Weird Italiano
Il giorno in cui ho finito Le venti giornate di Torino, un uomo si è affacciato dalla finestra del suo albergo di Las Vegas e ha sparato sul pubblico di un concerto, uccidendo più di cinquanta persone e ferendone cinquecento, senza nessuna ragione apparente. Nel libro c’è scritto: «Potremmo almeno pensare al gesto di un pazzo; e sarebbe una sorta di liberazione sia sul piano della coscienza umana sia su quello politico. Ma se la pazzia c’è, in questo caso ha carattere collettivo e implicazioni in qualche modo ideologiche.»
Scrivere del romanzo di Giorgio De Maria, pubblicato per la prima volta nel 1976 e ora di nuovo in libreria grazie a Frassinelli, mi provoca uno strano cortocircuito: lo dico perché ogni volta che mi metto a cercare in mezzo ai romanzi e film degli anni Settanta per capire da dove sia apparso questo romanzo, quale sia il filo conduttore che lo cuce al suo tempo, mi pare di guardare dalla parte sbagliata; forse, penso, per raccontare qualcosa di questo oggetto estraneo, dovrei partire da quello che vedo in televisione, del terrorismo e dell’insensatezza della violenza, delle sparatorie che vengono dissezionate nei programmi come se chiedersi il perché delle cose potesse davvero portarci più vicino al loro segreto.
Scritto durante gli anni di piombo, questo romanzo sembra essere stato capace non solo di raccontare una storia mentre questa veniva scritta – il terrorismo, la stagflazione, i gruppi eversivi fascisti – , ma di proiettare le sue ombre fino a oggi. Le «venti giornate di Torino» che danno il titolo al libro, spiega lo stesso De Maria già nel primo capitolo, «non furono né una guerra né una rivoluzione, ma, come si dice, un fenomeno di psicosi collettiva, con quanto sottende di epidemico questa definizione». E allora perché occuparsene? Il giorno dopo una strage, la nostra vita riprende a scorrere, impermeabile a ogni catastrofe.
Storia e (s)fortune di un romanzo
Di cosa parla il libro di Giorgio De Maria? È il racconto di un’indagine su fatti avvenuti dieci anni prima nella città di Torino, durante un’improvvisa insonnia che come una febbre colpisce i cittadini, lasciandoli vagare come zombie nella notte:
«Ricordo benissimo l’atmosfera di morte che regnava a Torino in quel periodo. Il collasso delle sue industrie. L’esodo degli immigrati verso le loro terre, anche perché risparmiate dalla tremenda siccità che aveva colpito tutto l’arco alpino. I treni stracolmi che partivano da Porta Nuova diretti verso il meridione per ritornare semivuoti.»
Svuotata da questa emorragia improvvisa, Torino – la città delle fabbriche, della FIAT, degli operai – si trasforma nella muta testimone di delitti incomprensibili che lasciano cadaveri schiantati sul selciato: «“L’atmosfera delle feste estive sembra essersi dissolta dopo i massacri”, diceva la Gazzetta, “un incubo che la città, già afflitta dall’insonnia, non riesce a dimenticare”.» Le indagini sono portate avanti non da un poliziotto, ma da uno scrittore deciso a scoprire i mandanti di questi omicidi: più si avvicina alla trama di quelle giornate, più si trova di fronte a un’apparente mancanza «di movente ideologico, [che] se esaminata attentamente, finiva anch’essa per rivelare un fondo ingiurioso che toccava senza discriminazione tutti i cittadini».
Come tanti, ho scoperto questo romanzo nel momento in cui, giusto all’inizio di quest’anno, è stato tradotto in inglese. Che un romanzo di fantascienza weird, per giunta italiano, appaia improvvisamente dall’altra parte del mondo a quarant’anni dalla sua unica pubblicazione in patria, è già di per sé una circostanza strana. Eppure è così che è andata. Ma d’altronde, di circostanze strane, la vicenda di Le venti giornate è piena.
Ecco come sono andate le cose: il libro di De Maria arriva a Ramon Glazov, traduttore e critico australiano, grazie al consulente editoriale (torinese) Luca Signorelli. A sua volta Signorelli aveva scoperto per caso che il ragazzo con cui negli anni Settanta aveva passato i pomeriggi ad ascoltare i Black Sabbath, altri non era che Domenico De Maria: e cioè il figlio dello scrittore, che probabilmente in quel periodo stava lavorando proprio a Le venti giornate (Giovanni Arduino, autore della postfazione e di un breve saggio sul libro di De Maria, racconta invece che a parlargli del libro era stata una zia, che però si era vista bene dal prestarglielo). Glazov, dopo aver letto il romanzo, lo propone quindi all’editore americano Liverlight, che decide di pubblicarlo. A quel punto il nome di De Maria inizia a circolare negli Stati Uniti con una certa insistenza, grazie anche al lavoro di promozione dello stesso traduttore. L’eco rimbalza fino in Italia, e Frassinelli ne acquisisce i diritti per la prima ristampa italiana dal lontano 1976. E su questo c’è un’altra storia che vale la pena raccontare.
Giancarlo Frassinelli – il figlio di Carlo, fondatore della casa editrice – era noto a Torino come leader carismatico di un gruppo che si stringeva attorno alla figura di Georges Gurdjieff. Tra i devoti torinesi del mistico russo c’era anche la moglie di De Maria, che Giancarlo ebbe quindi modo di conoscere. Rimasto paralizzato a seguito di un ictus, Frassinelli jr era stato poi ucciso dal suo infermiere, un uomo disturbato che, forse, agì in obbedienza all’ordine dell’uomo (tecnicamente: suicide by proxy; alcune opere di Giancarlo Frassinelli si trovano qui). L’omicidio – ecco dove sta il perturbante – era avvenuto proprio nell’androne del palazzo dove viveva De Maria. Oggi la casa editrice non appartiene più alla famiglia Frassinelli, ma ancora una volta Le venti giornate di Torino si rivelano una storia di coincidenze e interdipendenze che sembrano nascondere altri, sinistri significati.
La Biblioteca
In America Le venti giornate è stato presentato come «il romanzo che anticipa Facebook», con riferimento alla straordinaria intuizione che porta De Maria a inventare la Biblioteca, nucleo del romanzo. La Biblioteca di Le venti giornate nasce in origine come opera pia per spingere gli uomini ad aprirsi l’un l’altro: un luogo alternativo alla «cultura ufficiale» a cui chiunque può donare i propri testi e leggere quelli degli altri («trecento lire per avere diritto alla lettura, seicento per conoscere il nome di un autore, tremila per l’accettazione di un manoscritto»).
«Tu, potrai collaborare frequentandola per leggere, oppure portando dei tuoi manoscritti che saranno archiviati e numerati e che verranno a costituire a loro volta il materiale di lettura. A noi non interessano la carta stampata, i libri, c’è troppa finzione nella letteratura, anche in quella cosiddetta spontanea… noi siamo alla ricerca di documenti veri, autentici, che rispecchino l’animo reale della gente, che possano, insomma, considerarsi per davvero dei soggetti popolari… possibile che tu non abbia mai scritto un diario, un’autobiografia, una confessione di qualche problema che ti turba?»
Promossa da «giovanotti ben pettinati e ben vestiti, senza traccia di peluria sui volti sempre rosei e sorridenti. Sembravano creati per infondere fiducia», la Biblioteca pare la prefigurazione della Rete, del microblogging e dei social network, «i documenti veri e autentici». Visti da qui, i giovanotti assomigliano i bravi ragazzi della Silicon Valley: d’altronde qualcuno ricorda almeno una foto in cui Zuckerberg non sorrida bonario? (Eccola).
La sede della Biblioteca è un vecchio padiglione del Cottolengo, cioè la Piccola casa della Divina Provvidenza, lo storico istituto caritatevole che assisteva portatori di handicap, anziani, malati ed emarginati in genere. Qua dentro la Biblioteca vive una stagione di enorme fortuna: a determinarla non è solo la prospettiva di esser letti (il desiderio di espressione per così dire) quanto piuttosto il contrario: il desiderio di perfezionare la propria alienazione, la separatezza dal mondo. Quelli che vi sono conservati sono «manoscritti le cui prime cento pagine non rivelavano alcuna anomalia, e poi a poco a poco franavano verso abissi di follia senza fondo; o che, normali in tutto agli inizi e alla fine, nascondevano all’interno voragini paurose». Più che Facebook, la Biblioteca insomma finisce per assomigliare alla meme culture di Reddit o a 4chan, a quelle piattaforme in cui a guidare la conversazione non è un gioioso senso di condivisione, quanto la possibilità di dire qualsiasi cosa attraverso il filtro dell’anonimato. L’apice della libertà coincide con l’apice della violenza: Reddit è pieno di stanze segrete, subreddit pieni di oscenità, così come si dice che nei sotterranei del Cottolengo vivessero mostri e terribili freaks.
Nel gergo di Reddit/4chan la condivisione di materiale offensivo si chiama shitposting: nel romanzo di De Maria, il protagonista racconta che dai manoscritti scampati alla chiusura della struttura proviene «un odore insopportabile di muffa e di putrefazione»: emergono confessioni di vecchi che adescano ragazze, diari di umiliazioni, parole apparentemente senza senso, insulti, e poi un lungo testo in cui una donna descrive minuziosamente la sua stitichezza, il suo desiderio di liberarsi; è uno shitposting «letterale» che diventa ancora più evidente quando, nel corso della storia, il protagonista riceve una lettera anonima di un uomo che racconta di vivere all’ottavo piano di un palazzo dove è stata demolita la tromba delle scale per far posto a una discarica di rifiuti umani:
«Sulle prime non ci ho fatto caso: si trattava di vecchi mobili, libri, cartacce, avanzi di cucina. Ma in seguito, la natura dei rifiuti ha cominciato a farsi, come dire… più provocatoria e personale. Si trattava, se mi consente il termine, di escrementi umani, che cadevano dall’alto in quantità sempre crescente. Ora, col passare degli anni, il livello è aumentato a un punto tale da raggiungere le prime abitazioni, occupate per fortuna solo da famiglie operaie.»
Ad aver guidato l’azione, un’anonima Amministrazione: «la paura di più severe sanzioni è tale che i coinquilini tacciono come se l’essere coperti di m… da parte del potere gerocratico (lassù sono tutti vecchi) fosse normale. Ora io Le chiedo: Le sembra ragionevole tutto questo?»
The Weird and the Eerie (a Torino)
Il «potere gerocratico», l’Amministrazione irraggiungibile: qui Le venti giornate di Torino sembra Il castello di Kafka in versione scatologica. Ha dei tratti di incontestabile unicità il libro di De Maria, veri e propri lampi di follia che illuminano il testo e che preannunciano la malattia mentale dell’autore: anni dopo l’uscita del romanzo, De Maria soffrirà di un esaurimento nervoso che lo porterà a un’improvvisa conversione religiosa; lui feroce anticlericale e già membro dei Cantacronache (assieme a Emilio Jona, Italo Calvino, Umberto Eco, Franco Fortini e altri) finirà a vaneggiare di arcangeli nelle strade di Torino e a morire, nel 2009, in miseria, alcolizzato e dipendente dall’Halcion. La follia non spiega tutto, ma resta una suggestione fondamentale per capire il libro: Torino, del resto, è il luogo in cui Nietzsche impazzì; Kafka, in treno, appuntò sul diario: «Non andare a Torino. A nessun costo».
Che De Maria sia stato profondamente influenzato dalla letteratura del fantastico e dell’orrore, è ovvio. Nessuno dei suoi racconti è mai stato pubblicato su una rivista di fantascienza, è vero; ma, come ricorda Glazov in un’intervista, «De Maria iniziò la sua carriera quando c’era ancora un confine netto tra la letteratura e i romanzi di genere»; persino per autori già estremamente rispettati come Primo Levi – che si muoveva negli stessi circuiti di De Maria – il passaggio alla letteratura «di genere» era complesso (non a caso, i suoi racconti sci-fi furono pubblicati sotto pseudonimo).
Il che non toglie che questo romanzo sia una storia di fantasmi, di corpi perturbanti e di architetture stranianti, che deve a Lovecraft e alla narrativa weird, così come a quella letteratura che sa inscrivere nelle cose una qualità che non saprei come definire se non eerie. Ci sono statue che prendono vita, che si scambiano di posto, bassorilievi che ossessionano fino alla pazzia: quale migliore spunto per un romanzo sul perturbante? Le morti che popolano il romanzo sembrano causate da energumeni che usano le vittime come mazze umane:
«Anche lei ebbe il volto fracassato, due lividi circolari attorno alle caviglie, delle ecchimosi all’altezza della vita. Due mani dotate di forza impressionante dovevano averla agguantata nelle zone mediane del corpo e quindi oplà! […] Va rilevato che il «corpo solido» contro cui la signora Marchetti fu sbattuta era questa volta un monumento: il monumento a Edmondo De Amicis […] il volto baffuto dello scrittore piemontese, sporgente dal lastrone di marmo, ancora imbrattato di sangue e di materia cerebrale; gli spruzzi sanguinosi della vittima che si irradiavano fino a lambire i bambini dei bassorilievi».
Su questo sfondo si muove la nascita di gruppi millenaristi che leggono in quegli omicidi «un disegno provvidenziale, un estremo segnale d’allarme gettato dall’Alto all’indirizzo dell’Umanità».
La critica statunitense ha molto insistito sul parallelo tra De Maria e Lovecraft: in un importante articolo uscito sulla Los Angeles Review of Books, la «curiosità» del protagonista di Le venti giornate viene interpretata come un «segno di morbosità e decadenza», la stessa morbosità e decadenza che caratterizza tanti «investigatori» lovecraftiani. Persino la Torino protagonista del libro viene paragonata alla Providence del maestro della narrativa weird: entrambe sono città (ex) industriali la cui reputazione si regge su un misto di eleganza e cortesia a conti fatti sospetta. La reticenza e l’aura inquietante dei personaggi incontrati dal protagonista di Le venti giornate, fa notare sempre la LARB, non può non far pensare a quella angosciosa ritrosia di tanti racconti lovecraftiani ambientati in decadenti cittadine del New England popolate da un’umanità corrotta e malsana.
Kafka, in treno, appuntò sul diario: «Non andare a Torino. A nessun costo».
In realtà, più che all’autore del Richiamo di Cthulhu e La maschera di Innsmouth, viene da accostare il De Maria di Le venti giornate di Torino a un altro romanzo tutto italiano uscito più o meno negli stessi anni, vale a dire il Dissipatio H.G. di Guido Morselli, a sua volta altro grande irregolare della nostra letteratura, morto suicida nel 1973.
Morselli immagina l’ecatombe finale, la scomparsa del genere umano (Humani Generis, abbreviato H.G.), in una città chiamata Crisopoli (letteralmente «città dell’oro») in cui si può riconoscere la glaciale Zurigo. Qui, un uomo – anche in questo caso un giornalista, uno scrittore disperato come lo era Morselli al tempo – decide di commettere suicidio; scende in una caverna, deciso a lasciarsi affogare nel lago sotterraneo e, all’ultimo, ci ripensa: quando risale dal sottosuolo trova il mondo svuotato dalle persone. Tutto è rimasto com’era prima: gli animali, le macchine, i vestiti; solo le persone non ci sono più. A guidare il romanzo sono le riflessioni dell’uomo – in mancanza di società, pare congelata ogni possibilità di agire – sulla sua condizione di unico superstite: è una forma di beatitudine o di dannazione? E sull’impossibilità di definire quale sia la realtà, quale il sogno: in un’atmosfera allucinata ci si chiede se forse l’uomo non si sia sparato e quella sia un’esperienza post-mortem.
Nell’opera di Morselli, ucronici o distopici sono anche lavori come Contro-passato prossimo e Roma senza papa; ma è soprattutto in Dissipatio H.G. che l’elemento a cavallo tra weird e eerie è strettamente legato allo spazio descritto, a quella città spettrale, deserta, in cui le presenze hanno cessato di far ombra, per trasformarsi in puro ricordo, in puro suono. E infatti tutto ciò che resta delle persone sono le loro voci, disincarnate nelle segreterie telefoniche, nei servizi di ora esatta e di prenotazione: lo straniamento prodotto dall’elemento sonoro è comune a De Maria (nonché a un film come La casa delle finestre che ridono di Pupi Avati), e sembra anticipare la spettrale hauntology di cose come Disruptive Muzak di Sam Kidel, disco del 2016 tutto costruito su registrazioni vocali e servizi automatici di call center e prenotazioni telefoniche.
In De Maria appaiono le voci registrate da uno dei testimoni dell’epoca: «Il nastro che ho messo da parte per lei riporta voci di natura affatto diversa da quelle registrate da Raudive; non si tratta, per intenderci, di “voci dell’aldilà”, che potrebbero essere recepite dal magnetofono in qualsiasi momento, anche adesso, se io e lei lo mettessimo in azione. Le voci riprodotte, che sono riuscito a conservare pressoché inalterate in virtù di un apparecchio di fissaggio da me brevettato, risalgono a dieci anni fa; da allora non sono mai più ricomparse.»
Sono voci dell’aldiqua, o forse no: su questa indecidibilità si gioca l’elemento del perturbante, lo straniamento. Dai nastri si levano suoni agghiaccianti, «un cupo gorgoglìo, un rimestare profondo di acque melmose, seguito da un risucchio», che si trasforma «in un avido, diffuso abbeveraggio, come se centinaia di bocche si stessero immergendo in un pozzo gigantesco intenzionate a prosciugarlo. Pareva che una sete millenaria avesse trovato finalmente una fonte a cui saziarsi». La capacità evocativa di De Maria è perfetta nel piegare il suono a strumento del perturbante: più che le statue, sono questi i passi genuinamente agghiaccianti del romanzo. De Maria era infatti un ottimo pianista, ma aveva sviluppato una condizione – forse psicosomatica – che gli stroncò la carriera; profondamente colpito da questa rinuncia, ripiegò sulla scrittura (La morte a Missolungi, un altro suo racconto, ha come protagonista Lord Byron colpito da una maledizione che gli impedisce di scrivere).
La straordinarietà di questi testi sta proprio nell’aver inscritto il malvagio nelle cose, nelle geografie urbane.
Il tema del prosciugamento dell’anima, di questi corpi lasciati senza vita dentro, senza sentimenti, percorre tutto il libro: senza anima siamo come statue, cavi simulacri di vita. Citavo prima Pupi Avati perché anche ne La casa delle finestre che ridono il weird, il perturbante, il ritorno del morto, è segnalato dalle voci, da certi avvertimenti anonimi che riceve il protagonista (per l’ennesima volta, anche qui la quest è condotta da un individuo solo contro il mondo, o solo tout court, che si trasforma in investigatore della realtà paradossale). Qui gli omicidi o meglio i suicidi (come in Morselli, dunque?) sono compiuti dalle presenze negative che risiedono nel mondo, in quello dell’aldiqua e, appunto, proprio da immagini dipinte copia (perversa) dell’esistente.
La straordinarietà di questi testi sta proprio nell’aver inscritto il malvagio nelle cose, nelle geografie urbane: la città del potere economico, la placida malvagità dei paesi in cui i crimini vengono coperti da silenzi omertosi, l’esoterica Torino che pare uscita da un dipinto di De Chirico (che appunto si ispirò a Torino per le pitture metafisiche) e che negli stessi anni fa da sfondo al Profondo rosso di Dario Argento, sono agenti attivi, spazi in cui il male risuona distintamente. Non è forse Torino è un luogo occulto per definizione, lo spazio dove si incontrano i due vertici dei triangoli della magia nera e della magia bianca?
Torino: la città che tiene a sé, incatenati come Prometeo alla roccia, come scrive De Maria nel suo romanzo, il luogo di cui si tramandano leggende su fondazioni egizie, forme dei fiumi e porte dell’Inferno… Si è già detto di Gurdjieff e del circolo torinese; ma prima di quello Torino è stata anche la casa della Soffitta Macabra e di Surfanta, i gruppi artistici surrealisti di Lorenzo Alessandri, il Papa Nero, artista cattolico e allo stesso tempo appassionato di occultismo, ufologia e satanismo. Tra tutte le voci che si raccontano su di lui, c’è anche il furto di un manichino utilizzato dall’accademia d’arte per il disegno dal vero, ribattezzato Pandora, posto poi all’entrata della Soffitta Macabra. Ancora da Le venti giornate di Torino: «La più importante è alquanto contraddittoria: la cosa più strana dei monumenti è che non si notano affatto. Nulla al mondo è più invisibile. Non c’è dubbio tuttavia che essi sono fatti per essere visti, anzi, per attirare l’attenzione; ma nello stesso tempo hanno qualcosa che li rende, per così dire, impermeabili.»
Le statue gli si presentano come mute custodi dei segreti della città, addirittura artefici del male; sembrano controllarlo, osservare l’uomo, potergli fare del male. Ma la paranoia e il sospetto non sono tanto correlativi della città piemontese, quanto del periodo storico di cui è figlio il romanzo, cioè gli anni di piombo; se non si legge in questa ottica, Le venti giornate di Torino perde molta della sua eccezionalità.
Gli anni di piombo
Nello stesso anno di Le venti giornate di Torino, il 1976, esce al cinema San Babila ore 20: un delitto inutile di Carlo Lizzani. Il film riprende un fatto di cronaca dell’anno precedente, la morte di Alberto Brasili, ucciso dai neofascisti mentre camminava per Milano insieme alla fidanzata: ripercorre le giornate violente di un gruppo di neofascisti, ragazzi di buona famiglia, vestiti bene, così come appaiono nel libro di De Maria.
Il clima quasi metafisico dato da questa atmosfera di terrore si nota meglio in un film di poco precedente come I Cannibali di Liliana Cavani, girato a pochi mesi dalla strage di Piazza Fontana. Rilettura in chiave distopica dell’Antigone di Sofocle, si apre con le strade di Milano piene di cadaveri, al suono di Cannibal («Call me cannibal, I won’t die! Savage cannibal, I won’t die! Crazy cannibal, I won’t die! Pagan cannibal, I won’t die! I’m as happy and wild and free — as a man was once meant to be!») potente pezzo scritto da Morricone e Don Powell. Nel film ragazzi e ragazze vengono rinchiusi in non precisati centri detentivi e manicomi (in una delle scene cardine, si vedono giovani impazzire emettendo suoni senza senso) per poi essere eliminati; come nell’antica tragedia, la trasgressione di Antigone è quella di voler seppellire il cadavere del fratello, con l’aiuto di un uomo arrivato da chissà dove; i due insieme daranno vita a una rete sovversiva, che impone un intervento massiccio della polizia. Anche alla fine, chi siano i mandanti, quali siano le ragioni per quelle uccisioni non è mai chiarito, preannunciando in questo modo la stagione di terrorismo che si stava preparando in Italia.
Le venti giornate di Torino è un procedural che diventa romanzo dell’orrore: non solo perché mette in scena omicidi, voci del sottosuolo e statue che prendono vita, ma anche perché rinuncia deliberatamente a raggiungere una soluzione. Sa, ma non ha le prove. E questa è davvero l’immagine esatta del terrore.