Ritorno al gaio comunismo
La relazione tra habitus e campo è anzitutto una relazione di condizionamento: il campo struttura l’habitus che è il prodotto dell’incorporazione della necessità immanente di quel campo o di un insieme di campi più o meno concordanti; le discordanze in via di principio dovrebbero trovarsi in campi divisi, o lacerati. Ma è anche una relazione di conoscenza o di costruzione cognitiva: l’habitus contribuisce a costituire il campo come mondo significante, dotato di senso e di valore, nel quale vale la pena investire le proprie energie.
Pierre Bourdieu, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, con Loïc J.D. Wacquant
La ristampa Feltrinelli di Elementi di critica omosessuale di Mario Mieli (novembre 2017) ha prodotto effetti politici nel dibattito pubblico italiano più consistenti di quanto ci si potesse aspettare. Verrebbe da dire che questa rimessa in gioco nel dibattito pubblico fa da contraltare al suo relativo oblio, a tratti intervallato da ostracizzazioni: perché se ne nutre. Ai tempi avevo provato ad abbozzare rapidamente le ragioni che potevano aver concorso alla ristampa Feltrinelli: dall’impasse che il movimento LGBT italiano si è ritrovato a fronteggiare dopo l’approvazione della legge sulle unioni civili al panico gender che da anni, soprattutto grazie a Forza Nuova, ha individuato in Mario Mieli il capro espiatorio nonché la conferma di tutte le proprie teorie cospirazioniste. Cui, beninteso, non abbiamo alcuna intenzione di dare torto: continuino pure a pensare che vogliamo distruggere la famiglia tradizionale, devirilizzare il maschio, sovvertire i rapporti di genere, omosessualizzare (Mieli direbbe transessualizzare) la società. Al di là del capro espiatorio, della Santa, della pazza, della coprofaga, Santa Maria Mieli resta il più celebre pensatrice gay italiano. Nella voce del Dizionario Biografico Italiano della Treccani, curata da Laura Schettini, si possono ricavare tutte le notizie fondamentali: dalla nascita in una famiglia altoborghese nel 1952 ai soggiorni a Londra dal 1971, passando per la partecipazione ad esperienze del movimento omosessuale europeo, in qualità di osservatore e di protagonista, e i viaggi all’estero (Marocco, Francia, Regno Unito) degli anni 1972-74, fino alla fondazione del FUORI, alla sua uscita da esso, alla pubblicazione di Elementi di critica omosessuale, alla partecipazione al Movimento del 77 e alla morte nel 1983.
La pubblicazione dell’antologia La Gaia Critica (Marsilio 2019), curata da Massimo Prearo e Paola Mieli, costituisce da un lato un ulteriore passo verso la messa a disposizione di studios_ e militanti dell’opera completa del maggiore autore italiano di gay theory; dall’altro lato, un’occasione di confrontarsi con le contraddizioni di saperi che scaturiscono dall’esperienza del corpo. La teorizzazione resta un compito, prima di tutto, di traduzione, che la stessa tradizione dei saperi incarnati contesta come il problema degli ambiti di conoscenza che prendono l’umanità a oggetto: trattandosi di saperi autoanalitici, devono necessariamente produrre un duplicato trascendentale di sé che, da un supposto esterno, si osserverebbe con sguardo neutro. Da questa raccolta si osserva bene quella che, da questo punto di vista, sembrerebbe un’ovvietà. Il limite più grande, e la più grande forza, di Mario Mieli mi pare infatti consistere in questo: mentre l’esperienza incarnata restituisce alle queer theories (ma andrebbe interrogato meglio, e lo faremo più avanti, l’uso di queer theory per una teorica precedente all’uso accademico del termine queer) continuamente la loro ragion d’essere, il motivo per cui sono nate e per cui il loro punto di vista è necessario – come tutti i punti di vista differenti dal neutro-universale bianco, maschile, capitalista ed eterosessuale – la militanza rema in senso contrario. Riproduce fastidiosamente tutti i tic scatenati contro le figure da commedia dell’arte attuale e di allora: i sindacati venduti, i capetti del movimento, i gruppetti avversari, chi-ha-letto-il-Marx-migliore…
A seguire l’indicazione di Massimo Prearo e Paola Mieli, si potrebbe proseguire il confronto con Michel Foucault che fin dalla prima edizione Feltrinelli di Elementi presidia buona parte dei discorsi su Mieli, non senza accenti esterofili, forse anche con l’idea di prolungare su Mieli un campo di battaglia accademico che in Italia è partito altrove, nella storiografia generale prima ancora che nel movimento LGBT. Con una contraddizione evidente, e cito dall’introduzione alla raccolta: «a Mieli, come a molti compagni rivoluzionari dell’epoca, Foucault non piace, e soprattutto dopo la pubblicazione del primo volume della storia della sessualità». Lo si evince dal testo, presente nella raccolta, intitolato Jean-Louis Bory e Guy Hocquenghem, Comment nous appelez-vous déjà?, dove però emerge anche la differenza che Mieli porta rispetto ad altre posizioni della teorizzazione esperienziale a lei contemporanea: «Le stronzate del Foucault di La volonté de savoir non vengono certo smascherate da simili barcollanti apologie della cosiddetta “perversione”. Pur essendo – si deve ammetterlo – a volte piacevolmente spiritoso, Vivre à midi fa davvero vieille tante [vecchia checca] e, secondo me, era out of date ancor prima d’essere stampato».
Per Mieli la logorrea è la regola: un fiume in piena con la risposta sempre pronta – affilata, feroce, non necessariamente precisa, perché continua a cesellare il tratto di pelle in cui prova a penetrare finché non trova il punto giusto per l’affondo.
A buona ragione, questa diffidenza: il silenzio completamente disingenuo di Michel Foucault sulle sue letture marxiane, a confronto con l’impastoiamento mieliano sulle polemiche di movimento, è la pacificata e astratta sottrazione a un rumore di fondo. Nel suo cristallino paese incantato di militanza teorica, costellato di epistemi, pratiche, soggettività, genealogie, archeologie, dispositivi, Foucault tendeva a preoccuparsi sorprendentemente poco di chi stesse leggendo il Marx giusto e nel modo corretto, tanto da rifiutarsi il più delle volte di citarlo in nota (anche, va detto, per una conoscenza non proprio dettagliata della filologia dell’opera marxiana); e più invece si preoccupava – kantianamente – delle condizioni di possibilità del proprio discorso, sorprendendosi – niccianamente? – prima di tutto della possibilità stessa di prendere parola (e dunque: perché posso dire questa cosa? In che rapporto sto io con ciò che sto dicendo, col luogo in cui mi trovo?), sottolineando una dimensione della lettera marxiana che, all’epoca, solo da poco aveva iniziato a emergere. E nonostante ciò – nonostante la gigantesca problematizzazione che aveva sollevato nell’intera sua carriera – Foucault parla da un osservatorio privilegiato, che lascia da parte tutto il portato esperienziale che erano proprio di un Mieli o di un Hocquenghem: e mentre si astrae dalle polemiche di movimento, sfugge anche alla contraddizione di dover articolare un sapere situato non solo sul piano teorico, ma anche su quello delle ragioni pratiche.
Per Mieli invece la logorrea è la regola: un fiume in piena con la risposta sempre pronta – affilata, feroce, non necessariamente precisa, perché continua a cesellare il tratto di pelle in cui prova a penetrare finché non trova il punto giusto per l’affondo. Mi pare che questo aspetto emerga bene in questa (necessaria e attesa) raccolta di scritti. Lo stile e le occasioni di intervento espongono efficacemente non solo la commistione di impulsi, ma la contraddizione insolubile tra esigenza di prendere parola posizionandosi e il dissolverla in una pratica militante che consegua degli obiettivi politici, che dunque deve sacrificare qualcosa. Si osserva così meglio tutto l’aspetto che dalla santificazione di Mario Mieli (cui ho contribuito nel mio piccolo – e spero mi si perdonerà per aver commesso questo errore – per squisite ragioni politiche) rimane espunto: l’immersione in un contesto storico di cui gli scritti occasionali sono infedeli testimoni, contrariamente a un testo compiuto come Elementi di critica omosessuale, che tendeva invece a sciogliere questa registrazione e questo procedere a tentoni raccogliendo una parte delle riflessioni raccolte ora ne La Gaia Critica in un testo di più largo respiro, destinato a durare, se non sistematico almeno organico, e parzialmente astratto dalle polemiche dalle quali scaturiva.
In questo si soddisfa forse in parte l’esigenza di dismettere il santino di Mieli e di leggerlo criticamente e contestualmente, avanzata – in modo lungimirante – da Lorenzo Bernini nel suo intervento alla Libreria delle donne di Milano per l’anteprima nazioAnale della ristampa di Elementi di critica omosessuale. Né si potrebbe sottolineare abbastanza questa esigenza di desantificazione a due anni di distanza dalla riedizione di Elementi, considerato il modo in cui tutta la queerness e la radicalità dei movimenti di liberazione degli anni Sessanta e Settanta è associata, in quasi tutta la comunicazione dei Pride italiani, a programmi che restano ancora gli stessi, a dispetto di tutto, con l’unica variazione di una centralità ancora maggiore data alla filiazione, che fa da garanzia all’amore (o lo smentisce, nel caso il proprio programma consista nell’opposizione alla GPA) sul quale si costruisce la famiglia riscattata e riconosciuta attraverso il lavoro. Una radicalità estetica che è sintomo di tempi mutati – tempi difficili – e che costituisce già una perturbazione nel discorso, ma alla quale non ha fatto seguito alcun ripensamento della piattaforma rivendicativa (da parte di nessuna delle parti coinvolte, che sia il movimento mainstream o quello underground). Prova, una volta di più, che mitizzazione e storicizzazione procedono su strade separate, che sta alla creatività politica del presente far incontrare.
C’è forse un punto dal quale tirare i fili di questa contraddizione mieliana tra incarnazione e respiro corto della militanza, ed è il tema di volta in volta affrontato nel discorso. Quando mi era capitato di scrivere, un po’ presa in contropiede e un po’ per divertimento, l’articolo in cui decisi di santificarla col nome di Santa Maria Mieli, durante le presentazioni a cui ero invitato mostravo un’intervista di Mieli sul femminismo, disponibile su Youtube, il cui approccio mi pare interamente riflesso, per esempio, ne I radical-chic e lo chic radicale (peraltro confluito proprio in Elementi). La differenza tra le due prese di parola passa tutta dal tema e dalla sua incarnazione: mentre parlando di femminismo Santa Maria Mieli ha buon gioco a scherzare sull’aver migliorato il suo rapporto con la madre e con la sorella, mentre discetta del puro piacere di indossare abiti femminili come motivo più che sufficiente a farlo, parlando di militanza la sfavillante logorrea mieliana perde incanto e si affloscia su un copione che, in questi anni, abbiamo letto e riletto, soprattutto da testimonianze maschili. La storiella del Lungo Sessantotto italiano più va avanti più annoia – dal lato grottesco del capitalismo italiano, degli apparati di stato, degli eredi dei partiti che hanno condotto il processo (la repressione, il compromesso storico, l’inizio della transizione al mondo post-sovietico); dal lato brancaleonesco delle miserie dei raggruppamenti politici di movimento che avevano avuto ragione e torto a tentare il loro «assalto al cielo» (e ha ragione Toni Negri che, tre anni fa a Pisa, ricordava alla platea della Scuola Normale Superiore che era lo Stato ad aver iniziato a sparare).
A meno che non si recuperi invece – ed è quello che succede nella parte migliore della narrazione di quegli anni – tutto ciò che di eccentrico (e in realtà completamente centrale) ci sia rispetto al linguaggio conscio: gli scarti, i lapsus, i tentativi che compongono probabilmente la parte più sincera di quell’esperienza. Credo che Massimo Prearo e Paola Mieli rendano in questo senso un ottimo servizio a chi legge: penso per esempio alla necessità (priorità) di riproporre un testo come la recensione di Corpo e rivoluzione in Marx di Luciano Parinetto. Non solo – non necessariamente – per il suo essere un altro pensiero rimosso dal canone della galassia del Lungo Sessantotto (tutto maschile ed eterosessuale non dissidente, o al limite femminista-differenzialista), ma soprattutto perché caratterizza gli anni attorno al 1977 come punto di svolta, specie se ciò che ci interessa è la riemersione del portato esperienziale – di Mieli, del Lungo Sessantotto. Già in Elementi, il riferimento a Parinetto consentiva a Mieli un contrappunto che gli permetteva di ricordare costantemente la macro-oppressione di genere operata dal campo del maschile su quello del femminile; in Chi non si è mai prostituito scagli la prima pietra, la citazione di Parinetto consente di invertire, testi marxiani alla mano, il rapporto di significazione della sottomissione salariale, stabilendo un vettore che va dalla sessualità al capitalismo e non viceversa (è la prostituzione a fare da modello alla vendita della forza-lavoro, e non quest’ultima a gettare luce sulla natura della prostituzione). Tornando alla recensione di Corpo e rivoluzione in Marx, invece, ciò che preme a Mieli di sottolineare è che «la sua analisi situa con lucidità la questione omosessuale in un contesto ampio e ben articolato», rompendo l’isolamento dell’elaborazione omosessuale, e allo stesso tempo – e torniamo così al punto di partenza – «portare avanti la ricerca teorica togliendosi di dosso i marci paludamenti del marxismo “scolastico” reazionario, senza però piombare nella confusione spettacolare di coloro che – politici fino a ieri – montano oggi la farsa facilona di un “delirio” maodadaista che con la follia vera e propria non ha nulla a che vedere». Tocca qui, e più avanti col riferimento alla «scotomizzazione dell’analità», quanto più diffusamente tratta in Chi non si è mai prostituito, ovvero la stregoneria come categoria-deposito dell’abiezione, fondata sull’alienazione del rifiuto (organico, soggettivo), sulla rimozione dell’analità come passaggio necessario per l’istituzione del desiderio a «partecipare al potere almeno in quanto maschi» e così a vendersi come forza-lavoro. Sia detto per inciso: su questa stessa linea è particolarmente chiaro l’articolo recente di Valerio Mattioli sulla necessaria produzione deiettiva – e sua rimozione simbolica – da parte del capitalismo, particolarmente evidente nella sua dimensione urbana e nella necessità di produrre partizioni geografiche che sono anche rapporti sociali ed economici.
C’è un ininterrotto tentativo di conversione dell’esperienza in teoria, e della teoria in prassi, che si delinea in ognuno dei testi. Va letta in questo senso la scelta dei riferimenti teorici. Mieli sceglie di volta in volta se è il caso di prendere spunto da un’occasione o dalla propria esperienza o se è il caso di «sciogliere dei nodi teorici» (come in Chi non si è mai prostituito). Il tentativo di tenere costantemente gli strumenti teorici immersi nel mondo circostante sono evidenti nei resoconti dall’estero, con esiti diversi: in Marocco: miraggio omosessuale il registro camp è interpolato, com’è ovvio, da considerazioni coloniali e orientaliste, nel tentativo di costituirsi sempre in una lettura attenta e simpatetica delle circostanze; privilegio simpatetico che ha prevalenza in London Gay Liberation Front. Angry brigade, piume & paillettes, complici da un lato il riferirsi a un contesto bianco e occidentale, dall’altro l’occasione data dalla narrazione di una struttura organizzata con la quale Mieli si rapporta da interlocutrice politica, e non da etnografo. Ciò che però accomuna questi due resoconti è, ancora una volta, il tentativo di fare di questa presenza etnografica anche un’occasione di saggiare la tenuta del campo attraverso perturbazioni date dall’habitus. In My First Lady si riannodano i fili che tengono insieme le considerazioni sulle pratiche di travestitismo, l’opposizione (transfobica, certo) alla transizione medicalizzata e al contempo l’empatia con essa e con la condizione femminile sperimentata attraverso la condizione di «travestito part time», l’osservazione dello spazio con sguardo gaio che lo trasforma nel nominarlo.
È attraverso questa esperienza, per esempio, che Mieli – pur quando è caustica – non perde di vista la determinante prodotta dall’oppressione di genere anche sull’oppressione omosessuale, ma non rinuncia mai a dialogare criticamente con il resto della composizione del suo gaio comunismo (in questo senso il tentativo di Massimo Prearo e Paola Mieli di agganciare il lavoro di Raewyn Connell attraverso le citazioni che fa di Mieli è perfettamente pertinente); è attraverso questa esperienza che, scoprendo (Intervista a Mario Mieli, Studio 82) «che ci sono degli omosessuali rivoluzionari […] però sono molto meno di quelli che pensavo esistessero allora», non ha problemi a riscontrare che i locali gay siano «molto meglio oggi di una volta, però guai accontentarsi di questo perché significa vivere nella totale schizofrenia, non rendersi conto che questa è una maniera di tenerci a bada», e che lo porta a ritrovare nell’esoterismo quel «regno della libertà» che è sessuale ed economica al tempo stesso, e continuando a produrre effetti di campo incanalando il rapporto con i testi alchemici – su cui aveva attirato l’attenzione due anni fa Giorgiomaria Cornelio – nuovamente in una pratica immersiva. Di Foucault, in questa intervista, lo infastidisce l’idea che «il proibito rende più eccitante l’Eros»; controbatte senza timore di citare «un libro che è molto fascista come libro» (cioè Metafisica del sesso di Evola) «però se tu fai mutatis mutandis, applichi la stessa cosa all’omosessualità, scopri che esistono delle dimensioni che noi non viviamo normalmente nelle saune o in altri posti perché sono delle dimensioni in cui la liberazione totale dell’Eros porta a degli stati di comunicazione spirituale più elevati di quelli che avvengono normalmente», sottolineando – contro di essa – che «tutta la tradizione esoterica definita della Via della Mano Sinistra, è la tradizione che è legata alla liberazione dell’Eros». Non è un caso che all’inizio dell’intervista avverta: «Non farmi delle domande molto culturali perché io non sono un intellettuale, sono un artista» (vale la pena, sulle pratiche esperienziali e artistiche nei movimenti del Lungo Sessantotto, riprendere il panel L’assalto delle gole al cielo su Roots and Routes, curato Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Viviana Gravano & Annalisa Sacchi).
«La rivoluzione la si fa ovunque. A Macondo come in tram, a Buckingham Palace come alla Breda, a pranzo dai genitori e a letto con l’amante. La parola d’ordine è AMARE: buttiamo A MARE la macchina capitalistica, e riprendiamoci il mondo», ricorda Mieli nel testo inedito Macondo. Ci ricorda così che resta sul piatto un problema. Troppo asistematica l’esperienza, ma necessaria fonte di elaborazione politica e punto di partenza indispensabile per la teoria, come negli ultimi tempi si è visto col proliferare in Italia di esperienze di cultura queer autogestita che hanno aperto spazi, prodotto comunità, festival, serate, performance, alimentato dibattiti, pratiche, spunti teorici, ma non hanno potuto mettere in discussione le politiche LGBT mainstream. Troppo astratta la teoria, come in questi giorni sembrava di rivedere ancora nel dibattito sul Salone del Libro di Torino, in cui a cercare di analizzare minuziosamente le strategie di visibilità di Salvini e di Casa Pound si rischiava di perdere di vista il punto politico della presenza neofascista al Salone; e dall’altro lato però necessaria, come si vede dal fatto che non si è potuto, nell’emergenza, aprire un dibattito più ampio sull’inequivocabile dominio capitalistico sugli spazi culturali, più pervicace che in passato e meno contrastato dalle esperienze di autogestione. Troppo finalizzata la militanza, che troppo spesso propone scadenzari politici, costruisce linguaggi autoreferenziali, si incarta nell’assemblearismo (la critica più recente nel dibattito italiano, in ordine di tempo, arriva dalla traduzione dei testi del Comité Invisible), affrettatamente propone obiettivi; e allo stesso tempo necessaria a organizzarsi e coordinare le varie dimensioni che prefigurano utopicamente il gaio comunismo. Per dirla con un’icona gay: che fare? L’indicazione che viene da questa raccolta, a partire dai testi e da chi li ha curati, è di continuare a battere per combattere, battere il campo per modificarlo, cogliere il potenziale strategico dell’improvvisazione, quando questa è politicamente informata, e la potenza critica dell’esperienza nel disfare e ricostruire continuamente i rapporti e le rappresentazioni, le santificazioni e le demonizzazioni; la necessità di fallire con stile, nella consapevolezza che è inevitabile finché abbiamo un mondo da riprenderci, e – risuonano particolarmente oggi queste parole di Mieli – «c’è addirittura il rischio della distruzione totale del mondo, o di parti intere del mondo, e questo viene dato per scontato oggi, oggi non si è più pazzi se si rileva questo dato di fatto».
Una versione breve di questo articolo è stata pubblicata su Ghinea.