Vandalizziamo il soggetto
Se ci poniamo di nuovo la questione del soggetto, lo facciamo prima di tutto a causa di un problema storico – o forse a causa di un’abitudine, nello stesso modo in cui diciamo «il sole si leva» quando tutti sappiamo che è la Terra a muoversi intorno al Sole. Ma la poniamo ancora una volta, finché non dovremo più farlo.
La teoria del soggetto può solo essere una teoria della soggettivazione, vale a dire una teoria su come i soggetti sono prodotti. Oggi partiamo dalla certezza che il capitale e il suo Stato hanno smesso da tempo di produrre soggetti e che la liquidazione del soggetto è un dato di fatto. Ciò che rimane, come un atavismo, è la soggettività.
Già nei seminari del 1979 Gilles Deleuze asseriva che il capitalismo aveva prodotto soggetti solamente finché nel rapporto di forza fra capitale variabile (i salari) e capitale fisso (le macchine) il primo aveva avuto la meglio. In altre parole, fino a che ci furono fabbriche e un proletariato industriale ben definito, assieme ad una altrettanto ben definita borghesia, il risultato era stata una soggettivazione: una certa base comune dell’esperienza di spazio e tempo, inscritta come soggettività distinte, come il lavoratore e il capitalista. Secondo Deleuze la nostra epoca non funziona più in questo modo: attraverso l’automazione, il capitale fisso delle macchine ha eclissato il capitale variabile dei salari. Il processo di circolazione del capitale, dunque, non produce più una soggettivazione sociale quanto piuttosto un asservimento macchinico.
Su questo tema, Deleuze era più ottimista di Karl Marx. Il soggetto, insisteva Marx nei Grundrisse, è liquidato dal capitale fin da principio. Tra esseri umani che partecipano al processo del capitale, «È impossibile», scriveva Marx, «rilevare una qualsiasi differenza o addirittura una antitesi tra essi, e neppure una diversità». Anche se ciò è vero solo per gli esseri umani considerati in un processo di scambio – ma ci sono altri tipi di umani nel capitalismo? – Marx si spinge oltre, concludendo che il capitale procede da sé stesso come il soggetto attivo, il soggetto del processo, indipendentemente dalle sue relazioni al lavoro. Marx sostiene che il solo soggetto del processo di circolazione del capitale è il capitale.
Ciò che questo significa per noi è piuttosto semplice: è solamente prima dell’emergere del capitale che si potevano trovare soggetti. Col capitale, non ci sono più soggetti – solo soggettività. Il Bloom, come è stato chiamato da Tiqqun, è presupposto dal capitale fin dal primo momento. E se continuiamo a credere che queste soggettività procedono da soggetti sostanziali, ciò è dovuto dalla natura essenzialmente feticistica del capitale. Questa è un’operazione classica. Le espropriazioni di massa che dissolsero le comunità europee tradizionali non furono seguite solamente dalla creazione di un proletariato urbano poiché il gesto fondativo del capitalismo fu anche la nascita di un nuovo modello di pseudo-comunità: la nazione.
I nostri amici in Alvernia, che parlano Occitano, o alverniese se preferite, certamente non si definiscono “francesi”. Non si definiscono in nessun modo: sono là. Ma meno comunità si possiede, più si tende ad abbracciare una pseudo-comunità, una nazione.
Consideriamo l’esempio della Francia medievale, che non ebbe mai un centro culturale chiaro. Nel suo territorio si parlavano dozzine di lingue, così come si fa tuttora. Ma dopo la Guerra dei Trent’anni, contro il particolarismo decentralizzato della nobiltà e le aspirazioni universalistiche degli Stati Papali, emerse un altro potere: la Monarchia Assoluta, che annunciò l’alleanza tra lo stato centralizzato e la borghesia emergente. La stessa nozione di Francia emerse come un’alleanza della borghesia con lo Stato, contro la religione e la nobiltà – ciò che Marx chiamò «la spinta progressiva del capitalismo». Ma questa idea di Francia non era semplicemente basata sul tentativo dei Luigi XIV, XV e XVI di combattere gli Stati Papali e schiacciare la nobiltà – era al tempo stesso la distruzione della comunità.
Mentre il processo del capitale dissolveva le comunità locali, si sviluppavano le pseudo-comunità nazionali. Quando la monarchia ebbe completato il suo compito, la borghesia tagliò la testa al re e proseguì oltre. Oggi è solo nella misura in cui le persone mancano di una comunità che si fanno chiamare “francesi”. I nostri amici in Alvernia, che parlano Occitano, o alverniese se preferite, certamente non si definiscono “francesi”. Non si definiscono in nessun modo: sono là. Ma meno comunità si possiede, più si tende ad abbracciare una pseudo-comunità, una nazione.
Alla liquidazione completa del soggetto segue una proliferazione senza limiti di soggettività.
Sigmund Freud, rendendosi conto nel 1895 che l’“isteria” era una nevrosi mista e che le relazioni tra le intensità delle rappresentazioni isteriche erano inspiegabili sulla base delle condizioni psicologiche, aveva già riconosciuto una certa morte del soggetto. Il mero fatto di parlare, nella sua seconda topica, di un io, un es un super-io, significava accettare come data la frammentazione di un soggetto unificato. Il soggetto non era più l’“io” totalizzante di Descartes. Già incrinato dal giansenismo azzerante di Pascal, questo soggetto era assunto da Freud come fratturato, frammentato. In Al di là del principio di piacere, Freud parla della coscienza come «una funzione di un particolare sistema», separato dal «sistema percettivo», mentre gli istinti sono «una pulsione insita alla vita organica di ristabilire uno stato di cose precedente». Gli istinti sono tutti reazionari, dal momento che questi si sforzano di ottenere lo stato originario di tutta la materia vivente: l’inorganico. Con una mossa teatrale, Freud conclude: «La meta di tutto ciò che è vivo è la morte». E tuttavia, per evitare il «monismo di Jung», Freud situa gli istinti vitali contro questo scopo, con l’organismo come equilibrio fra i due. L’idea fondamentale qui sta nell’ammissione da parte di Freud del fatto che i suoi pazienti non gli si presentano come soggetti cartesiani unificati – forse è per onestà intellettuale rispetto alla sua situazione clinica che Freud rifiuta di ridurre la psicologia a una singola pulsione libidinale.
Allo stesso tempo, Freud triangola costantemente il soggetto sulla struttura edipica unificata. E non è la necessità stessa di fare così a tradire il collasso storico del soggetto cartesiano? Freud asserisce la struttura edipica come verità ancestrale dei soggetti umani contemporanei; intanto, le “isteriche” che aveva trattato non esistono più oggi, un fatto che certamente non è dovuto ad alcun presunto progresso nella scienza psichiatrica e diagnostica (le diagnosi di isteria di Freud erano rigorose quanto quelle di chiunque altro nella sua epoca). Se l’isteria è scomparsa, non è a causa di una psichiatria più “scientifica”. Piuttosto, l’isteria affliggeva il soggetto borghese, che al tempo di Freud era già una specie in via di estinzione.
Il soggetto è come Dio, che continua a morire lentamente.
L’invocazione di Dio non è mai innocente; in effetti, nel liberalismo il soggetto occupa lo stesso luogo che un tempo era occupato da Dio nelle monarchie di diritto divino. Il soggetto (il votante) è la fonte di legittimazione trascendente e, come Dio, non può essere ritenuto responsabile di niente di ciò che accade sotto il suo governo. L’irresponsabilità del soggetto è totale, ma così è pure la sua colpa. Sentirsi in colpa e pertanto non responsabile… c’è una disposizione liberale più netta di questa?
Prendiamo per esempio un uomo bianco omosessuale di Brooklyn. Come ogni soggetto, esegue le sue identità d’accordo con gli affetti che riceve da esse. Esegue la mascolinità, l’omosessualità, la wokeness, la bianchezza, l’urbanità, l’hipsterismo, e così via.
Quando affermiamo che “il soggetto esegue il genere”, una domanda rimane: cosa esegue questa messa in scena? C’è un intero sistema di identità eseguite dal soggetto ad ogni dato momento, ma che cos’è che esegue il sistema? Se uno provasse a scortecciare le identità del soggetto una dopo l’altra, con che cosa rimarrebbe? Esattamente nulla.
Max Stirner aveva ragione, stupidamente ragione. Ma questo nulla non è esattamente nulla: è una mediazione. Media tra identità e atti. I suoi atti sono attualizzazioni di identità. Prendiamo per esempio un uomo bianco omosessuale di Brooklyn. Come ogni soggetto, esegue le sue identità d’accordo con gli affetti che riceve da esse. Esegue la mascolinità, l’omosessualità, la wokeness, la bianchezza, l’urbanità, l’hipsterismo, e così via. Fondate su queste identità, gli affetti gli si comunicano come ordini: “così è come dovresti comportarti”. L’atto segue. Ed è tutto un teatro.
Queste identità si estendono a tutti i domini dell’esistenza. Nulla è lasciato al caso. Da un lato c’è l’identità; dall’altro, l’esecuzione. In mezzo giace il soggetto.
È oramai evidente che cosa fa veramente il soggetto: sorveglia se stesso. Il soggetto forma un apparato di auto sorveglianza. C’è un intero Stato con le sue prigioni e le forze di polizia nella mente di ogni soggetto. È un fatto curioso che l’autocoscienza dovrebbe essere la marca definitiva di un soggetto che non è mai là, troppo occupato a sorvegliare se stesso.
Non vivendo mai, il soggetto si guarda vivere. La soggettività allora nomina una certa assenza dal mondo. Di più, è un’ansia contenuta in questa mancanza. Le identità che il soggetto deve eseguire devono essere fondamentalmente perfette. In questo, esse sono un po’ simili alle forme di Platone: da esse, il soggetto riceve ordini che sono poi eseguiti come atti. Eppure non importa quanto ci avviciniamo, questo atto non può mai soddisfare l’identità originale che chiede l’esecuzione. La prima ansia è una di livello: non essere abbastanza mascolino, gay, comunista. Ma poi interviene un secondo e più profondo terrore: il terrore di essere nulla. Mancanza e ansia: queste due preoccupazioni sottolineano ogni pensiero, parola e atto del soggetto.
Ansia e mancanza; colpa e irresponsabilità. Non siamo in presenza qui dell’Ultimo Uomo?
Come Nietzsche sapeva bene, si può essere un Ultimo Uomo solamente pensando di non esserlo. O meglio, l’Ultimo Uomo è quello che non è un soggetto, ma crede altrimenti.
Il Fuori del soggetto non si troverà in alcuna identità autentica, né in alcun vero sé. La soggettività non è lo stesso dell’identità. Piuttosto, è l’esecuzione autocosciente dell’identità. Per “soggettività” dobbiamo intendere una certa relazione tra atto e affetto: un affetto è ricevuto internamente, ed è seguito dall’esecuzione di un atto che attualizza questa identità esternamente. La soggettività è questa relazione tra atto e affetto. Risponde a uno schema sequenziale: identità, affetto, soggetto, atto, identità, …
Il programma degli abolizionisti del genere è sempre stato quello di attaccare a livello dell’identità. Ciò è fuorviante. Ciò che conta di più è la relazione tra affetto e atto, entro i quali il soggetto è costituito come relazione. Chiunque si sia impegnato in uno sport, in una rivolta, nel sesso, nella danza o nella musica sa che c’è un altro modo di concepire l’esistenza. Giocare a calcio o fare musica con altre persone sono attività che precludono ogni nozione di soggetto. L’affetto deve sempre arrivare dall’esterno. Questi affetti non possono essere processati dall’autocoscienza, ma diventano gesti immediatamente, vale a dire, senza mediazione. In questo senso, lo sport e la musica non sono attività autocoscienti. In esse non vi è soggetto.
Gli Spiriti Liberi, un movimento spirituale diffuso in Europa fra il XIII e il XV secolo, predicavano la kenosis, o autosvuotamento. Nella misura in cui il peccato richiede una scelta, e questa richiede volontà, l’abolizione del sé e della volontà significava che essi non potevano più peccare. «Nulla è peccato» affermavano «tranne ciò che è pensato essere un peccato». Con questo non intendevano dire che il peccato fosse relativo, quanto piuttosto che doveva essere autocosciente. Non si poteva peccare senza un sapere cosciente del peccato – così erano Adamo ed Eva di fronte alla mela.
Margherita Porete descriveva la sua vita con una formula profeticamente nietzscheana: «È solo vita che vuole volontà». Per questo fu bruciata al rogo.
Per gli Spiriti Liberi non c’erano Chiesa, peccato, proprietà; c’era solo una comunità di amici. Nel 1295, Margherita Porete sostenne che Paradiso e Inferno, assieme a Virtù e Peccato, erano nulla. Erano nulla per l’anima annientata. Nel suo Specchio delle anime semplici, Porete scrisse «Non prego, non mi interessa di Dio, e non faccio alcun lavoro… perché ho annientato la mia anima. […] L’anima annientata non può fare nulla di buono né di cattivo». Per Porete, un’anima del genere era oltre bene e male: «Accoglierò tutto ciò che viene a me senza proibizioni». Virtù, ragione, moralità, chiesa, legge, proprietà: tutto era immediatamente abolito dall’anima annientata. «La nostra volontà deve diventare il mare».
Se le relazioni che colpivano quest’anima annientata producevano amore o gioia, le relazioni erano mantenute senza che fosse coinvolta la minima traccia di autocoscienza. «La vera libertà», diceva Porete, «non ha mai bisogno di un perché». Margherita Porete descriveva la sua vita con una formula profeticamente nietzscheana: «È solo vita che vuole volontà». Per questo fu bruciata al rogo.
La libertà oltre il volontarismo, un abisso di libertà, la libertà infinita della necessità: in questa disposizione, tutto ciò che può accadere accade, e nella più pura innocenza. Questa è una disposizione strettamente etica, che non riconosce altro che la gioia della potenza e la potenza della gioia. Il puro presente e la purezza della presenza, sulle vette della (ir)responsabilità. L’intenzione, una invenzione cristiana, non ha valore qui. Solo i gesti sono riconosciuti, perché solo i gesti sono potenza.
Una dottrina del genere non è in nessun modo astratta. Perfino il misticismo cristiano di Margherita Porete non riuscì mai a renderla tale: la realtà per cui fu bruciata era il comunismo immediato praticato da lei e dai suoi amici. La pratica della kenosis è la più concreta immaginabile. Ovunque la realtà si fa sentire, ci siamo permessi di essere affetti da ciò che viene dal di fuori – un rifiuto di mediare tra affetto e gesto.
Ciò che ci separa dalla nostra potenza non è la soggettività quanto il feticismo che investe ciò che viene eseguito dalla soggettività: l’identità e il suo feticismo. Poiché questo feticismo è spesso preso come un dato della condizione umana, varrà la pena tracciarne la genealogia.
Il capitale, spiega Marx, è il processo di autovalorizzazione del valore, un processo che ha raggiunto l’indipendenza dall’intervento umano: gli esseri umani, che ora nascono meramente come momenti nel processo riproduttivo del capitale, per Marx sono «mezzi di produzione viventi». In quanto processo di autovalorizzazione del valore, il capitale è l’espropriazione dell’abilità umana di creare, preservare e aumentare il valore. All’interno del processo di circolazione del capitale, scrive Marx, solo un soggetto ha possibilità d’azione: il capitale. È il capitale che pone le condizioni oggettive dell’esistenza del lavoro vivo, un’esistenza separata in due momenti estremi, la produzione e il consumo. Tuttavia, per il capitale il consumo è posto come un momento nel processo di produzione. È la presupposizione del consumo che sostiene la circolazione del capitale.
«Il consumo crea il bisogno di produzione», e «la produzione crea consumo» – in altre parole, il tempo libero esiste come un momento nel processo di circolazione del capitale, durante il quale il produttore ricrea sé stesso come mezzo di lavoro vivo. «La produzione produce non solo l’oggetto ma anche il modo del consumo, non solo oggettivamente bensì anche soggettivamente. La produzione crea dunque il consumatore». Marx, quindi, parla dell’identità immediata di produzione e consumo: il produttore, il cui tempo libero è speso come consumatore, è prodotto dal suo consumo come momento di un processo di produzione. In questo modo, il capitale diviene la mediazione tra i poli estremi del processo. È «il soggetto i cui momenti sono soltanto gli estremi» e che annulla l’autonomia di questi estremi «per porre se stesso come unico momento autonomo».
Ciò che spesso è passato inosservato, come ha segnalato di recente Jean Vioulac, è ciò che Marx vede come il risultato del processo: «es ist die beständige Tendenz des Kapitals, sie [die Arbeiter] auf diesen nihilistischen Standpunkt herabzudrücken», tradotto [in inglese] da Moore e Aveling come: «La tendenza costante del capitale è spingere il costo del lavoro a zero». Forse a causa del fatto che Engels partecipò all’edizione di questa versione, sembra che la traduzione non venne mai messa in discussione. Ma Marx dice qualcosa di completamente diverso: «La tendenza costante del capitale è abbassare gli operai fino a questo punto nichilistico». Per Marx, il capitale ha una tendenza costante al nichilismo.
Il nichilismo al quale il capitale riduce il lavoratore è esattamente ciò che spinge il suo consumo della merce esistenziale.
Lo yoga, l’omosessualità, la religione, la maternità, le elezioni, tutto esiste come insieme di momenti entro il processo di circolazione del capitale.
Se il capitale è il processo di autovalorizzazione del valore che espropria la capacità umana col fine di creare valore generando accanto a sé una tendenza costante verso il nichilismo, rimane il fatto che in ogni caso avviene la creazione di valore. A differenza dell’uomo pre-capitalista inscritto in un ordine sociale che garantiva valore alla sua esistenza, l’individuo del capitalismo è un consumatore di valore, valore prodotto dal capitale e consumato durante il tempo libero. Lo yoga, l’omosessualità, la religione, la maternità, le elezioni, tutto esiste come insieme di momenti entro il processo di circolazione del capitale. Nel loro tempo libero, gli individui consumano un surplus di autenticità come merce esistenziale. Alla radicale svalutazione della loro esistenza, gli esseri umani rispondono consumando in preda al panico valore capitalista come contenuto esistenziale. Un pianista, dice nettamente Marx: «Stimola la produzione, in parte dando un tono più decisivo e vivace alla nostra individualità». Non c’è limite a ciò che può essere alienato.
In questo modo il capitalismo nella sua fase suprema ha ottenuto l’alienazione finale del valore esistenziale entro il capitale:
«Venne infine un tempo in cui tutto ciò che gli uomini avevano considerato come inalienabile divenne oggetto di scambio, di traffico, e poteva essere alienato; il tempo in cui quelle stesse cose che fino allora erano state comunicate ma mai barattate, donate ma mai vendute, acquisite ma mai acquistate – virtù, amore, sapere, scienza, coscienza, ecc… – tutto divenne commercio. È il tempo in cui ogni realtà, morale e fisica, divenuta valore venale, viene portata al mercato per essere apprezzata al suo giusto valore».
Ciò che il capitalismo nella sua fase suprema ha dissolto nel capitale è esattamente tutto ciò che non è capitalistico; dovrebbe allora essere poco sorprendente che una delle migliori merci del nostro tempo è l’anticapitalismo. Qui il surplus di autenticità stesso serve da norma dello scambio capitalista. L’eccesso di autenticità che si può trovare nel coffee shop di Brooklyn, l’hipsterimo e le identità sessuali, tutto questo è la merce finale del capitalismo. L’ontologia e il linguaggio sono passati nel capitale piuttosto precocemente. Già nel 1964, Theodor Adorno notava che il linguaggio di Heidegger era saldamente indiscernibile dalla pubblicità della Coca-Cola. La nostra epoca testimonia della liquidazione entro il capitale dell’esperienza autentica in quanto fondamento della soggettività.
Le esperienze autentiche che gli individui consumano nel loro tempo libero formano i mezzi attraverso i quali questi costruiscono la loro personalità e la loro identità. Le identità associate al genere, alla sessualità, alla paternità e alla maternità o all’adolescenza sono fette di mercato, abitudini di consumo reificate, ciascuna provvista del suo arsenale di merci accessorie.
Mentre il feticismo della merce si riferisce a situazioni in cui le relazioni sociali sono relazioni tra oggetti, il feticismo delle identità nomina un sistema in cui le relazioni tra le merci formano la base della relazione tra umani – vale a dire, in cui le abitudini nel vestirsi, mangiare, viaggiare e intrattenersi arrivano a costituire i soggetti umani. E allora, la realizzazione completa del capitalismo nella sua fase suprema prende necessariamente la forma dell’hipster, il non-soggetto la cui soggettività è interamente composta di autentiche abitudini anticapitalistiche.
Nel capitalismo, solo la proprietà è individuale. Il consumo, come la produzione, è intrinsecamente sociale.
Ma la soggettività, esattamente come ogni altro momento nel processo di circolazione del capitale, è capitale. L’“esperienza vissuta” è capitale vissuto. Benché le merci vengano spesso ritenute artificiali, il capitale deve comunque fluire, deve diventare genuino. E così, il surplus di autenticità diviene la forma decisiva della valorizzazione nel capitalismo contemporaneo. È il surplus di autenticità che imbeve le identità mercificate e la merce esistenziale col potere terribile che queste possiedono. Il surplus di autenticità è l’“effetto di realtà” divenuto esso stesso realtà.
Entro la logica della soggettività, tutte le mie esperienze sono consumate in quanto esperienze, in quanto merce esistenziale sotto il modo fondamentale dell’assenza: mi guardo consumare la mia esperienza. Consumo merce esistenziale, e più la consumo, più produco, e più io stesso divento un pezzo di merce esistenziale. Consumando esperienza autentica attraverso un’identità, alla fine mi assimilo a questa identità, il sistema di relazioni reificate tra le merci.
Nel capitalismo, solo la proprietà è individuale. Il consumo, come la produzione, è intrinsecamente sociale. Il consumo della merce esistenziale attraverso l’identità è un processo socializzato. In quanto tale, l’identità è costruita discorsivamente come pseudoproprietà, una comunità dell’esperienza. Eppure, visto che l’identità richiede un linguaggio comune, la costruzione discorsiva dell’identità richiede la liquidazione del linguaggio stesso entro il capitale. Un’esperienza comune di consumo può solo essere comunicata da un linguaggio comune del consumo. L’alienazione condivisa non è mai abbastanza – un linguaggio condiviso è sempre necessario per comunicarla. E allora qui troviamo un incontro felice. L’alienazione globale del linguaggio si realizza come linguaggio globale dell’alienazione.
«L’analisi marxiana», ha sostenuto Giorgio Agamben, «va integrata nel senso che il capitalismo non era rivolto solo all’espropriazione dell’attività produttiva, ma anche e soprattutto all’alienazione del linguaggio stesso». Questo è lo scopo di una critica della soggettività e del feticismo delle identità. Le condizioni di possibilità del feticismo delle identità sono duplici: un’esperienza autentica mediata dal capitale da un lato, e il linguaggio alienato dall’altro, costruite discorsivamente come esperienza condivisa.
Tutto ciò che può essere esperito soggettivamente è quindi già sempre determinato dall’identità. Se non si può fare esperienza di nulla di indicibile, ciò è perché il campo dell’esperibile per ogni data identità è predeterminato dal discorso. E allora, tutto ciò che avviene entro il campo della soggettività è simpatetico. L’epoca del simpatetico è anche, come direbbe Marx, l’epoca della dominazione completa di una mediazione che ha reso sé stessa necessaria.
Al tempo stesso, la «posizione nichilistica» alla quale il capitale riduce l’individuo è una posizione di assoluta separazione dalla comunità e dal processo di valorizzazione: separati dal tempo o dall’abilità di cucinare, il capitale media tra l’individuo e il take-away. Lo stesso è vero per la comunità: l’estensione del simpatetico è proporzionale a quella dell’alienazione. Seinfeld l’ha mostrato: rendere la vita simpatetica è rendere la vita sopportabile. L’esperienza vissuta riguarda vivere la vita di chiunque. È perché tutti simpatizzano con Rupi Kaur che le si dovrebbe sparare.
Quindi, se Agamben può descrivere lo Spettacolo di Debord sia come «nichilismo compiuto» sia come il «linguaggio stesso», ciò è dovuto al fatto che il linguaggio molto tempo fa è passato nel nichilismo del capitale. Lo Spettacolo, «una relazione sociale mediata dalle immagini», non è nient’altro che la comunicatività alienata degli esseri umani. La miseria dell’individuo non risiede nella sua incomunicabilità, ma, piuttosto, nella sua comunicabilità illimitata. Tutto ciò di cui qualcuno può fare esperienza attraverso l’identità sarà esperito come immediatamente comunicabile. Le più private e intime fondazioni della personalità individuale sono anche le più pubbliche e comuni. La soggettività è come la pornografia: nulla è lasciato all’immaginazione.
Eppure, come insiste Agamben, è qui, nell’alienazione finale del linguaggio, che gli uomini hanno potuto per la prima volta fare esperienza del linguaggio in quanto tale, «devastante experimentum linguae, che disarticola e svuota su tutto il pianeta tradizioni e credenze, ideologie e religioni, identità e comunità». Tutte queste consistenze sono liquidate nello Spettacolo, dove sono eseguite autoconsapevolmente in quanto merci esistenziali. Ma ciò significa anche che lo Spettacolo, in quanto alienazione della comunicabilità umana, può solamente comunicare alienazione.
Per destituire lo Spettacolo, si deve solamente riempire la comunicazione con la differenza che essa non può contenere. E c’è solo una cosa che la comunicatività illimitata dello Spettacolo non può contenere: l’incomunicabile. Ciò che è incomunicabile è anche inesperibile, perché l’intensità di un evento è impercettibile alla soggettività oppure perché eccede i suoi limiti. Quando questo accade, c’è un evento di desoggettivazione, che eccede o evade la soggettività.
Per esempio, che cosa rende qualcuno trans o non binario? Nessuno “nasce così” e non c’è alcun gene trans o non binario. È qualcosa di impercettibile e incomunicabile. Da qui, la desoggettivazione. L’unico pericolo è essere ricatturati in una identità, in un campo di esperienza predeterminato assieme alla soggettività ad esso associata. Il compito della desoggettivazione ci indirizza costantemente alla vandalizzazione della soggettività.
I gesti trans e non binari hanno già vandalizzato il genere. Come dice un amico: «Non esiste qualcosa come un trans binario». La transizione fa collassare l’idea di due identità distinte su un piano unico. I reazionari non odiano le persone trans in quanto trans: le odiano perché sono non binarie. Se l’essere trans riproducesse semplicemente la sessualità binaria etero, questa non porrebbe alcun problema ai reazionari, in quanto non ci sarebbero differenze tra l’essere trans e la cisnormatività. Ma è precisamente perché l’essere trans è necessariamente non binario che viene posto un problema ai reazionari. Quindi, il divenire rispettabile dell’essere trans è un attacco diretto alle identità “uomo” e “donna”.
Se delle singolarità trans e non binarie vandalizzano il genere, ciò è perché il genere è essenzialmente binario, e queste singolarità, dentro il genere, creano un divenire che il genere non può esprimere. Riempiono il genere con qualcosa di cui questo non può dar conto, qualcosa che questo non può comunicare.
Possiamo dire, allora, che vandalizzare la soggettività è sia un gesto di introduzione dell’abisso nel fondamento, sia una diserzione dello stesso fondamento. L’abisso: le singolarità trans e non binarie mostrano immediatamente l’inesistenza di universali come “uomo” e “donna”.
Allora, vandalizzare la soggettività può voler dire due cose: rifiutare la comunicazione, o diventare incomunicabile. Riempire i flussi della comunicazione con l’incomunicabile significa che ciascuno sarà compreso da coloro che condividono affinità incomunicabili, mentre si introduce attivamente incoerenza nello Spettacolo. Rifiutare la comunicazione implica un rifiuto di un terreno comune: lo Spettacolo.
Possiamo dire, allora, che vandalizzare la soggettività è sia un gesto di introduzione dell’abisso nel fondamento, sia una diserzione dello stesso fondamento. L’abisso: le singolarità trans e non binarie mostrano immediatamente l’inesistenza di universali come “uomo” e “donna”. Una donna trans non è una donna cis; ciò che è stato disertato è il fondamento dell’essere cis. La comunizzazione diserta immediatamente il fondamento della forma merce, ma introduce anche l’immediatezza abissale del comunismo nel mondo delle merci. Il saccheggio, come ben sapeva Debord, «indebolisce istantaneamente la merce in quanto tale, ed espone anche ciò che la merce in ultima analisi implica: l’esercito». E prima o poi i carri armati arrivano.
Perché i carri armati si presentarono in piazza Tienanmen? Là la comunità non aveva pretese e quindi non aveva identità. Rifiutavano la comunicazione. Le divisioni armate della Guardia Nazionale entrarono a Minneapolis nel 2020 a causa dei saccheggi, dell’abolizione immediata della forma merce. Saccheggiare significa riempire una merce con qualcosa che non può comunicare in quanto merce: essere libera. Tutto ciò che una merce può comunicare è il valore di scambio. Quindi il saccheggio fa collassare l’intero sistema religioso della forma merce.
Il saccheggio – la comunizzazione immediata – non condivide alcun terreno col mondo della merce. Eppure, esprime qualcosa di abissale entro quello stesso mondo: la possibilità che tutto possa essere libero. È precisamente per rispondere al pericolo rappresentato da questa improvvisa apertura di un fuori che lo Stato invia la Guardia Nazionale. Non si invia l’esercito per chiudere il DSA [n.d.t. Socialisti Democratici d’America], e questo è tutto ciò che si dovrebbe sapere a riguardo. Non è un pericolo per il capitale.
Il gesto che vandalizza la soggettività colpisce necessariamente anche il feticismo delle merci, e viceversa. Rendersi incomunicabili – per divenire come si diviene – è un atto di diserzione che limita l’estensione del deserto nelle nostre vite.
In Immanenza, una vita, un testo scritto poco prima della sua morte, Deleuze parlava proprio di questo, una vita oltre la soggettività. Descrivendo questa vita come “pre-riflessiva”, intendeva sottolineare la stessa relazione tra gesti e affetti che abbiamo descritto più sopra. Una vita, scrive, è «puro flusso di coscienza asoggettiva». Se questi termini sembrano astratti, è solamente perché il capitale pesa come un incubo su ciascuno dei nostri pensieri. Il capitale e i suoi valori sono l’ultima astrazione – che cosa sono lo Stato, i Diritti Umani, la Legge o la Natura Umana? Astrazioni complete. Eppure, appaiono perfettamente chiare a tutti. Pensare in termini concreti è alieno alla logica del capitale.
Deleuze si esprime in termini talmente semplici e concreti che il nostro pensiero, abituato alle pallide, teleologiche astrazioni del capitale, lo fraintende per un linguaggio esoterico. Un puro flusso di coscienza asoggettiva è semplicemente uno stato corporeo e mentale di presenza e coinvolgimento senza autocoscienza: una disposizione a effettuare ed essere affetti dal mondo senza pensarci. «Una pura, immediata coscienza senza soggetto o oggetto». Questa è la modalità dell’arte, delle rivolte, dell’amicizia, dello sport e dell’amore – è il radicale opposto del lavoro alienato, dell’autocoscienza, della soggettività e dell’identità.
Come le Forme platoniche o il Dio cristiano, l’identità è sempre trascendente. Ogni identità data è eseguita da schiere di individui che tentano di modellare se stessi su quella. Possiamo dire che qualcosa trascende un oggetto se questa è fuori da quell’oggetto e più grande di esso. Se la soggettività di qualcuno dipende dall’identità di uomo cis, ad esempio, quell’identità ne trascende la soggettività. La soggettività, in quanto esegue sempre un’identità in maniera autocosciente, è sempre trascesa – sempre obbedisce a qualche potenza superiore.
Un’incomprensione comune rispetto al concetto deleuziano di immanenza consiste nell’assumere che Deleuze intenda un semplice opposto di trascendenza. Il codice genetico di qualcuno, ad esempio, è immanente al suo corpo fintantoché esiste in quella cellula e non altrove. Non potrebbe esistere fuori da quel corpo. Ma ci sono molteplicità di altre cose che non sono il codice genetico di qualcuno in un corpo. Sebbene non possa esistere senza un corpo e un corpo non può esistere senza di esso, il DNA è assolutamente immanente a un corpo. Le cellule sono ciò entro cui il DNA di ciascuno si trova; queste non trascendono il DNA poiché sono la sua espressione. E allora, il DNA è immanente alla cellula. Questa sarebbe una semplice inversione della trascendenza; ciò che è trascendente è ciò che è fuori da qualcosa, e quindi, ciò che è immanente è ciò entro cui qualcosa è. Ma l’interesse di Deleuze non è con la semplice immanenza, ma piuttosto, con la pura o assoluta immanenza.
Deleuze offrì una formula lapidaria in uno dei suoi seminari: l’immanenza assoluta è la semplice nozione che non c’è alcuna potenza superiore, che si tratta solo di noi e della terra. E allora, se il DNA non è trasceso dal corpo, ma è piuttosto immanente ad esso, non si tratta, a causa di tutto questo, di pura immanenza. L’immanenza pura è un’immanenza che non è immanente a qualcosa. Mentre il genere trascende un corpo e il DNA è immanente a un corpo, l’immanenza pura non è trascendente né immanente a. Nel caso di un corpo, c’è solo una cosa che non è né fuori di esso, né semplicemente in esso, ma piuttosto, è immanenza assoluta. L’assoluta immanenza di un corpo è la potenza singolare che è in quel corpo. Una potenza che comprende i processi completi di quel corpo e che sarebbe ovunque uguale, in ogni parte di esso. Così come il DNA non è una membrana cellulare, non può essere la pura immanenza di un corpo; la pura immanenza di un corpo è ciò che è ovunque simultaneamente in esso, allo stesso modo – una vita.
Non “Vita”. Tale concetto, che chiameremmo vitalismo volgare, trascenderebbe ogni corpo singolo. Una vita, invece, non trascende il corpo, ed è completamente espressa in ciascuna parte di esso. Le membrane cellulari non sono “meno vive” del nucleo che contiene il DNA della cellula. In questo caso, dice Deleuze, possiamo parlare di un piano di immanenza. Una vita non è immanente alla Vita, ma solo a se stessa. Quando l’immanenza non è trascesa da nulla né immane a nulla, allora è una vita, «pura potenza, perfetta beatitudine».
«La vita dell’individuo ha lasciato il posto a una vita impersonale, e tuttavia singolare, che esprime un puro evento affrancato dalla soggettività e dall’oggettività di ciò che accade». Tale vita è singolare e universale piuttosto che individuale e comune. I sorrisi dei bebè, spiega Deleuze, sono singolarità proprie a ciascuno di essi, ma non sono né soggettivi né personali.
Non si tratta di un vitalismo volgare in cui una categoria astratta come “Vita” verrebbe posta. Già nel suo Lucrezio e il naturalismo del 1961, Deleuze negava qualsiasi unità alla “natura”. Nella “natura” vedeva: «Una potenza in base alla quale le cose esistono una per una senza la possibilità di essere raccolte tutte assieme in una volta sola», sempre o una cosa o molteplicità di singolarità, ma mai l’Uno o una totalità. Il vitalismo di Deleuze è inorganico: «Tutto è vivente, non perché tutto è organico e organizzato, ma, al contrario, perché l’organismo è una deviazione della vita».
La desoggettivizzazione non può mai significare dare se stessi a una potenza più alta come la “Vita” – di fatto la soggettivazione consiste già in dare se stessi a potenze più alte. La desoggettivazione è un gesto di accrescimento della potenza – essa fa ritornare il corpo al corpo.
Traduzione dall’inglese di Giacomo Mercuriali. Originale qui.