Chi scommette sul disastro
MEDUSA è una newsletter bisettimanale che parla di Antropocene, dell’impronta dell’essere umano sulla Terra, di cambiamenti climatici e culturali. A chi si iscrive, ogni due mercoledì arriveranno un articolo inedito, delle brevi news e un po’ di dati per ragionare su questi temi. Una volta al mese un contenuto di MEDUSA viene ospitato anche su Not: può essere un estratto di un articolo già pubblicato sulla newsletter, una sua variazione, o un contenuto appositamente pensato per la rivista. Insomma, se ti interessa MEDUSA, la cosa migliore è iscriversi alla newsletter.
Nel 2010, qualche settimana dopo la poderosa alluvione di agosto che colpì il Pakistan, lo Spiegel dedicò un articolo di approfondimento a Munich Re, una delle più antiche e più grandi compagnie di riassicurazione al mondo. «Munich Re ha pagato le conseguenze del terremoto di San Francisco nel 1906, dell’affondamento del Titanic e degli attacchi al World Trade Center a New York».
La riassicurazione è lo strumento che usano le compagnie di assicurazione per assicurarsi a loro volta: Munich Re e le altre società simili assicurano cioè le grandi compagnie di assicurazione – come Allianz o Gothear – per la copertura di rischi che sarebbero intollerabili da sostenere persino per colossi del genere: catastrofi naturali, terremoti, tsunami, attentati.
Come scriveva lo Spiegel – con un candore che forse oggi nessuno si potrebbe più permettere –, le compagnie di riassicurazione sono in buona sostanza «la rete di salvataggio per il capitalismo globale».
E così i database di Munich Re contengono «informazioni sui disastri già avvenuti, su quelli che stanno accadendo e su quelli che potrebbero accadere in futuro». Includono dati su «ogni terremoto e ogni scossa della crosta terrestre», oltre che «sull’altezza delle onde degli oceani, le temperature dell’aria e dell’acqua, la direzione e la velocità delle correnti».
I ricercatori di Munich Re monitorano e analizzano ogni tipo di dato potenzialmente legato a un qualche rischio. «Probabilmente non c’è nessun altro posto sulla Terra dove i rischi del mondo moderno vengono studiati più intensamente e dettagliatamente». L’obiettivo, però, non è poter ideare possibili operazioni di soccorso o di early warning per le popolazioni che verranno eventualmente colpite, ma capire dove porre l’asticella dell’azzardo per poter trarre profitto da dati e previsioni.
Scriveva sempre lo Spiegel: «l’esperienza di questa società rende Munich Re un’autorità e un arbitro su quello che è uno dei più grandi problemi che l’umanità dovrà affrontare: i cambiamenti climatici».
Oggi, in piena crisi climatica, il legame tra assicurazioni e finanza è sempre più saldo, e i titoli finanziari di trasferimento dei rischi climatici, i derivati climatici e le obbligazioni catastrofe sono ormai ampiamente utilizzati.
Haiyan e PRISM
Nel novembre del 2013 il super-tifone Haiyan colpì le Filippine: 8000 tra morti e dispersi, più di un milione di case colpite – di cui 550.000 completamente spazzate via – danni stimati per 13 miliardi di dollari.
Tre mesi dopo il tifone, Munich Re e Willis Re, un’altra società di riassicurazione, fiutarono l’opportunità e si presentarono al senato federale. Accompagnati da alcuni rappresentanti delle Nazioni Unite, proposero al parlamento un nuovo prodotto finanziario, PRISM – Philippines risk and insurance scheme for municipalities (curiosamente, lo stesso acronimo del programma di sorveglianza di massa dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale statunitense).
Come ha raccontato su Le Monde Diplomatique Razmig Keucheyan, professore di sociologia all’Università di Bordeaux, PRISM è uno schema assicurativo ideato su misura per supplire alle mancanze di liquidità nelle casse dello Stato filippino piegato dalle catastrofi climatiche e incapace di risarcire le vittime o persino di ricostruire le proprie infrastrutture. La geometria di PRISM è tutto sommato simile a quella dei titoli spazzatura: prevede che lo Stato si metta a vendere insurance bond ai privati, titoli dal rendimento elevato e ad alto rischio. Nel caso in cui gli eventi atmosferici superino una certa entità e gravità prestabilita, i privati perdono tutto. Una sorta di scommessa sulla catastrofe (rischiosa anche nel senso che sin dall’inizio non era chiaro neanche da dove le Filippine avrebbero preso i soldi per pagare eventuali premi assicurativi in caso di mancati diluvi e uragani).
Ma come scrive Keucheyan, oggi, in piena crisi climatica, il legame tra assicurazioni e finanza è sempre più saldo, e i titoli finanziari di trasferimento dei rischi climatici, i derivati climatici (weather derivatives) e le obbligazioni catastrofe (catastrophe bond) sono ormai ampiamente utilizzati, adottati in Messico, Turchia, Cile e Alabama (post-Katrina). Alla finanziarizzazione dei disastri Keucheyan ha dedicato una buona parte del suo La natura è un campo di battaglia, pubblicato qualche mese fa anche in Italia da Ombre Corte. «Perché il settore finanziario è così interessato alla natura quando la natura mostra segni di stanchezza sempre più chiari?».
Per rispondere Keucheyan cita Gramsci: le crisi sono sempre momenti ambivalenti per il capitalismo – se da un lato rappresentano un rischio per la sopravvivenza del sistema, dall’altro sono anche occasioni per creare nuove opportunità di profitto. E così, davanti a una crisi potenzialmente letale come quella climatica, che potrebbe portare a ridiscutere le basi di un sistema non più sostenibile, il sistema stesso si sta riorganizzando per trovare nuovi modi di riassorbire l’emergenza senza doversi per questo mettere in discussione. Reti di salvataggio.
La colpevolizzazione dei più poveri (in fondo le città più inquinate sono tutte nel Terzo mondo!) è una lettura troppo facile di una realtà decisamente intricata, è una diapositiva che non riesce a descrivere la dinamica di un film ben più complesso di quello che si vuole credere.
Stop Being Poor
Come si disinnesca questo meccanismo perverso, come si fa a evitare che l’emergenza climatica venga neutralizzata addormentandola, cercando solo soluzioni tampone che salvaguardino il sistema e rinviando ogni vera via d’uscita?
Alessio Giacometti, sul Tascabile, sottolinea bene quanto sarebbe importante prima di tutto considerare i rapporti di forza che ci hanno portato all’emergenza climatica: un passaggio senza il quale è impensabile sperare che l’umanità possa stringere un patto ecologico di cooperazione per governare il riscaldamento globale. Il problema, ovviamente, sta anche nel fatto che oggi crisi economiche, questioni ecologiche, rivendicazioni politiche e sociali sono ormai così intimamente legate che spesso appaiono strette in un irragionevole groviglio.
Qualche mese fa, nei giorni in cui le prime manifestazioni di Fridays For Future arrivavano finalmente anche in Italia, ebbe un discreto successo un post «controcorrente» del blog di Francesco Costa che imputava a Cina, India e «paesi dell’Africa» – e in generale al «disinteresse delle grandi masse popolari» – la mancata approvazione di norme globali per la salvaguardia del pianeta.
La colpevolizzazione dei più poveri (in fondo le città più inquinate sono tutte nel Terzo mondo!) è una lettura troppo facile di una realtà decisamente intricata, è una diapositiva che non riesce a descrivere la dinamica di un film ben più complesso di quello che si vuole credere.
Keucheyan fa l’esempio della crisi greca. Nel febbraio 2013, l’80% dell’inquinamento dell’aria di Atene era dovuto al riscaldamento a legna. Un anno prima il governo, in una mossa radicale per raggiungere gli obiettivi di bilancio, aveva alzato le imposte sull’energia. Una fetta consistente della popolazione – la classe media e bassa che aveva visto negli ultimi decenni calare drammaticamente il proprio reddito – aveva deciso di passare ai combustibili solidi: legna e carbone. Scaldare a legna un appartamento per i mesi più freddi d’inverno costa una media di 260 € contro i 1000 € del gasolio. Alle stazioni di servizio si iniziarono così a vendere ciocchi di legna e sacchi di carbone, mentre qualcuno si mise ad abbattere illegalmente gli alberi di boschi e parchi fuori città, e a volte anche quelli dei giardini comunali. La concentrazione di sostanze inquinanti nell’aria di Atene, nel 2013, superò di 15 volte i livelli di guardia, con ovvi rischi per la salute pubblica e danni in particolare per chi, spenti i riscaldamenti centralizzati, si era affidato a stufe inefficienti e pericolose, poste in appartamenti poco ventilati.
Un piccolo disastro ecologico. Di chi era la colpa? Delle scelte di consumo poco ambientaliste a cui i cittadini si sono ritrovati costretti in piena crisi economica? Ovvio: no.
Usciamo dall’esempio greco e proviamo a trarre qualche conclusione: i paesi sviluppati sono storicamente responsabili del 79% delle emissioni di gas serra che hanno portato al riscaldamento globale. Il debito ecologico contratto dai paesi ricchi nei confronti del Sud del mondo è alla base dei movimenti di giustizia climatica e dei tanti scontri diplomatici a cui abbiamo assistito in questi anni nelle conferenze mondiali sul clima dove, banalizzando molto, i paesi in via di sviluppo hanno lottato per ottenere qualche forma di risarcimento.
Il consumo di combustibili fossili non è una forma di dipendenza irresistibile per l’intero genere umano, è la conseguenza di scelte politiche e tecnologiche che hanno plasmato l’economia industriale negli ultimi duecento anni. L’impatto delle società umane sulla natura è ancora connesso al reddito, e oggi i paesi più ricchi sono i più responsabili (su questo rimando di nuovo all’articolo di Giacometti). Come se non bastasse le disparità andranno a farsi sempre più nette proprio a causa del riscaldamento globale, che agirà in molti casi da moltiplicatore di rischi e ineguaglianze, portando i paesi più poveri a una scarsità di cibo sempre maggiore, alla migrazione di intere popolazioni, a nuovi conflitti e nuove guerre.
La crisi climatica è destinata a farsi sempre più acuta e sempre più politica. La questione ambientale è urgente perché si basa su una scienza solida e condivisa, e più andremo avanti e più le conseguenze dei cambiamenti climatici saranno indiscutibili. Non sarà allora neanche più una questione scientifica, filosofica, o, per così dire, di consapevolezza, non ci dovremmo più chiedere come fare a comunicare i modelli del clima che cambia, come se ne parla, come convincere gli scettici o se ha senso convertire i negazionisti. Le nuove domande saranno, e lo sono già adesso: come convivere con tutto questo? Quale modello di società? Quale futuro?