Voodoo Virus

Posseduti dagli spiriti dei Loa, possiamo abbandonarci alle identità non binarie e ospitare moltitudini. Una riflessione a partire dalle opere di Maya Deren, Akwaeke Emezi e Ishmael Reed

A volte l’unico dio che sente la vostra preghiera è quello che intende rispondere.
Akwaeke Emezi, Acquadolce, Il Saggiatore 2019

Quando negli anni Quaranta la cineasta Maya Deren incontrò la coreografa e antropologa afroamericana Katherine Dunham la sua carriera e visione del mondo subirono una svolta: la sensibilità e marcata empatia per la danza dimostrata fino ad allora si consolidò in un interesse e successivamente in un’adesione alla cultura voodoo haitiana. Iniziata al mondo del voodoo, Deren vi si immerse al punto da diventarne parte, esperendone attivamente la potenzialità salvifica e metamorfica. Passò dunque dalle trasformazioni sperimentali dei rituali nei tempi trasfigurati a una trascendentalità più misterica e fondativa.

L’incontro tra le due donne avvenne attraverso la danza: Dunham assunse Deren come sua segretaria personale. Nonostante l’ardente desiderio da parte di Deren di far parte della compagnia come danzatrice fu perennemente frustrato da Dunham, la complicità fiorì su un terreno più prettamente intellettuale, quando Deren ebbe accesso all’archivio di studi antropologici di Dunham sulle danze rituali afroamericane di Trinidad e Haiti.

Il choreocinema danzante di Deren prese allora tutt’altro ritmo: in Divine Horsemen, docufilm postumo (prima proiezione nel 1977) e successivamente raccolta saggistica (materiale raccolto negli anni 1946-55 e tradotto in italiano come I Cavalieri divini del vudù) sull’esperienza vissuta in prima persona dalla studiosa nel peristyle, emerge tutto l’interesse maturato verso una cultura dalle radici profonde e vivide. Ciò che vide, visse e registrò su pellicola fu qualcosa di ben più complesso e coinvolgente del dato folkloristico: attraverso il corpo, come soggetto epistemologico primario, Deren ebbe coscienza di un sapere così ctonio da travalicare i continenti e le dicotomie: «Se la terra è una sfera, allora gli abissi sotterranei sono anche i suoi cieli; e la differenza tra i due risiede solo nel tempo, il tempo della rotazione terreste. Se la terra è una vasta superficie orizzontale che invisibilmente rispecchia l’anima di ogni uomo, allora di nuovo, gli abissi sotto la terra sono anche i suoi cieli, e la differenza fra i due è nel tempo, il tempo di un occhio che s’apre e si chiude. La porta solare e le radici dell’albero sono la stessa cosa nello stesso luogo, vista ora dal basso, ora dall’alto, e denominata, da colui che guarda, secondo il momento della sua visione».

Attraverso i riti e i ritmi del voodoo haitiano, il partecipante si trova ad essere mezzo fisico, corpo abitato ed espropriato, non più singolo, ma sineddoche di una moltitudine divina di cuori e cervelli: il loa, espressione trascendentale di un archetipo, ha bisogno del corpo del credente, nonché che il corpo della comunità tutta batta come un unico cuore per potersi manifestare. Il divino si fa carne, scende a danzare tra la polvere, cavalca il serviteur che dallo spirito del loa viene posseduto, affinché l’anima del cosmo possa guidare la materia dell’uomo, poiché «un loa contiene allo stesso tempo il soggetto e l’oggetto, il vedente e la cosa vista. Nel vudù, né l’uomo, né la materia sono divini. Un loa è un’intelligenza, una relazione dell’uomo con la materia».

Il corpo è centrale nella ritualità voodoo: ponte tra trascendente e immanente, motore propulsivo della liturgia, fulcro della relazione con il divino. Il corpo del voodoo è sempre un corpo presente, abitato, cavalcato, posseduto; un corpo pervaso dalla totalità, è l’antitesi del corpo frammentato, assente ed edibile della cristianità. La possessione è la discesa del divino in terra, non l’ascesa della divinità in cielo. Vi è un’adesione e comunione tra uomo e loa: è l’uomo a mettere momentaneamente da parte il proprio gros-bon-ange, il proprio io, per accogliere le espressioni del loa.

È attraverso la danza che il corpo del credente, del serviteur, accede a uno stato psichico che gli permette di spogliarsi della sua individualità, per poter esperire che umanità e divinità sono intrinsecamente fuse, ma mai compresenti, che non si può essere dio e uomo nel medesimo momento: «L’oscurità bianca si muoveva lungo le vene della mia gamba sinistra, come una rapida marea che saliva; era una grande forza che non potevo sostenere né contenere, che, certamente, avrebbe spezzato il mio corpo. Era troppo per me. Troppo splendente, troppo bianca per me; ed era questa la sua oscurità. “Pietà!” gridai fra me. Sentii quel grido riecheggiato da mille voci, acute e irreali: “Erzulie!”. L’oscurità bianca inondava tutto il mio corpo, giunse alla testa, mi sommerse. Fui risucchiata giù ed esplosi, di colpo, verso l’alto. Fu tutto».

«Avere un loa nella testa» è quanto succede al corpo posseduto: «Parlay cheval ou» è l’invocazione più usata ad Haiti, ripresa in uno dei suoi testi più celebri (Tell My Horse, 1938) da Zora Neale Hurston, etnoantropologa afroamericana tra le prime a proporre uno studio sistematico della cultura voodoo, fornendo una descrizione esaustiva del pantheon dei loa, dei loro bisogni, desideri e poteri. Vi è in tutte le testimonianze raccolte da Hurston un chiaro denominatore comune: i loa si confondono temporaneamente con il corpo che li sta ospitando, scalzandone momentaneamente l’esprit per insediarsi tra la pelle e i muscoli e muoversi tra i membri della société. L’identità personale del serviteur, di colui che viene cavalcato da un loa, subisce una transizione temporanea: ancora nelle parole di Maya Deren, «se un loa maschile possiede una credente, si farà uso del nome del loa e del pronome “egli” (come si fa sempre nel vudù), riferendosi al soggetto che agisce ed è responsabile di tutto ciò che avviene durante la possessione; al contrario, se un loa femminile possiederà un uomo, il pronome sarà “ella”».

Durante la possessione l’identità del serviteur diviene tutt’uno con la personalità del loa da cui è cavalcato: il credente vive una transizione contingente alla ritualità, che porta a una gnosi dell’alterità come costitutiva dell’essere umano e  della reciprocità intrinseca tra vita e morte, divinità e umanità.

Come per il voodoo haitiano e quello africano, nella cultura igbo il corpo è elemento centrale della transizione, in quanto ponte e passaggio tra i mondi: «Provenivamo da qualche parte – è così per tutto. Compiuta la transizione da spirito a carne, le porte dovrebbero essere chiuse. È una gentilezza. Sarebbe crudele altrimenti. Forse gli dèi se ne dimenticarono: così è, sono distratti. Non c’è malizia – quantomeno, non di solito. Ma gli dèi sono dèi, dopo tutto, e a loro non importa che ne è della carne, tanto più che è una cosa lenta e noiosa, anomala e mediocre. Non prestano molta attenzione, se non una volta che è raccolta, smistata e infusa nell’anima». Nel romanzo di Akwaeke Emezi Freshwater (Acquadolce) il rapporto strettissimo tra possessione e identità personale trova una narrazione di rara profondità, e la possessione divina diviene l’occasione narrativa per il disvelamento del percorso di transizione vissuto. Testimonianza autobiografica e letteraria, Freshwater dischiude con la delicatezza di una lama ben affilata la storia di una bambina ogbanje: come nel voodoo haitiano, in cui il legame con i morti e gli antenati è un fiume profondo che prospera sotterraneo, qui il concetto di ogbanje traduce l’idea metafisica del ciclo delle rinascite, aprendo il tema della possessione a una disamina delle possibili declinazioni ermeneutiche del concetto di identità di genere.

È tra la sabbia sollevata dalle danze in un villaggio della Nigeria che Akwaeke Emezi inizia il suo vorticoso percorso: intersezione genetica di culture ancestrali (padre igbo e madre tamil), scopre durante l’infanzia il potere narrativo della carne, nel momento in cui assiste al tragico incidente in cui la sorella viene investita da un pick-up. Da quelle ferite, sgargianti e pulsanti, degli specchi purpurei, Emezi migra tra gli spazi liminali del suo corpo e dell’identità: da bambina ogbanje, abitata da semidivinità che la scolpiscono progressivamente come persona, lascia scorrere nella sua narrazione le voci che animano e spesso travolgono la sua vita. Attraverso la costruzione corale delle vicende biografiche, Emezi emerge dalle acque come identità non binaria, come molteplicità, come un they che è composito e antitetico alla definizione dicotomica degli opposti; non si tratta di una transizione m to f o f to m, binaria e teleologicamente definita, ma di una compresenza dei generi che nel plurale hanno tutto il loro essere: «Come si sopravvive quando vi piazzano in corpo un dio? Prima dicevamo che fu come cacciare un sole in una sacca di pelle, quindi non ci si dovrebbe sorprendere della sua pelle spaccata o della mente rotta».

Come il pitone di cui è in origine figlia, Emezi cambia pelle, la scarifica, la intaglia, per modellarla intorno alla sua identità: si fa trinità e moltitudine, dà vita alla divinità attraverso la sua carne, il suo sangue e le sue parole. È nel dispiegamento delle possibilità plurime che libertà e identità trovano terreno fertile: il they dell’identità non binaria accoglie la complessità come elemento inclusivo, e sottrae alla definizione dicotomica la predominanza.

Nel 2018, dopo l’uscita di Freshwater, Akwaeke Emezi raccontò la sua transizione su The Cut: gli interventi di isterectomia e salpingectomia prima e mastectomia poi, furono ponti, attraversamenti, mattoni verso le proprie realtà. Si delinea fin dalle prime battute un autoritratto in cui si avverte tutta la necessità di dare un nome alle cose, al vissuto e al corpo che lo patisce, alla disforia di genere e all’identità non binaria: come gli spiriti più arcani e potenti racchiudono e disvelano la loro vera essenza nel nome, Emezi pronuncia il suo nome e nell’urlarlo lo scopre plurale. Transgender non binaria e ogbanje, è corpo che si fa narrazione e narrazione che si fa corpo, decostruendosi e definendosi come persona, come spirito e come intellettuale. Akwaeke Emezi incarna pertanto un’intersezionalità tra identità non binaria e identità ogbanje: nel riconoscersi come persona transgender e, parallelamente, ogbanje, Emezi si pone come crocevia tra i generi, trascendendoli come categorizzazioni limitanti, nonché come definizioni strettamente umane: «Non c’era niente di nuovo. Eravamo sempre stati gli stessi, fin dalla prima nascita, passando per il secondo nome ricevuto, la terza muta. Far sì che l’involucro ci assomigliasse un po’ di più – quello era tutto il nostro intento. Ciò che siamo lo abbiamo capito, i luoghi in cui siamo sospesi, tra gli inaccurati concetti di maschile e femminile, tra il noi e i fratellisorelle che sbavano dall’altra parte».

Il voodoo si trasforma in una dilagante epidemia: la gloriosa civiltà occidentale avverte come una minaccia tutto ciò che travalica la netta divisione per categorie, sovvertendone i valori e mettendo in discussione la predominanza del bianco.

I culti sincretici africani, la cultura voodoo e le possessioni divine, sembrano allora essere fortemente legate a un’idea trasversale del divino e a un senso della transizione come condizione di compartecipazione con il divino: come Exù, colui che è ovunque ci sia uno scambio, l’identità individuale si pone al centro del crocevia, divenendo così presupposto di ogni senso e definizione, fondandoli e trascendendoli tutti.

È per tale motivo che in Mumbo Jumbo, romanzo postmoderno di Ishmael Reed, il voodoo si trasforma in una dilagante epidemia: la gloriosa civiltà occidentale avverte come una minaccia tutto ciò che travalica la netta divisione per categorie, sovvertendone i valori e mettendo in discussione la predominanza del bianco; è sempre il voodoo a far emergere, come una marea dirompente e inarrestabile, il rimosso culturale nero: «Ciò che l’africanismo è diventato per l’immaginario letterario, e il modo in cui ha funzionato al suo interno, è di estrema importanza perché , grazie a un esame ravvicinato del “nero” nella letteratura, si può forse scoprire la natura – addirittura la causa – del “bianco”».

La fluidità dell’identità voodoo è dunque quella che proviene dall’incontro di più realtà, che arriva e torna al crocevia, che si apre e dipana in molte direzioni: è quella che permette all’umano di essere divino, di non essere eterodiretto sempre e solamente verso una meta univoca, un’identità definita, granitica e predefinita.  Nel romanzo di Reed la coscienza sporca dell’uomo occidentale bianco, «aristotelico» e «storicista», sente tremare la terra sotto ai piedi; il rimosso del valore fondante del nero nell’identità statunitense, l’autorappresentazione dell’identità maschile, bianca e cristiana, rischiano di sgretolarsi sotto i colpi di tamburo del crescente Jes Grew – un virus voodoo che ha in sé il germe di una metafisica nera che spalanca le porte del ripensamento dell’alterità e dell’identità. Nelle parole di Reed:

Cos’è mai questo feticismo degli Americani per le autostrade?
Vogliono sempre arrivare da qualche parte, suggerisce LaBas.
Perché c’è qualcosa che li rincorre, aggiunge Black Herman.
Ma che cosa li rincorre?
Rincorrono se stessi. Lo chiamano destino. Progresso. Noi li chiamiamo spettri. Gli spettri delle loro vittime che sorgono dalla terra dell’Africa, del Sudamerica, dell’Asia.