Il Verbo secondo James Ferraro
Chiunque, nel prossimo futuro, avrà intenzione di scrivere una storia della musica degli ultimi venti anni si troverà costretto a dedicare un lungo capitolo a James Ferraro e a tutte le sue varie emblematiche evoluzioni. L’artista americano è infatti riuscito a costruire una carriera ricca di dischi memorabili, ma anche di svolte stilistiche che in diverse occasioni hanno creato vere e proprie scene musicali.
Nei primi anni Duemila, giovanissimo, è già alfiere del nuovo noise americano con The Skaters, assieme al compagno Spencer Clark. Il loro progetto ha il solo obiettivo di arricchire di nuove sfumature il concetto di inascoltabile, senza considerare troppo l’idea di trovare un punto di incontro con la fruibilità: per questo già nel 2008, ma con sulle spalle più di una ventina di apparizioni discografiche ai limiti del legale, si rendono conto che hanno forse detto tutto.
È forse impossibile catalogare con precisione le varie decine di altri progetti in cui era coinvolto, dal gruppo con l’amico Ariel Pink al VHS Rapture Adrenaline, che già mostra le sue velleità cinematografiche, a tanti altri assurdi nomi, spesso dalla dubbia corrispondenza discografica effettiva, che intasano la sua pagina Discogs. Ciò che è fuori da ogni dubbio è il fatto che James Ferraro fu sin dai suoi esordi tra i protagonisti del periodo dell’era retromaniaca. Non a caso Simon Reynolds gli dedica diverse pagine di Retromania, riconoscendo al suo processo artistico una spiazzante consapevolezza teorica. In effetti, lo spirito di quegli anni di soporifero cul de sac culturale fu ben espresso dall’«hypnagogic pop», etichetta coniata da David Keenan proprio in seguito a una ormai storica intervista che fece a Ferraro per il mensile The Wire. In quegli anni si assisteva a una sfilata di revival che prendeva in considerazione i più disparati e dimenticati generi degli anni Settanta e Ottanta: il suo modo di omaggiare la neo-psichedelia new-age di matrice drone si concretizza attraverso tre memorabili dischi del 2008, Discovery, Clear e Marble Surf, nonché Last American Hero, del 2010. L’apoteosi synth raggiunta dai suoi album – e da quelli dell’amico Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never) – può dirsi conclusa con un album che racchiudeva al proprio interno i feticci degli Ottanta più pomposamente vistosi e vergognosi, significativamente intitolato Night Dolls With Hairspray.
Dopo l’abbuffata nostalgica arrivò il suo disco più shockante e discusso, quello che materializzò la sua svolta più netta, ma che soprattutto suscitò, nel suo piccolo, una presa di coscienza su quella corrispondente contemporaneità, non solo culturale. L’opera in questione è naturalmente Far Side Virtual, l’album della tanto attesa sterzata digitale, nella quale erano riposti i germi della vaporwave più intelligente e dell’elettronica hi-tech. Dopo averlo piazzato al primo posto della loro seguitissima lista degli «Albums of the Year», i redattori di The Wire furono costretti a scrivere una lettera di scuse rivolta ai lettori, insorti contro questa scelta. Tanto scalpore non fu dovuto soltanto all’importanza simbolica che si voleva dare a una scelta del genere, anche perché quella che fece seguito al 2011 non fu certamente la prima scena elettronica che la storia della musica ricordasse, quanto piuttosto ai suoni rubati da internet e a quell’estetica iper-tecnologica tutta orientata alla connessione e al consumo di cui era interamente composto il disco.
Dopo Far Side Virtual sono arrivati voyeuristiche descrizioni del consumismo (Sushi) e un paio di mixtape che intrallazzano con la trap più distorta e il marciume più infetto delle strade americane (l’ep a nome user703918785 e BEBETUNE$), per poi trasformare questa decadenza metropolitana in due dischi memorabili che dicono molto degli Stati Uniti degli ultimi anni: NYC, Hell 3:00 AM e Skid Row. In quest’ultima fase, probabilmente la sua più poetica in senso canonico, si profonde in squarci di spleen autoriale a metà tra la baudrillardiana tentazione utopica di America e la provocazione politico-sociale di Capital: New York, Capital of the 20th Century di Kenneth Goldsmith.
Nelle sue ultime uscite si ritrovano invece suoni prettamente sintetici che salutano i grandi magazzini e le catene di montaggio di Amazon (Human Story 3) o oscure profezie incalzate da un mondo che sembra battere i suoi ultimi colpi, per via di una tecnologia che diventa sempre più autonoma e intelligente e di un’umanità incapace di far fronte al lento ecocidio che ha messo in atto. È un Ferraro che si relaziona al Capitale in maniera nuovamente diversa rispetto al passato, che mette da parte la vivacità flaneuristica di Far Side Virtual e inizia a immaginare che cosa resterà del mondo e dell’umanità tra qualche anno. Procedono su questa linea album come Troll, Four Pieces for Mirai e il recente Requiem for Recycled Earth. Ulteriori diramazioni del suo pensiero che solo in seguito a uno sguardo retrospettivo sulla sua intera produzione tratteggiano la forma della complessità della sua opera, spesso ingiustamente considerata troppo cerebrale e concettosa.
La tournée di Requiem for Recycled Earth ha recentemente toccato anche l’Italia passando per Roma, dove abbiamo incontrato Ferraro per una chiacchierata iniziata proprio da quel controverso disco del 2011…
Partendo da Far Side Virtual la tua musica ha avuto una lunga evoluzione, che è passata anche attraverso molti progetti paralleli (user703918785, BEBETUNE$). Scrivendo Elettronica Hi-Tech ho dovuto necessariamente riflettere su alcune tappe del tuo percorso e mi è parso evidente che in Far Side Virtual, sebbene il fascino nei confronti della moderna tecnologia abbia giocato un ruolo importante, le radici vadano ricercate nel noise. E qui io e Manlio abbiamo una discussione in corso da un po’. Manlio sostiene che Far Side Virtual, nonché tutta l’ondata «digitale» che ne è seguita, fosse una sorta di reazione a quello che veniva percepito come un esaurimento del noise, mentre secondo me si tratta piuttosto di una sua naturale evoluzione.
Dipende. Personalmente ritengo che il noise si inserisca nel solco dell’improvvisazione (come quello che facevo con The Skaters), un po’ come il free jazz e in generale tutta la decostruzione musicale. Effettivamente ho pensato anche io a tale questione e la mia conclusione è questa. Penso che all’epoca ci considerassimo appunto parte della tradizione della musica contemporanea a noi precedente. Tu parli di esaurimento: ti dico, io non vedevo Far Side Virtual come molto differente da quello che facevo con The Skaters; è stata una sorta di evoluzione. Ci sono stati dei micro-passaggi intermedi, se guardi bene a quel periodo, proprio verso Far Side Virtual.
È divertente, ma per qualche ragione di recente ho preso ad ascoltare alcune mie vecchie registrazioni, cosa che non faccio mai… Ad ogni modo, sebbene mi senta abbastanza distante da quella roba, al tempo stesso ho sentito cose che mi sembrano connesse, in un certo senso.
Chiaramente, puoi immaginare che sono molte le questioni che girano intorno a Far Side Virtual: è un disco che ha cambiato le regole del gioco. Sebbene fosse letteralmente incentrato sulla contemporaneità, all’epoca è stato percepito come una sorta di presa di posizione «morbida» sulle sue tensioni e sulle sue contraddizioni. Nel senso: tutte queste problematiche erano documentate meticolosamente (in termini musicali) ma l’impressione è che il mood generale ti piacesse. I tuoi dischi successivi sono al contrario molto più critici: affrontano tematiche come l’alienazione, il medioevo digitale, l’inquinamento, l’estinzione, come lo stesso concept di Mirai. È così?
Intendi la critica nei confronti di ciò di cui Far Side Virtual parlava, come se avessi in un certo senso alzato il tiro? Penso in realtà di aver iniziato a concentrarmi un po’ di più su quegli aspetti. Penso che Far Side Virtual sia stato profondamente frainteso quando è uscito e che molte persone stiano iniziando a capirlo solo ora. Non penso di stare alzando il tiro: a me sembrava piuttosto ovvio. Quando è uscito è stato visto come retro, nostalgico, roba tipo computer/PC; adesso che il discorso si sta in un certo senso ripresentando, con l’accelerazionismo e cose simili (e questa era più o meno la mia intenzione all’inizio), è divertente vedere come le persone si stiano mettendo in pari con esso. Quello che è stato percepito come un’alzata di tiro è stato in realtà un approccio meno sottile e un po’ più pesante, ma questo è avvenuto perché la situazione si è fatta più disperata, più reazionaria. Gli effetti negativi per l’ambiente, il cambiamento climatico, stanno diventando più forti.
Passiamo a un altro problema molto discusso. Questa «scena», se mi passi il termine, hi-tech/HD di cui sei parte, e di cui sei anzi riconosciuto come una delle figure decisive, e che include al suo interno anche parte dell’attuale ondata trap, ha in un certo senso detronizzato l’indie, quantomeno nel suo ruolo di musica di controcultura. Nel senso: la musica di contro-cultura sembra non essere più calda, analogica, lo-fi. È piuttosto fredda, tecnologica, distante. Oltretutto non è più nostalgica, ed è divenuta qualcosa che può essere prodotto da chiunque e pubblicato direttamente su internet. Fondamentalmente è passata dall’essere la musica che registravi usando la tecnologia di tuo nonno all’essere quella che registri con la tecnologia di tuo nipote. Che ne pensi
In un certo senso questo è vero. Credo che gli strumenti della «ribellione» che chi faceva indie utilizzava siano diventati obsoleti, che siano in un certo senso stati inghiottiti dalle pubblicità delle macchine fotografiche. L’approccio attuale è un po’ più accelerazionista, e si sta in un certo senso fondendo con il sistema, nel senso di accelerare per distruggerlo. Quello che la gente sta facendo è anche una prova di questa intensità. Tutto è diventato più intenso: tutti quanti vanno a velocità frenetica 24/7. Come dici tu, una volta si poteva fare qualcosa di fico con la tecnologia di tuo nonno; la tecnologia di oggi è invece così pervasiva che non puoi fare a meno di interagirci.
Da quanto dici, rimanendo nella metafora di prima, mi pare di capire che si tratti quindi della nostra tecnologia, quella attraverso cui viviamo quotidianamente. Tipo lo smartphone.
La cosa interessante è il cambio di passo. Tu hai trent’anni più o meno, no? Ritengo che anche le persone che hanno vent’anni si sentano dislocate dalla velocità del cambiamento. Una volta la gente poteva avere una carriera musicale lunga trent’anni, semplicemente facendo canzoni. Adesso la velocità di cambiamento è accelerata al punto che le persone di vent’anni si ritrovano a essere già datate. Hai circa un anno, dopo di che hai chiuso.
Si è parlato molto di nostalgia nei confronti di un futuro mancato. Personalmente ritengo che chi ha oggi vent’anni soffra di nostalgia per un presente mancato.
Penso che chi ha oggi trent’anni, cioè questa generazione, si riprenderà tutto. Ci giurerei: nel momento in cui riusciranno a impadronirsi del potere politico effettivo, sembrerà assurdo. Questa generazione io la definisco «FM synthesis generation.»
Fondamentalmente direi che questa generazione chiederà alle persone giuste (o a quelle sbagliate: dipende dalla prospettiva): «dove vi nasconderete?»
Sì sì sì, esatto! Mi sembra che siamo in una fase un po’ bizzarra: è in atto una ridistribuzione delle cose e credo che le persone di questa generazione siano perennemente sull’orlo del cambiamento. Niente è veramente stabile. Quando erediteranno il potere politico, questa esperienza sboccerà e tutto acquisterà senso. Ti dico: questa generazione si è preparata per qualcosa. È bizzarro.
Nel tuo ultimo disco (Requiem for a Recycled Earth) sembra quasi che tu abbia cercato di recuperare il tipo di musica che normalmente si sente nei musei di arte contemporanea, non molto differentemente da quelle operazioni di riscoperta che hanno coinvolto la library music. Ed effettivamente tu hai presentato alcuni tuoi dischi nei musei. Qual è il tuo rapporto con queste istituzioni? C’è una qualche forma di legame con tutta la questione «retromaniaca?»
Guarda, su certe cose specifiche io sono retromaniaco, ma non voglio che questo acquisti in qualche modo un suo status. Non credo in questo genere di cose. Non vorrei «de-complicare» le cose. La complessità nella società è un aspetto veramente interessante: più diviene complessa, più è interessante. Certo, mi rendo conto che questo è un approccio un po’ bizzarro. Per quanto riguarda i musei, stanno lentamente diventando una sorta di alleati, come dicevi, perché persone più giovani si trovano nella posizione di portare gente come me al loro interno. Le persone sono un po’ più permissive a proposito di ciò che ammettono in questi posti. Hai presente il MOMA, a New York? Hai presente quando metti qualcuno in attesa al telefono? Se chiami il MOMA e ti mettono in attesa, parte la mia musica. Mi è stata commissionata. È assurdo, è folle! Per me è assurdo. Queste opportunità sono grandiose. Mi sono state proposte commissioni da un museo a Mosca, mi sono state chieste da Tokyo. È raro, ma succede.
Però vorrei dire una cosa a proposito della nostalgia: penso che le persone si sentano dislocate dalla velocità del cambiamento. Passi tutta la tua infanzia ad ascoltare un determinato tipo di musica e nel momento in cui maturi e sai tutto a proposito di questa musica e sei pronto a migliorarla, ecco che il mondo intero se l’è lasciata alle spalle. Il punto è quello: le persone si stanno ritrovando dislocate.
Temporalmente dislocate, direi.
Per millenni le persone hanno imparato determinate cose da bambini e sono diventate adulte facendo queste stesse cose, e penso che la loro vita fosse più completa. La nostra vita è più frammentata: ogni cosa che impari da ragazzino è già obsoleta. Tutta la musica che ricordi è di fatto morta. Praticamente potresti essere nato su Marte. È bizzarro.
Domanda insidiosa: come immagini il futuro?
Onestamente, e tristemente, penso a una Terra esaurita. Tendo a pensare all’esaurimento delle risorse, alla sovrappopolazione, etc. Ci sarà una specie di soglia, un punto di rottura. Quando raggiungeremo quel punto sarà assurdo. Penso che ne verranno fuori anche cose belle, ma quando quel momento sarà giunto sarà già troppo tardi: la Terra sarà parecchio traumatizzata a quel punto. Però chissà, forse le persone riusciranno a cambiare i loro comportamenti: non ne ho idea.
Quindi non c’è posto per l’utopia. Che cosa rispondi se ti dico «capitalismo?»
Capitalismo? In generale, esserne parte fa abbastanza schifo. Non è la modalità di esistenza ideale su questo pianeta, ma penso che sfortunatamente sia il sistema più realistico che la Terra abbia prodotto, e ho la sensazione che ci siano altri progetti che sono stati tentati e che hanno fallito miseramente. Penso che il capitalismo segua una sorta di legge di natura, un po’ darwiniana, e che sia per questo che riesca a funzionare. Simula alcuni meccanismi naturali.
Per la sopravvivenza del più forte/adatto/ricco?
O del più furbo. Penso che tutto sommato funzioni, e ne apprezzo anche alcuni aspetti, ma in generale, trovarcisi in mezzo fa abbastanza schifo.
Per carità, saremmo ipocriti se fingessimo che non ci siano aspetti che possono essere apprezzati.
Voglio dire, l’alienazione che deriva dal lavoro è piuttosto tragica. Penso che il fatto che le persone vengano a esistere e non possano far altro che dare le loro energie a qualcun altro sia la cosa più tragica. Ci sono così tante persone che non hanno mai vissuto l’esperienza di fare qualcosa che benefici loro stesse, fosse anche sostentarsi, o anche il loro benessere. Questo è molto triste. Non credo che saremmo mai capaci di esperire una condizione di anarchia, tipo uno stato di natura: pre-linguistico, pre-economico, pre-legale. Un’esperienza del genere sarebbe fuori di testa, ma abbastanza irrealizzabile. Penso che una volta che impari il linguaggio tu sia fondamentalmente condannato.
Se il mondo crollasse domani, solo i figli dei figli dei tuoi figli potrebbero assomigliare a esseri umani nello stato di natura. Ci vorrebbero generazioni per cambiare rotta.
Un’ultima domanda, a proposito di synth e oltre. Personalmente ho sempre ritenuto la tua musica e i tuoi concept quelli di una persona preoccupata. Adesso che finalmente Far Side Virtual è stato compreso, con tutte le sue preoccupazioni a proposito della società, potremmo dire che la prospettiva si è allargata lungo la strada. Con NYC Hell, 3:00 AM e Skid Row sei andato più in profondità, mentre con Human Story 3 hai ampliato lo spettro. Adesso con Four Pieces for Mirai sei andato ancora più lontano, coinvolgendo l’intera specie umana. Con quello che abbiamo sentito stasera sembrava che tu volessi andare ancora oltre, superando gli stessi confini del pianeta. Alcuni dei suoni di synth sembravano quasi, se mi passi il paragone, vicini a certe cose di Vangelis, molto spaziali, cosmici.
È buffo che tu lo dica, perché effettivamente sto lavorando a un nuovo album, sulla morte dell’universo.
Dell’universo? Non semplicemente del pianeta?
È una cosa in quattro parti. La morte planetaria, la morte delle stelle, la morte cosmica e quella dell’universo. Voglio dire, deve accadere. A un certo punto l’intero universo morirà, ed è assurdo.
È una cosa insondabile. Eppure.
Ci ho pensato molto a lungo ed è buffo che tu lo abbia menzionato. Mirai è molto più sulla civiltà, sulla situazione umana sulla Terra. Per me, a livello personale, la morte o quello che è, sta diventando una sorta di questione esistenziale, che mi fa riflettere: il livello territoriale di Far Side Virtual, poi Mirai e oltre, fino all’entropia dell’universo. È il tiro alla fune tra l’ego umano e l’universo che è così forte. Se vivessimo in una condizione più naturale la morte sarebbe meno un problema. Penso che il motivo per cui la morte ci spaventa così tanto è che non siamo connessi con il nostro ambiente e non capiamo il nostro scopo. Se fossimo più connessi, capiremmo di più a proposito del nostro scopo, e sarebbe come se la morte non esistesse. La vita è la morte: sono la stessa cosa, ma poiché viviamo in una società, in una civiltà, siamo separati da quello stato di cose. Ora come ora siamo separati dal nostro scopo autentico e temiamo la morte perché non comprendiamo il nostro scopo. Mettiamo al mondo figli ma non è che questo risolva il problema. Non accettiamo veramente il fatto della nostra mortalità. Forse dovremmo esistere in una condizione più darwiniana. I don’t know, man!