Vivere e morire in uno stato di eccezione
Da quando è iniziata la nostra piccola fine del mondo virale, penso spesso ad alcune storie, ad alcuni tormentoni subculturali a cui mi ero inconsciamente appassionato prima che tutto cominciasse, prima che le mie forze cognitive fossero risucchiate dalle montagne russe esponenziali del contagio e dalla preoccupazione della febbre incipiente. Penso o, per meglio dire, sono spesso vittima di pensieri intrusivi e sconclusionati, ad esempio, su una delle ultime passioni delle nuove, giovani destre e di una nutrita legione di memer post-ironici: le nostre kafkiane condizioni di vita nel prossimo futuro.
Più precisamente, ricordo involontariamente e con un certo sgomento come, fra ottobre dell’anno scorso e metà gennaio, molti destrorsi «alternativi» e user anonimi, con le rispettive waifu come foto profilo, passassero intere giornate su Twitter e 4chan indignati, più o meno ironicamente, dall’idea puramente ipotetica di dover essere costretti a vivere, nei catastrofici anni che ci aspettano, in appartamenti-capsula (in inglese, pods) mangiando insetti. Il disgusto e la repulsione nascevano, se la mia memoria dei giorni prima del disastro non mi inganna, da due articoli: uno pubblicato dal blog reazionario ZeroHedge – scritto, a quanto pare, da Tyler Durden in persona – e l’altro dalla CCN; nel primo caso si analizzava, con una certa fantasia, la follia delle condizioni abitative a Los Angeles, e nel secondo i radicali cambiamenti alimentari che dovremo affrontare a causa della crisi climatica che stiamo vivendo. Da qui, nacque una lunga serie di tweet e post in cui si giurava fra il serio e il faceto che, qualsiasi cosa fosse accaduta, avremmo fatto di tutto per non abbandonare la nostra umanità e, soprattutto, non ci saremmo mai e poi mai ridotti a vivere in una capsula a mangiare insetti.
La parata di guaiti e meme terminò in un’escalation letale che partorì un’immagine apocalittica, un’incarnazione estrema di questa futura regressione insettoide: il letto da gaming – ultima metamorfosi della sedia pieghevole e iperconfortevole da gamer, adatta a interminabili sessioni videoludiche, anticipazione funesta di un’umanità rinchiusa in celle minuscole, collegata per via endovenosa al fever dream della rete, immobile e smidollata.
In questo caso, il mio parassita cognitivo, la mia involontaria ossessione per questa cazzata può giustificare la sua esistenza senza troppi problemi. Dopotutto, alla luce di quanto accaduto nelle ultime due settimane, c’è qualcosa di profetico in questa paranoia collettiva, in questa indignazione anti-alienazione, terrorizzata dall’idea di regredire nel ventre sicuro di case troppo piccole per i nostri bisogni e desideri. Verrebbe da dire che era nell’aria, se non suonasse così macabro. Nessuno di noi poteva immaginare che ci saremmo ritrovati effettivamente rinchiusi in casa, in difesa del bene collettivo, costretti a misurare quanto le nostre abitazioni ci stiano strette e a misurarci la febbre a vicenda fra un messaggio e l’altro; è come se, intimamente, già lo prevedessimo e lo temessimo – e lo desiderassimo, forse. Oggi tutto questo sembra un sinistro esercizio di veggenza.
Eppure, fosse anche solo per vantarmi di quanto i miei pensieri intrusivi siano concettualmente pregnanti, credo che il motivo per cui questa idea sia diventata una mia ossessione ricorrente durante il mio periodo di reclusione antivirale sia un altro, più astratto. Credo che il motivo sia Giorgio Agamben. Ma lasciatemi spiegare.
Analizzando questo fenomeno di massa (all’incirca), l’anonimo autore del caustico blog Totalitarian Collectivism, una delle voci più interessanti della blogosfera anglosassone, ha sottolineato due punti relativamente ovvi, ma sicuramente interessanti, che caratterizzano questo meme. Questo tormentone è palesemente mosso, infatti, da due pulsioni inconsce fondamentali, da due spinte diverse e complementari.
La prima è quella che potremmo definire una pulsione xenofoba, nel senso più letterale e meno emotivo/moraleggiante del termine. Questo meme ci fa ridere, ci fa provare una certa repulsione o ci terrorizza perché abbiamo una paura folle dell’Altro, dei cambiamenti radicali che ci attendono e dell’incomprensibilità del mondo che ci circonda e che ci circonderà. Alla radice di questo fenomeno c’è l’idea, nemmeno troppo implicita, che la modernità implichi una perdita di umanità in favore di un Altro ignoto e antisociale, una distruzione di quella comunità umana che ci garantisce una sorta di stabilità e normalità di specie. Isolandoci e ingozzandoci di insetti, il proverbiale stivale orwelliano che calpesta un volto umano per sempre, simbolo della modernità più efferata e fuori controllo, elimina qualcosa di essenzialmente e unicamente umano, cancella la nostra vicinanza col «prossimo» e con noi stessi, avvicinando pericolosamente e inevitabilmente la nostra espunzione dalla faccia della Terra. Per questo, secondo la legione di indignati, memer e shitposter, queste barbarie devono essere fermate e l’umanità deve essere preservata, ad ogni costo. Mangiare scarafaggi ci fa schifo, ma mai quanto lo shock del futuro prossimo che ci attende e le sue conseguenze.
In secondo luogo, e questa è forse l’osservazione più interessante, questo immaginario pulp, conservatore e antimoderno, ha un’altra funzione, meno ovvia e che scivola sotto la soglia della coscienza. Per comprenderla, dobbiamo prendere questo meme sul serio, cercare di capire cosa dice su di noi e sul nostro futuro. Se tentassimo, infatti, di prendere alla lettera lo scenario proposto dal meme, dovremmo ammettere che nessuno di noi, realisticamente parlando, si troverà a vivere in una capsula, abitazione fin troppo futuristica per l’avvenire di questo pianeta, e la scelta di mangiare insetti potrebbe essere, per l’appunto, una scelta e non un obbligo del Grande Leviatano climatico. In altre parole, dovremmo constatare che chi si oppone a questo stile di vita, ironicamente o meno, non sta combattendo contro qualcosa di reale, ma sta allucinando uno scenario sci-fi in cui lui o lei è l’eroico e il quasi sicuramente vittorioso protagonista, che non dice nulla di concreto sul futuro della nostra specie.
Questa regressione mortifera e questo orrore culinario non hanno evidentemente una funzione predittiva, e non sono mossi dalla volontà di fermare una tendenza degenerativa realmente in atto nella società contemporanea, ma sono delle narrazioni fantastiche, collettivamente nutrite e mobilitate per sublimare e semplificare una crisi complessa e cognitivamente difficile da mappare e controllare. Se, infatti, è indubbiamente vero che le condizioni di vita stiano peggiorando rapidamente e che i cambiamenti climatici richiederanno interventi e azioni potenzialmente dolorose, è altrettanto vero che la capsula e il piatto di insetti sono solo simboli pallidi e facilmente addomesticabili di un immiserimento e di una catastrofe sociale e politica che facciamo fatica a concepire e immaginare in tutte le sue profonde e tremende implicazioni. Sono un miraggio divertente, che osserviamo per non prendere atto della realtà che ci si para davanti. Citando l’anonimo blogger: «La miseria e la paura della nostra vita quotidiana vengono rimpacchettate e ci vengono vendute come distopia. Le contraddizioni del nostro sistema ci vengono raccontante come un racconto di fantascienza e vengono estetizzate, appiattite e messe a una distanza di sicurezza. […] Una vita in una capsula e una dieta a base di insetti non sono argomenti di cui vale la pena parlare quando c’è gente che già è costretta a vivere in appartamenti minuscoli ingozzandosi di fast food di merda. Come sempre, queste fantasie sono le ansie di chi sta relativamente bene, convinto che gli orrori che stanno già colpendo gli altri toccheranno anche a lui».
Questo Giano bifronte, claustrofobico e entomofago, davanti xenofobo, terrorizzato del non-umano e perso in un eterno attacco di panico, e dietro allucinato e illuso, mi è tornato ricorsivamente in mente leggendo i brevi articoli di Giorgio Agamben sul covid-19, usciti in queste ultime settimane (qui e qui). La struttura dei questi saggi striminziti, d’altronde, non è troppo diversa dalla fantascienza fiacca e asfittica dei mangiatori di blatte. Letti in controluce e con una certa attenzione, gli articoletti di Agamben rivelano entrambi i volti di questo tipo di narrazione apocalittica, risultando una versione colta, chiaramente involontaria, di questo folklore digitale.
A una rapida lettura, infatti, la caratteristica che appare più evidente è che il filo rosso che unisce i due scritti è un crasso conservativismo e un terrore, al limite della fobia irrazionale, di quello che la catastrofe virale sta facendo alla comunità umana, entità aprioristicamente buona e degna di essere preservata, anche a costo di negare un disastro senza precedenti nella storia recente.
Più precisamente, rileggendo gli articoli si può rintracciare un vero e proprio climax di orrore, che parte con un gentile rifiuto della gravità del virus, scandito da frasi come «Di fronte alle frenetiche, irrazionali e del tutto immotivate misure di emergenza per una supposta epidemia dovuta al virus corona» e «La sproporzione di fronte a quella che secondo il Cnr è una normale influenza», affermazioni invecchiate in maniera davvero grottesca nel giro di qualche giorno, per proseguire con analisi dal fiato sempre più corto sulla restrizione delle nostra libertà, senza chiaramente spiegarci che cosa voglia davvero dire essere liberi, questo valore inalienabile e supremo, in un corpo sociale abitato da un virus così aggressivo, che culminano in un grido disperato, degno del peggior moralismo ecumenico: «Il nostro prossimo è stato abolito». Chiamate un esorcista!
È facile vedere come questo arco narrativo non sia altro che la manifestazione di un certo tipo di panico, di un rifiuto irrazionale di guardare in faccia la situazione e di affrontare il compito difficile e sgradevole di dare una forma a un’etica del contagio, della cura, della reclusione e della morte.
Non potendo o non volendo affrontare l’Altro che ci si para davanti, questo prossimo nostro – il virus – totalmente cieco e privo di ogni riguardo nei confronti del tessuto socioculturale, Agamben si chiude in posizione fetale finché riesce, e quando la situazione si mette male lancia un vuoto j’accuse contro l’inevitabile decorso del virus e le reazioni, comprensibilmente dure, del corpo collettivo ammalato. Ovviamente, e mi imbarazza profondamente il sentirmi in obbligo di sottolinearlo, la mia critica non è un’apologia servile alle misure prese finora dal governo – e con «dure reazioni del corpo sociale ammalato» intendo una casistica molto più ampia rispetto alle azioni del macchinario statale, casistica che comprende anche rivolte, azioni di protesta e l’organizzazione di reti di mutuo soccorso, on e offline – ma, se l’unica via propriamente critica è l’impossibilità di discutere le condizioni concrete, tecniche e politiche di questa pandemia e la difesa dogmatica della «libertà» a discapito di tutto e tutti, lasciatemi il mio stato d’eccezione!
In fin dei conti, è facile vedere come questo arco narrativo non sia altro che la manifestazione di un certo tipo di panico, di un rifiuto irrazionale di guardare in faccia la situazione e di affrontare il compito difficile e sgradevole di dare una forma a un’etica del contagio, della cura, della reclusione e della morte. È un’analisi mossa dallo stesso disgusto che ci fa dire «no, costi quel che costi non vivrò in una capsula e non mangerò uno scarafaggio», è lo stesso rifiuto ipermoralista e totalmente impotente di affrontare la «malvagità» del mondo che ci circonda. Negare la gravità della situazione e lagnarsi per la perdita di una supposta libertà, pre-lapsaria e pre-viroide, permette ad Agamben di non affrontare il gelo artico dei calcoli della medicina e della clinica della catastrofe, le difficoltà di chi cerca di costruire nuove comunità fra le rovine e l’imbarazzo e il peso di immaginare una condotta veramente etica, fedele alla realtà che ci circonda e in grado di non cadere supina davanti alla gravità della situazione. Gli permette, in altre parole, di dar voce al proprio disgusto nei confronti del trauma del presente, senza doverci far niente. Come ha affermato Davide Grasso, nell’unica critica davvero centrata dei questi ultimi exploit agambeniani: «Certa critica teorica, in ambito accademico e “militante”, ha scelto di ritagliare per sé il vezzo esclusivo ed escludente del negativo puro: si limita ad analizzare le dinamiche di potere, chiamandosi fuori dal problema decisivo che esso rappresenta anche per la trasformazione».
Sotto questo rifiuto esplicito e francamente poco interessante, serpeggia, però, il lato davvero insidioso e totalmente allucinatorio dell’analisi agambeniana, il rovescio della medaglia che ci permette di vivere in una versione addomesticata e simulata della realtà che ci circonda, in cui ogni agente naturale rispetta la nostra teoria critica e ne supporta incondizionatamente gli assiomi e le conclusioni. L’inconscio di questo rifiuto moralistico del presente, infatti, nasconde la volontà di estendere le nostre categorie teoriche a tutto il reale, inglobandolo e soffocando ogni asperità, cauterizzando immediatamente la lacerazione cognitiva della pandemia.
Gli articoli di Agamben sono una vera e propria parata di personaggi fantastici e fantasmatici, esseri luminosi e autoevidenti, che mascherano la gravità della situazione, l’addomesticano e la incasellano in categorie note e facilmente riconoscibili.
Il protagonista assoluto è lo stato di eccezione, ossia la categoria schmittiana che descrive quei momenti in cui il potere sovrano sospende la validità delle leggi dello Stato. Questa categoria politica, centrale per l’opera di Agamben, è stata usata, seppur sotto mentite spoglie, per descrivere un po’ tutta la storia politica mondiale, dal diritto romano fino al terrorismo contemporaneo.
Ovviamente, anche davanti ai decreti del governo italiano contro il covid-19 ci ritroviamo ad aver a che fare con questo volto notissimo. Altrettanto ovviamente, davanti a una categoria che sembra poter essere estesa indefinitamente a tutto il reale, dovremmo chiederci se non sia ormai divenuta – o se non sia sempre stata – una dotta finzione, un’allucinazione di massa per persone a cui la massa non piace poi tanto, utile solo a semplificare il sofferto e imprevedibile percorso della nostra specie su questo pianeta. Come gli insetti e la capsula ci facevano simulare una versione controllata e semplificata delle apocalissi future, così lo stato d’eccezione ci permette di allucinare una crisi mondiale in cui ogni rivolgimento e shock sono già stati previsti e dominati dalle nostre teorie.
Come se non bastasse, a fianco di tale maschera teorica abbiamo un vero e proprio cast di celebrities astratte della teoria critica post-agambeniana, che ci cullano durante la nostra traversata di questo Stige pandemico: lo stato di eccezione come nuovo paradigma di governo, la militarizzazione della vita quotidiana, le gravi limitazioni della libertà (individuale?), il cittadino anonimo e normale che prima poteva tramutarsi in terrorista in ogni momento e oggi può diventare senza preavviso un pericoloso vettore del contagio – cosa che, a livello epidemiologico, è un vero e proprio truismo, dato che il virus pare non nutrire particolari predilezione per determinate categorie culturali, la storia umana in generale e nemmeno per la scolastica medievale… – e, vertice del kitsch da peste nera, I promessi sposi. Tralasciando la pregnanza di ogni singolo concetto mobilitato in questi articoli, è tremendo constatare come il piano di contenimento del danno pandemico stilato dalla teoria critica fossa già scritto da decenni e presentire come questo copione si ripeterà per ogni crisi a venire, a discapito delle complessità e delle sofferenze che dovremo affrontare. È triste ed evidentemente inutile criticare il covid-19 con le stesse categorie con cui abbiamo criticato George W. Bush junior, allucinando un lavoro culturale che evidentemente non stiamo facendo e cercando una protezione cognitiva dalla realtà che non possiamo e non potremo trovare.
Dalla mia critica, è bene notarlo, non discende logicamente la necessità di abbandonare ogni finzione e di toccare con mano il reale, senza mediazioni. Non credo, infatti, nei contatti immediati e nella conoscenza intuitiva, ma nel lavoro comunitario di dare e ricevere ragioni che motivino le nostre azioni, le nostre forme-di-vita e le nostre previsioni. Sarebbe irresponsabile da parte mia spingere i miei lettori ad affrontare il presente senza illusioni e senza fantasmi a cui aggrapparsi. Inoltre, davanti a un virus totalmente ignoto, tanto a livello concettuale e intellettuale quanto a livello immunitario e biologico, ogni previsione, ogni tentativo di controllo e immunizzazione, ogni decreto statale e ogni atto sovversivo sono dei salti nel buio, delle elaborate finzioni e delle bugie, più o meno innocenti, che potremo valutare solo sul piano pratico e in differita, in un futuro in cui tutti gli effetti del virus si saranno fatti carni, un tempo che potrebbe non essere esattamente prossimo.
Ciò che invece vorrei discendesse logicamente da quanto detto è la necessità di essere all’altezza della situazione che ci ha inglobato, uscendo dai recinti troppo noti di una teoria critica stanca e asfissiante. Di non sacrificare gli scioperi spontanei, le rivolte in carcere, gli esperimenti e i fallimenti, i polmoni collassati e gli organismi guariti sull’altare di una semplicità concettuale posticcia e anemica, di un «già visto e già sentito» inutile e vuoto. Di teorizzare il disastro, non per unificare e comprimere la molteplicità della normalità estrema che ci è toccata in sorte, ma per de-privatizzare e rendere pubbliche le nostre ulcere cognitive e le nostre nevrosi davanti a un fenomeno inumano, che ci ha colti totalmente alla sprovvista e che ha mandato in tilt ogni nostra categoria concettuale. Per esporci all’aperto e alla vertigine della pandemia. Per essere all’altezza della nostra ferita, e dei nostri colpi di tosse.