppressions pour aller vers une manière d’être à moi-même.”

(“Soppeso tutti i giorni la considerazione dei vari aspetti epidemiologici – la trasmissione, la vulnerabilità e le oppressioni che si sviluppano nella circolazione del virus – e la considerazione delle mie necessità che sono parte della mia vita e più essenziali per me di quanto vorrebbe l’opinione pubblica, la legge e le regole. In questo senso, la resistenza è l’ambivalenza più difficile politicamente. Poter dire allo stesso tempo che questa crisi rivela disuguaglianze sistemiche evidenti e violente che mettono in pericolo quelle persone che la società ha reso vulnerabili, ma anche che questo ordine sanitario partecipa anch’esso alla distruzione delle nostre vite. In ogni caso, contribuisce a debilitarle, non considerarle e delegittimarle e a etichettarle come non essenziali. Ciò che è essenziale è la vita familiare eterosessuale. Quella vita non ha niente a che fare con me; non è ciò che mi fa vibrare, vivere ed esistere. Non voglio più aspettare di essere validata. Non voglio essere fiera di non essermi presa questo virus come prova di legittimità in questa società. Lo dico perché ho visto, in particolare sul posto di lavoro, che essere sanɜ e rimanere in salute sono espressioni estremamente normative. Ammalarsi è un po’ come non essere all’altezza. Non voglio più giocare su questo terreno. Voglio disertare tutte queste oppressioni per andare verso un modo di essere che sia mio”).

Disertiamo? E se decidiamo di disertare, Fátima, come lo facciamo? E da cosa disertiamo?

Fátima
Alberto, trovo molto interessante il fatto che tu mi chieda di immaginare una nuova prospettiva per i modelli di riduzione del rischio nell’ambito della “salute mentale”, ed è un’idea a cui noi, nell’attivismo per la “salute mentale”, siamo molto interessatɜ visto che questo approccio è stato elaborato solo in relazione alle dipendenze. Vorrei chiarire che il modello di riduzione del rischio nell’area delle dipendenze rispetta la decisione libera di una persona di assumere o meno sostanze e che il focus è più sulla riduzione del rischio di overdose o sul fatto che la persona viva in condizioni di vita dignitose. Penso che sia interessante un approccio di riduzione del rischio nell’ambito della “salute mentale” dove il rischio è situato nella psichiatrizzazione e la riduzione consisterebbe nell’evitarla e nell’evitare uno stress psichico che può essere spesso risolto con un po’ di supporto o semplicemente rispondendo ai bisogni materiali di tutte le persone. Credo che questo potrebbe essere il punto di partenza per il cambiamento di paradigma che la “salute mentale” richiede.

Nella nostra società, ogni comportamento che è fuori dalla norma o che non capiamo o che non ci piace viene considerato come una malattia.

Mi sembra che un buon modo di costruire questo modello consista nel non permettere che la pressione della vita quotidiana sia così asfissiante da far esplodere le persone. Se potessimo ridurre i rischi sul lavoro, cambiando per esempio alcune situazioni, o assicurando il rispetto per i più basilari diritti lavorativi, potremmo prevenire lo stress e le crisi future per molte persone. Allo stesso modo, nel contesto familiare, se potessimo fornire spazi altri allɜ adolescenti saremmo in grado di ridurre il rischio di una crisi e la conseguente psichiatrizzazione. Insisto sul fatto che il modo migliore di ridurre il rischio di psichiatrizzazione sarebbe quello di farla sparire. Se esistessero case di crisi invece di manicomi non sarebbe così orribile impazzire.

Mi chiedi quali siano i rischi più grandi della follia e io credo che il rischio più grande sia proprio la psichiatrizzazione. Nella nostra società, ogni comportamento che è fuori dalla norma o che non capiamo o che non ci piace viene considerato come una malattia. Patologizziamo la cattiveria: se una persona fa qualcosa che consideriamo cattivo, la chiamiamo psicopatica. Allo stesso modo, quando un comportamento non rientra in ciò che consideriamo appropriato, lo patologizziamo. Abbiamo delle regole per qualsiasi cosa e se una persona le trasgredisce la tagliamo fuori. 

Per immaginare una risposta collettiva al rischio sarebbe importante includere tra le nostre rivendicazioni il diritto alla follia, che è strettamente connesso al diritto di essere liberɜ dalla psichiatrizzazione, al diritto di essere liberɜ dalla diagnosi e dalla violenza psichiatrica di ogni tipo. Per apportare dei cambiamenti nelle nostre comunità e per assicurare questo diritto dobbiamo sradicare sia la paura sia il concetto di pericolosità che è stato collegato alla follia, così come il concetto determinista di biologia della malattia mentale. E infine, ma non per importanza, dobbiamo impegnarci in una pedagogia che insista su una prospettiva critica sulla “salute mentale” e su un cambiamento di paradigma.

Pensando al futuro, alle strategie per rivendicare uno spazio di scambio politico al di fuori del modello egemonico e a come portare avanti queste strategie, dobbiamo fare vari passi. Primo, dobbiamo metterci insieme per creare formazione e pedagogia affinché altre persone si uniscano a noi. Secondo, dobbiamo tessere reti a partire dalle nostre città ed estenderle a poco a poco anche al di fuori. Terzo, dobbiamo unirci tra movimenti e attivismi diversi. È fondamentale creare i nostri spazi, la nostra letteratura e la nostra arte affinché, diffondendoli, nessuna persona lì fuori, più disconnessa, si senta sola senza qualcosa a cui fare riferimento.

A proposito del tuo invito a disertare, credo che tu, io e Talya, ovviamente, stiamo disertando già da un po’. Abbiamo disertato dal sistema normativo di genere e cis-etero, e abbiamo disertato dalla psichiatrizzazione che distingue “malato” e “sano”. L’unica via d’uscita di fronte a un modello egemonico si trova nei margini dell’attivismo e nel poterci incontrare fra di noi, forse l’unica forma di disertare è quella di prenderci per mano e rifiutare di seguire la corrente.

Disertare da un modello egemonico di normalità in un sistema capitalista, coloniale e cis-etero patriarcale mi sembra l’unica via di uscita possibile. E con tutte le persone che disertano, con noi, Alberto, creare il nostro esercito disobbediente, di resistenza e di militanza folle, queer e anticapitalista. 

Nota 10 giugno 2021. In questo momento stiamo continuando il nostro progetto con il supporto di a/r asbl art-recherche e erg école de recherche graphique, con un assegno di ricerca di un anno del Fonds de la Recherche en Art (FRArt), parte del Fonds de la Recherche scientifique (F.R.S.-FNRS) in Belgio.

Nota alla pubblicazione in italiano

Cara Giulia Crispiani,

Avete invitato me e Fátima a ripubblicare “To Our Friends in Therapy” sui siti web di NERO e Not. Dalla prima pubblicazione di questo testo sul sito web di Kaaitheater nel giugno 2021, ho continuato il mio progetto di ricerca ospitando assemblee ristrette, non-miste e autorganizzate di artistɜ e attivistɜ queer, fuori e dentro le istituzioni artistiche. Ci siamo riunitɜ e abbiamo immaginato che tipo di assemblee potessero esserci utili, in quanto queer, per reagire al trauma generazionale dell’isolamento e del sanismo che ha seguito l’inizio dell’epidemia di covid. Ma non solo. 

Grazie a tuttɜ lɜ partecipanti delle assemblee per il loro coinvolgimento e per la solidarietà! Grazie Giulia! E grazie per aver contattato Fau Rosati e Marta Capesciotti, che sono lɜ autorɜ della traduzione italiana di “To Our Friends in Therapy”. Grazie Fau e Marta!

Io e te, Giulia, ci siamo incontratɜ a giugno. Entrambɜ eravamo performer ad un festival artistico sulle Alpi italiane. Lì, abbiamo formato spontaneamente una banda queer: pranzavamo e cenavamo tuttɜ insieme, andavamo a vedere l’unə le prove dell’altrə e partecipavamo alle performance. Il festival era regolato da protocolli severi per la prevenzione del contagio da covid e il pubblico era scarso. Quanto lavoravamo per quel pubblico, Giulia, e quanto l’imparare l’unə dall’altrə era il nostro lavoro? 

Vedo questo attrito tra la pratica della vicinanza e la tradizione della produzione scritta, sia nelle arti queer che nell’attivismo. Sento, attorno a me sia a Bruxelles che a Madrid, un grande dibattito sulla visibilità delle persone queer nelle arti, ed è una cosa fantastica, e spero che ci porti lavoro. Possiamo, però, discutere anche del bisogno di vicinanza? Di quanto la vicinanza queer all’interno delle istituzioni artistiche non abbia a che fare con il gatekeeping ma con la nostra sopravvivenza?

Alla fine del nostro soggiorno sulle Alpi c’è stata un’ultima colazione in giardino. Eravamo stanchɜ, abbiamo mangiato e bevuto caffè, ci siamo presɜ cura l’unə dell’altrə, abbiamo fatto i bagagli e fumato sigarette. Ci è voluto un festival per fare colazione! Poi abbiamo preso un taxi che ci ha portatɜ alla stazione di Trento.

Alberto
Madrid, novembre 2021

Nota alla traduzione italiana

Per la traduzione di questo testo abbiamo utilizzato sia la versione originale in castigliano, sia quella tradotta in inglese dal collettivo Other Ways to Care, per cercare di cogliere a pieno le diverse sfumature volute da chi l’ha scritto. Abbiamo anche fatto delle scelte di traduzione per la resa in italiano del testo, che vorremmo condividere con chi legge:

  • Abbiamo usato il simbolo “Schwa” (ə per il singolare, ɜ per il plurale) per evitare il maschile sovraesteso e per riferirci a quelle persone il cui pronome era neutro nelle versioni in inglese e in castigliano.
  • Abbiamo utilizzato i termini “folle” e “follia” come traduzione dei termini in castigliano “loco” e “locura” e dei termini in inglese “mad” e “madness”. Ad oggi, in Italia, non ci sembra che esista un linguaggio condiviso e consolidato da parte dei movimenti dal basso sull’utilizzo di un termine piuttosto che un altro (pazzə, follə, mattə), o per lo meno noi non lo conosciamo e se così fosse ci scusiamo. Abbiamo deciso di non tradurre l’espressione “Mad Pride” perché utilizzata anche in Italia dagli stessi movimenti di attivismo autorganizzati.
  • Abbiamo utilizzato il termine “froce” come traduzione del termine castigliano “maricas” e del termine inglese “fags”, perché ci sembra, a partire dal nostro posizionamento transfemminista queer, quello che più si avvicina a una riappropriazione in italiano dello stesso insulto.
  • Abbiamo utilizzato il termine “spazio sicuro” per tradurre l’espressione in castigliano “espacio seguro” e l’espressione inglese “safe place”. Per molto tempo, nelle nostre lotte e nel nostro linguaggio politico, abbiamo mantenuto l’utilizzo dell’aggettivo inglese “safe” perché il termine “sicuro” ci richiamava una dimensione securitaria in cui la sicurezza viene delegata a e regolata dagli organi dello Stato. Crediamo però che sia importante provare a rendere dei termini intelligibili e accessibili anche a chi non parla inglese o non ha dimestichezza con dei concetti elaborati nel mondo anglofono.

In generale, abbiamo cercato di non lasciare quasi nessun termine in lingue diverse dall’italiano perché crediamo che, a volte, l’utilizzo di vocaboli stranieri generi, in chi parla, ascolta e legge, un distacco emotivo che rende più digeribili termini e concetti, impedendo però al tempo stesso un processo di riappropriazione, elaborazione e messa in discussione linguistica a partire dal proprio contesto culturale e politico.

Marta e Fau
Roma, novembre 2021

Fau è attivista transfemminista queer, ricercatorə in ambito LGBTQ+ presso la Facoltà di Medicina e Psicologia dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, psicologə e psicoterapeuta in formazione.

Giulia vive a Roma ed è artista e scrittrice.

Héloïse vive a Bruxelles, è scrittrice, performer, conduttrice radiofonica, legge tarocchi ed è attivista queer. 

Joëlle vive a Bruxelles, è una scrittrice e artista interessata a nuove strategie e modalità di narrazione da una prospettiva femminista e queer. 

Jon vive a Bruxelles ed è attivista di sinistra. 

Loup vive a Bruxelles, lavora sull’immagine, la fotografia e il videomaking ed è unə attivista queer femminista e trans. 

Marta è attivista transfemminista queer e ricercatrice in materia di diritti fondamentali e diritto dell’immigrazione.

Other Ways to Care è un collettivo londinese nato dal desiderio di immaginare forme alternative di cura ispirate dalle pratiche militanti e collettive che mettono in discussione, contrastano e si differenziano dal modello neoliberale e dalla crescente privatizzazione e individualizzazione della presa in carico della “salute mentale”. 

Talya vive a Parigi, è scrittrice, attivista queer ed è specializzata in progetti sociosanitari.

Nota su chi ci ha sostenuto: 15 novembre 2021

Questo progetto di ricerca continua oggi con il supporto di a/r asbl art-recherche e erg école de recherche graphique, grazie a un assegno di ricerca di un anno finanziato da Fonds de la Recherche en Art (FRArt), che fa parte di Fonds de la Recherche scientifique (F.R.S.-FNRS) in Belgio. Ulteriore supporto a questo progetto è arrivato da Fédération Wallonie-Bruxelles e Goethe-Institut Brüssel, entrambi in Belgio.

Fátima Masoud Salazar vive a Madrid ed è un’artista e un’attivista queer, antirazzista e per la “salute mentale”, oltre a essere una delle persone che hanno fondato l’Orgullo Loco Madrid (Mad Pride).
Castillo vive a Bruxelles, è scrittore e responsabile d’arte dedito alla collaborazione in processi queer e contronormativi di creazione artistica, e fa parte dell’iniziativa di arte queer Buenos Tiempos, Int.