Sei proprio sicuro di non stare sognando?
Nessuno, in qualsiasi momento della propria esistenza, sarebbe davvero pronto a giurare, sulla propria testa, di trovarsi o di non trovarsi all’interno di un sogno ̶ un dubbio fondamentale che si fa sentire, in particolar modo, proprio mentre si sta sognando.
Il sogno umano possiede caratteristiche del tutto peculiari, sia dal punto di vista epistemologico, sia da quello gnoseologico. Un sogno, di fatto, consiste di una rappresentazione elaborata dalla nostra mente in assenza di dati sensoriali (perlomeno diretti) e, soprattutto, in assenza di esperienza. Non si tratta, tuttavia, di un semplice gioco mnemonico in cui una serie di dati, in precedenza immagazzinati nel ripostiglio della memoria, vengono cuciti gli uni sugli altri da un enigmatico sarto onirico, così da ottenere una sorta di “abominio rappresentazionale”. Nel sogno, al contrario, vige una forte componente creativa, votata a un principio di originalità che fa sì che la maggior parte delle produzioni oniriche ci appaia bizzarra, disturbante o perversa.
Da ciò deriva il fatto che ciascuno di noi, nel corso della propria vita, porti con sé il ricordo di almeno un sogno: un sogno così particolare, così intenso, così deviato, da risultare terrificante. L’incubo perfetto.
Nel sogno, il mondo viene esperito non da un Io autocosciente, ma da un corpo impersonale: un “non-Io” che simula, in modo del tutto inefficiente e parodistico, il comportamento e il normale funzionamento di un Io. In tal senso, l’esperienza onirica è l’esperienza di un Nessuno, una paradossale esperienza impersonale priva di confini, leggi, regole, norme e limiti. Non a caso, alcuni filosofi e naturalisti greci, tra i quali Epicuro, Pitagora ed Empedocle, ritennero i sogni alla stregua di punti di contatto tra la nostra dimensione e misteriose dimensioni esterne, regni divini o demoniaci, liminali al nostro.
Mentre sogniamo, inoltre, siamo in gran parte impotenti, al punto che persino i leggendari “sognatori lucidi” sono costretti a opporre una certa resistenza al flusso onirico.
Per uno dei più grandi scrittori horror contemporanei, Thomas Ligotti, l’obiettivo principale nel comporre un racconto del terrore consisterebbe proprio nell’imprimere nella scrittura la medesima impersonalità, astrazione e irrealtà che vige all’interno del sogno ̶ pur non potendo mai raggiungere nel testo la piena intensità orrorifica propria all’incubo e alla realtà. Non solo. Per Ligotti, l’horror stesso non sarebbe che un depotenziamento del contenuto affettivo che, nell’incubo, rimanda direttamente alla realtà: un modo per sublimare, rielaborare o, meglio ancora, edulcorare gli orrori della vita e dell’esistenza stessa.
Per tale ragione, la scrittura dell’orrore dovrebbe coltivare l’astrazione, sottomettendo la trama, i luoghi e i personaggi agli affetti e ai concetti. Un principio che, a ben vedere, domina ogni vero orrore artistico e narrativo (persino i più banali film gore o slasher), rimandando non solo a un’astrazione del reale ma anche a un’astrazione dell’orrore stesso.
L’orrore astratto, a sua volta, è un genere definito da tre categorie tra loro saldamente intrecciate: termini, al tempo stesso narratologici e concettuali, che tenterò di sintetizzare nel più breve spazio possibile.
L’intuizione secondo la quale cose ed entità immateriali o non individuate siano in grado di agire su di noi e sul mondo è il concetto chiave dell’orrore astratto
L’Inumano – l’indefinito, l’indescrivibile e l’atmosferico
Agency è un termine che indica la capacità di agire di qualcosa o qualcuno, il suo potere di modificare l’ambiente o influire su di esso. Di solito l’agency è qualcosa che si attribuisce agli esseri umani e agli altri animali reputati di comune accordo “intelligenti”; una convenzione in grado di reggere in situazioni normali, ossia quando ci si trova in stato di veglia o soggetti alla minaccia dell’emarginazione sociale. Ciò che realmente pensiamo quando ci troviamo da soli, o in compagnia dei nostri cari, riflette un’idea ben più vasta di agency. Di fatto, siamo pronti ad attribuire capacità di agire e persino volontà a un’ampia gamma di oggetti, fenomeni e creature ̶ non sempre esistenti a pieno titolo. Da tale immediatezza del giudizio derivano i miti sugli oggetti maledetti, le bambole possedute, gli spiriti dei morti, le case infestate e via dicendo.
L’intuizione secondo la quale cose ed entità immateriali o non individuate siano in grado di agire su di noi e sul mondo è il concetto chiave dell’orrore astratto, nonché la sua principale categoria narratologica.
Non si tratta, tuttavia, di semplice “non umano” ̶ sebbene piante e animali non umani possano costituire un buon punto di partenza. Il non umano, per certi versi, prelude all’inumano: opere quali Pet Sematary, di Stephen King, o Poltergeist, di James Kahn, ad esempio, fanno da ponte tra il non-umano, il non-ancora-del-tutto-umano e il non-più-umano (rappresentati dalla triade animali, bambini e spiriti dei morti).
L’inumano, tuttavia, prelude sempre all’anti-umano, come nel caso di The Fog, sempre di King, e di The Black Gondolier, di Fritz Lieber. Una transizione che può articolarsi anche attraverso una lenta e graduale perdita di umanità, come accade in “La poltrona umana”, racconto di Edogawa Rampo in cui un comune artigiano, autoconfinatosi in una poltrona da egli stesso costruita, scopre le delizie della deprivazione sensoriale ̶ uno stato larvale di pura sensorialità tattile, uditiva e olfattiva, che lo depriva dei tratti più tipicamente attribuiti all’essere umano: la facoltà visiva e quella socio-relazionale.
Il vero maestro dell’inumano, tuttavia, è senz’ombra di dubbio un autore non immediatamente legato all’horror, sarebbe a dire Franz Kafka, che nei suoi romanzi e racconti ha messo in movimento immense forze astratte, prive di qualsiasi meta o scopo, dominate da principi negativi posti al di là della comprensione dei loro protagonisti, del lettore e persino del loro stesso autore.
La marionetta – o “dell’impotenza umana”
Dinanzi allo spettacolo offerto dall’inumano, l’essere umano può starsene solo a guardare. Dal momento in cui esso viene scelto, in qualità di veicolo, da un parassita alieno, da uno o più demoni, da uno spettro, o persino dalla massa tremula e soffocante del petrolio grezzo, non vi è più nulla da fare. Siamo perduti; non più in controllo delle nostre vite; condannati a mettere in atto gli ottusi comandi che ci giungono dal nucleo profondo del nostro ospite e tiranno.
Da tale prospettiva, la nostra specie è in balia di forze alle quali è in grado di opporsi in alcun modo: divinità abominevoli; fenomeni naturali ̶ così come della natura stessa; pensieri e pulsioni provenienti dal passato (un passato al tempo stesso genetico e spirituale); fino a giungere alle oscure direttive che provengono dal nostro Io cosciente, questa entità sfuggente che, al tempo stesso, è e non è Io.
Tutto quel che resta è imbarcarsi nell’impresa, puramente intangibile e intellettuale, di elaborare un nuovo modo di intendere il mondo.
In tal senso, il più grande ispiratore dell’orrore astratto è Arthur Schopenhauer, scopritore del concetto di Volontà ̶ una forza cieca, idiotica e insensata che pervade e direziona ogni cosa verso l’esistenza, la riproduzione e la morte. Attributi che lo stesso H.P. Lovecraft impiegò per descrivere i suoi Grandi Antichi, le divinità esterne che dominano il suo universo narrativo.
Nel campo della fiction, tuttavia, possiamo ascrivere la piena eccellenza proprio a Thomas Ligotti, il sommo teorico della marionetta, che dell’impotenza e della mancanza di libero arbitrio ha fatto la propria cifra stilistica e filosofica.
Si tratta di mettere in movimento e far percepire al lettore qualcosa di così vasto, di così inafferrabile, da arrivare pressoché a coincidere con l’universo stesso.
L’astrazione – ossia la preminenza delle forze sui corpi
Come accade in filosofia, anche nell’orrore astratto si assiste alla messa in scena di principii immateriali o quasi-materiali, ai quali viene attribuita piena facoltà di agency. In ciò, gioca un ruolo fondamentale il concetto, ossia la sintesi di varie componenti della realtà in un’immagine ascrivibile a un nome ̶ quali l’anima mundi, lo spirito, l’essere, il divenire, l’autocoscienza, l’iper-oggetto e via dicendo. Nella fiction, tale “forza agente” può essere, a sua volta un concetto, come accade in There’s no Antimemetic Division di Qntm, (in cui a risultare letale è il ricordo della vera essenza della realtà), o in Pontypool, di Burgess (nel quale il vettore della dissoluzione è il linguaggio stesso).
L’astrazione, tuttavia, può anche spingersi al di là del concetto stesso, laddove le forze anti-umane sono situate al di là del pensiero ̶ di qualsiasi pensiero. Tra tali forze o sorgenti di contaminazione, le più classiche sono il male, la sofferenza, il nulla, la natura e il non senso (come avviene nell’horror eldritico di Lovecraft e Barker). Idee che, fin dall’antichità, sfidano e oltrepassano la nostra facoltà rappresentativa.
E, tra tutti, un concetto ancor fondamentale, che evoca fin da subito in noi tutta una serie di immagini e pensieri che ci fanno dubitare nel profondo della nostra stessa esistenza: quello di morte, ciò che vi è di più impensabile.
Si tratta di mettere in movimento e far percepire al lettore qualcosa di così vasto, di così inafferrabile, da arrivare pressoché a coincidere con l’universo stesso ̶ un oggetto che non ci siamo di certo evoluti per cogliere e comprendere all’istante, in un solo pensiero.
Instillare nella coscienza di chi legge un tarlo, un’ossessione, una monomania per qualcosa che muove i fili della realtà: un semplice principio che faccia da perverso paradigma all’esistenza tutta.
Il maestro, in tal senso, resta Edgar Allan Poe: nei suoi racconti del macabro, del terrore e dell’inaspettato, nonché nelle sue novelle e romanzi brevi, infatti, si può sempre individuare all’opera una qualche forza astratta che costringe, obbliga o persuade i personaggi a pensare un certo pensiero o compiere un certo atto.
Il Senza Forma
Questo particolare genere, in poche parole, non fa altro che intensificare il funzionamento dell’horror in generale, presentando al lettore o allo spettatore qualcosa di sconosciuto in quanto sconosciuto ̶ fornendo al contempo il giusto “pathos della distanza”, ossia oggettivando il mondo, le cose e gli individui, prendendo le distanze da essi, per poterli meglio osservare (come si può notare assistendo all’algido massacro messo in scena da un film quale Midsommar).
In tal senso, l’horror non necessita che qualcuno compia su di esso una qualche operazione di sublimazione filosofica, giacché esso si sospinge già ben oltre il punto al quale la filosofia lotta da millenni per giungere: la cosa in sé, o il “reale-al-di-là-del-reale”.
Lo iato, l’abisso che separa il soggetto dalla verità dell’oggetto, si affaccia su ciò che il filosofo americano Eugene Thacker ha definito “mondo-senza-di-noi”: un mondo privato delle caratteristiche soggettive e arbitrarie di qualsiasi osservatore, un mondo senza colori, senza suoni, senza giudizi morali, economici o valoriali. Tale piena nudità, tuttavia, risulterebbe irraggiungibile persino nel caso in cui ogni singolo soggetto presente nell’universo scomparisse all’istante; resterebbe infatti, l’ottusa, stupida sensibilità chimico-fisica delle cose a fare da ostacolo al raggiungimento di una visione finalmente “reale”.
Il vero orrore, di fatto, è che il reale è irraggiungibile persino per Dio o l’universo stesso, i quali scomparirebbero all’istante se solo potessero sbirciare per un solo momento la propria ineffabile verità interiore. Nella algida, inospitale zona artica della cosa in sé, nessun soggetto e nessun oggetto possono sopravvivere al di là della mera, totale perdita di soggettività.
Una definizione pienamente soddisfacente di reale, per quanto del tutto negativa (laddove le altre, prodotte per lo più da filosofi e scrittori, appaiono costitutivamente manchevoli).
Il mostro, la creatura, la “cosa” offerta dall’horror classico, pertanto, non è che una guida: un messaggero o un’emanazione proveniente dall’ignoto primordiale.
Da questo punto di vista, un buon esempio di orrore astratto ci è fornito dal concetto di “nulla” elaborato dal filosofo e santo proto-scolastico Anselmo d’Aosta: un’entità impersonale e onnipresente, un fondamento inessenziale, capace di contaminare e inficiare ogni cosa, al punto da rappresentare una potenziale minaccia per l’esistenza e per Dio stesso.
Il mostro, la creatura, la “cosa” offerta dall’horror classico, pertanto, non è che una guida: un messaggero o un’emanazione proveniente dall’ignoto primordiale. Questo è il modo in cui, attraverso l’uso del linguaggio, delle immagini e delle idee, l’essere umano ha da sempre rappresentato ciò che sta al di là del pensiero e della rappresentazione.
Le creature difformi, ibride, innaturali e abominevoli che popolano l’horror alludono alla difformità del nucleo profondo del reale ̶ la sua non rappresentabilità. Ma quelle amorfe, prive di forma o in grado di assumere qualunque forma, combaciano in abstracto con esso. L’orrore primordiale costituito dalla cosa in sé, di fatto, può assumere qualsiasi forma (come sostenuto dalla celebre parodia di Stephen King messa in scena dallo show animato Family Guy, ma, in fondo, dalla stessa opera di King).
Alla stregua del nulla di Anselmo, il Senza Forma è il fondamento senza fondo, la cosa-al-di-là-di-ogni-cosa, la fonte primaria di ogni orrore e di ogni errore, ciò di cui nulla può essere detto né pensato. Un limite assoluto – rintracciabile nei patimenti della Eleanor dell’Incubo di Hill House, nelle sofferenze dell’istitutrice del Giro di Vite e finanche nelle tribolazioni degli scarni personaggi che attraversano il palcoscenico del Teatro Grottesco.
Esprimere, rappresentare, descrivere e persino comunicare tale limite – e i suoi effetti sulla pallida autorappresentazione che denominiamo “coscienza” – è lo scopo primario dell’orrore astratto.