Ripartire!
Leggi le altre parti del «diario della pandemia» di Bifo qui.
Ben venga maggio
e ‘l gonfalon selvaggio!
Ben venga primavera,
che vuol l’uom s’innamori:
e voi, donzelle, a schiera
con li vostri amadori,
che di rose e di fiori,
vi fate belle il maggio
Poliziano
11 maggio
Da quando, dopo un anno di sofferenza e di agonia, mia madre se ne andò nel maggio del 2015, la morte è stato il tema dominante della mia riflessione.
La corteggiavo, in un certo senso, la sfidavo a venirmi a trovare possibilmente di notte, senza fare rumore. L’idea di una lunga vecchiaia sofferente ed ottusa, l’idea del collasso improvviso che toglie coscienza mi terrorizzava. E poi francamente non ho mai creduto che la longevità sia una strategia intelligente dal punto di vista della vita felice, e tutte le menate sui vecchi che invecchiano bene che fanno ginnastica eccetera non mi hanno mai convinto. Diciamo che la longevità non mi si addice, gli altri facciano un po’ quel che gli pare.
A metà del 2019 avevo cominciato a scrivere un libro del quale mi piaceva soprattutto il titolo. Divenire nulla.
Bel titolo no?
Ho scritto un centinaio di pagine, ma molti argomenti rimanevano allo stato di abbozzo, e soprattutto non mi mettevo fretta. Avevo anche pensato che forse un libro che si chiama divenire nulla debba sfumare leggermente col suo temerario autore, e rimanere incompiuto sull’orlo dell’eternità.
Negli ultimi due anni, poi, dopo il maledetto viaggio a Houston, dopo quei tre giorni nel posto più orrendo in cui mi sia mai capitato di trovarmi, anche la voglia di viaggiare si stava un po’ affievolendo. Ogni volta che andavo da qualche parte (ho continuato a farlo fino a febbraio) mi sembrava di sottopormi a uno stress inutile, parlare in pubblico era diventato faticoso. L’ultima conferenza pubblica che ho fatto, a Lisbona, il 20 febbraio, la ricordo come un incubo. Parlavo in centro sociale dentro una specie di garage largo e lungo pieno di una folla rumoreggiante e colorata. Il tema, vagamente iettatorio, se ben ricordo era l’apocalisse ironica, o forse l’Ironia apocalittica. Poco importa, fatto sta che giocavo col fuoco.
Quel giorno non stavo bene: mi faceva male l’orecchio, mi pulsava la testa, respiravo a fatica, e a un certo punto, mentre stavo parlando a quella folla assorta, dall’esterno arrivò l’urlo lacerante di una sirena. Forse un’ambulanza, forse una macchina della polizia, non so. Quel rumore infernale sibilò nello stanzone, mi fece perdere l’equilibrio, la calma, e soprattutto il filo del discorso. L’onda di panico durò per una decina di secondi in un silenzio inquieto, poi ripresi normalmente, facendo lo spiritoso sul mio stato di confusione mentale. Dissi che mi stavo sintonizzando con la psicosfera panica, e che l’ululante sirena faceva parte della performance, e conclusi promettendo come al solito insurrezioni felici. Due giorni dopo rientravo in Italia e all’arrivo nell’aeroporto di Bologna mi puntarono alla testa una pistola termometro ed ebbi la prova che il mondo entrava in una nuova era.
Nei mesi successivi tutto è cambiato, cioè non proprio tutto ma moltissimo. Anzitutto il viaggio a Lisbona è stato l’ultimo, almeno per ora, e non posso escludere che sarà l’ultimo forever. Vedremo.
Da quel momento la curiosità di futuro ha catturato la mia vita mentale con una fascinazione talmente forte che ho proposto alla nera sorella che corteggiavo impudente di aspettare un attimo; prima vorrei vedere come va a finire. Lo so, lo so che non va a finire da nessuna parte, perché mai nulla finisce e sempre tutto continua. Ma per lo meno capire che piega prende la storia del mondo, se permetti.
Un filosofo molto rispettato qualche anno fa mi disse: senti, dal momento che parli così spesso della morte, perché non ti suicidi?
Detesto coloro che provano imbarazzo o addirittura si scandalizzano quando si parla della morte, come se fosse un argomento indelicato. Un filosofo molto rispettato qualche anno fa mi disse: senti, dal momento che parli così spesso della morte, perché non ti suicidi? E aggiunse che per Spinoza solo la vita è un argomento di cui il filosofo si può occupare. Mi convinsi allora che il filosofo molto rispettato non è che un presuntuoso. Un filosofo che non si occupa della morte, Spinoza mi perdoni, non è un filosofo, ma un cioccolataio.
Negli Stati Uniti i morti sono ufficialmente ottantamila, il che vuol dire che sono almeno il doppio. Questo non preoccupa troppo il presidente, che fino a qualche giorno fa mandava messaggi sbarazzini e battaglieri; ma negli ultimi giorni ha sospeso le conferenze stampa in cui dava consigli medici, e lo vediamo un po’ corrucciato. Il semestre che lo separa dalle elezioni rischia di non essere facile per lui; adesso per colmo di sventura, tre persone che lavorano quotidianamente alla Casa Bianca risultano positive al test per il coronavirus: la portavoce di Pence, un maggiordomo e un consulente che frequenta la protettissima West Wing dell’edificio presidenziale. Non potrebbe andare peggio per il mammasantissima: se perfino là dentro, nel luogo più protetto che ci sia, tre persone sono state raggiunte dal virus, è difficile continuare a incitare la gente perché torni a lavorare.
I disoccupati sono ormai intorno ai venticinque milioni e si attende che diventino trentacinque entro il mese prossimo. E siccome in quel paese chi non ha soldi non si può curare, i poveri, gli afroamericani e i latini muoiono a migliaia ogni giorno, ogni giorno, ogni giorno.
Un’illuminazione e una speranza: e se Trump uno di questi giorni crepasse come un cane tra un tweet e l’altro? Forse non gli dispiacerebbe andarsene via adesso. Potrebbe presentarsi a San Pietro dicendogli sono il presidente degli Stati Uniti, fammi passare, ma credo che San Pietro gli direbbe vai a farti fottere. Però così almeno il pallone gonfiato si potrebbe evitare la figuraccia di essere sconfitto da un cavallo zoppo come Joe Biden, mentre quaranta milioni di disoccupati là fuori rumoreggiano.
Come poi, pensando al presidente degli Stati Uniti, mi sia venuta alla mente l’opera di Manzoni, non so, ma ve lo lascio immaginare. Mi sovvenne ieri sera della scena in cui don Rodrigo si risveglia la notte scoprendo di avere sul corpo «un sozzo bubbone d’un livido paonazzo». Certamente lo ricordate: «l’uomo si vide perduto. Il terror della morte l’invase, e con un senso per avventura più forte, il terrore di diventar preda de’ monatti, d’esser portato, buttato al lazzaretto».
Che fa allora, terrorizzato, il capo dei malvagi, rapitore di Lucia? Chiama il vicepresidente? Pressappoco:
Afferrò il campanello e lo scosse con violenza. Comparve subito il Griso, il quale stava all’erta. Si fermò a una certa distanza dal letto, guardò attentamente il padrone, e s’accertò di quel che la sera aveva congetturato.
«Mike», esclama il disgraziato, «cioè Griso, tu sei sempre stato il mio fido…»
«Sì signore.»
«T’ho sempre fatto del bene.»
«Per sua bontà.»
«Di te mi posso fidare…»
«Diavolo…»
«Sto male, Griso.»
«Me n’ero accorto….»
«Sai dove sta di casa Chiodo il Chirurgo?» (così allora si chiamava Anthony Fauci…)
Don Rodrigo implora il Griso di andare a cercare il chirurgo e di tornare con lui, ma prevedibilmente il Griso lo tradisce, come certo ricordano i miei venticinque lettori.
Invece di andare da Fauci va dai monatti, li avverte che il suo padrone ha il coronavirus, li porta alla casa del povero don Rodrigo che naturalmente, vedendosi tradito, ci resta proprio molto molto male: «I monatti lo presero, uno per i piedi e l’altro per le spalle, e andarono a posarlo su una barella che avevan lasciato nella stanza accanto; quindi, alzato il miserabil peso, lo portarono via.»
12 maggio
All’inizio di maggio era prevista l’uscita del mio libro cui voglio più bene, non foss’altro che per il fatto che ci ho lavorato per più di vent’anni e non finisce mai, tant’è vero che si chiama E – come erotismo, estetica, epidermide, estinzione, eccetera.
Si chiama E perché incomincia citando Rizoma dove i due compari dicono (ricordate?) che la storia della filosofia occidentale è fatta di disgiunzioni o… o… o… e invece adesso dobbiamo fare una filosofia di congiunzioni e… e…e…
Appunto.
Ho parlato con l’editore – che poi è l’editore del sito che state leggendo – e abbiamo deciso di rimandare perché tanto quello è un libro senza tempo, e di sostituirlo con un altro librettino che si chiamerà: Fenomenologia della fine. Comunismo o estinzione. Oppure anche: Fenomenologia della fine. Ma di che fine stiamo parlando? Oppure chissà…
13 maggio
Non mi illudo che Il collasso pandemico abbia effetti socialmente positivi, nell’immediato. Al contrario, come scrive Arundhati Roy, «il coronavirus è entrato nei corpi umani e ha amplificato patologie esistenti, è entrato in paesi e società e ha amplificato le loro infermità e patologie strutturali. Ha amplificato ingiustizia, settarismo, razzismo, caste e soprattutto disuguaglianza». Secondo Arundhati il virus ha fermato la macchina; si tratta ora di fermare il motore, per rendere definitivamente inoperante l’economia finalizzata al profitto. A tutti i costi.
Il ciclo dell’accumulazione non riprenderà, perché le giunture sono scardinate: quella sanitaria, quella psichica, quella produttiva, quella distributiva… tutto è andato a farsi fottere.
Nei decenni passati la precarizzazione del lavoro ha reso fragile la società e ne ha indebolito la resistenza. Il Covid19 è stato il colpo finale: la società è stata disgregata dal confinamento obbligatorio e dalla paura, e al momento non è possibile resistere con l’azione. Ma per quanto ciò possa apparire paradossale, è proprio la passività che sconfiggerà il capitalismo portandolo alla morte per asfissia. La forma più sovversiva di passività è l’insolvenza, che consiste nel far saltare tutto non facendo niente, e più precisamente limitandosi a non pagare per la semplice ragione che non possiamo pagare.
L’insolvenza non ha bisogno di essere propagandata, predicata, urlata: verrà da sé come conseguenza naturale del crollo dell’economia. L’insolvenza non è una colpa ma una necessità universale. E la società dovrà cominciare a sperimentare forme locali e autonome di produzione e distribuzione finalizzate alla sopravvivenza e al piacere.
Nell’agosto dell’anno passato mi telefonò Marco Bertoni, un musicista che avevo forse conosciuto negli anni Ottanta, quando lui faceva parte dei Confusional Quartet, che sulla scena musicale bolognese di quegli anni aveva una collocazione particolare, non marginale ma estrema. In quegli anni a Bologna era arrivato il vento punk-no wave e si era mescolato con le ultime folate della tempesta insurrezionale del ’77. Perciò la scena musicale era affollata e appassionata: gli spettacolari Skiantos, i radical-punk Gaznevada, gli sperimentali Stupid Set, e altri di cui non ricordo.
I Confusional erano quelli più colti, raffinati, più musica contemporanea che pop, più jazz freddo che caldo punk-rock. Quarant’anni dopo, nell’agosto del 2019, Marco mi telefonò per dirmi che gli era venuta voglia di realizzare un’opera di cui aveva in mente solo il titolo. E che la voleva fare con me, non so perché. Il titolo mi fulminò, perché sintetizzava elettricamente molte delle linee che attraversano questo tempo: la grande migrazione, il grande respingimento, la violenza astratta tecno-finanziaria e la violenza concreta del nazismo di ritorno.
Quando mi disse il titolo che aveva in mente fummo d’accordo subito: Wrong Ninna Nanna.
Immaginai una giovane madre honduregna che ha raggiunto il confine tra Tijuana e San Diego, ma alla frontiera ci sono le guardie armate e ora non sa più dove andare e cosa fare e sta lì, seduta per terra che culla il suo bambino. Ma potrebbe anche essere una giovane donna nigeriana o tunisina in una barca di gomma che si dirige verso la costa siciliana.
Io e Marco abbiamo cercato di immaginare cosa prova una madre che ha messo al mondo un essere sensibile e vulnerabile, senza riflettere forse abbastanza sul mondo in cui il nuovo arrivato deve crescere.
C’è qualche ragione per riprodursi?
Nel film Cafarnao, la regista libanese Nadine Labaki racconta la storia di un bambino siriano dodicenne rifugiato in un infernale campo profughi di Beirut, che denuncia alla magistratura i genitori per averlo messo al mondo. Il film di Labaki è stato per me l’ispirazione principale dei testi che ho scritto per Wrong Ninna Nanna: sono poesie accartocciate nell’angoscia di un’epoca senza più speranza. Abbiamo cominciato a lavorarci a settembre, poi è venuto l’autunno della convulsione, le rivolte gigantesche e rabbiose da Hong Kong, a Santiago, a Beirut, a Parigi, a Barcellona.
Marco cominciò a comporre con tutti gli strumenti musicali di cui l’ha dotato madre natura: le foglie, il vento, i corvi, i passerotti, l’acqua che scorre, e anche il suo pianoforte furiosamente squillante e cori di voci angeliche e misteriose.
Poi abbiamo chiesto a un’amica performer che ricordo di aver conosciuto a New York quando cantava nei locali punk del Lower East Side e io facevo il giornalista musicale, e che Marco ha seguito nella sua carriera artistica – Lydia Lunch, una delle più grandi performer musicali del nostro tempo. Lei ha detto sì, e ha registrato alcuni brani nel suo studio, poi ci ha mandato le registrazioni e così è cominciato un lungo lavoro di montaggio. Poi ho scritto a Bobby Gillespie, il magnifico magrissimo dei Primal Scream che certamente conoscete tutti. Hai voglia di mettere la tua voce recitando cantando facendo quel che ti pare su queste parole e questi suoni? Ha detto sì.
Poi è arrivato il coronavirus, la pandemia, il lockdown, e a quel punto la maledizione sembrava perfettamente compiuta, e abbiamo creato un brano introduttivo che si chiama «Earth and World», un brano per voce astratta, per voce non umana.
Una casa discografica ci ha proposto un’edizione in vinile. Sì ma quando? Quando si potrà riprendere la produzione di dischi, di libri, di film?
Prima o poi.
Intanto però, nell’attesa che esca il vinile vogliamo far conoscere online quest’opera che pare essere la colonna sonora dell’apocalisse. Abbiamo parlato con i nostri amici Cuoghi & Corsello, artisti bolognesi che io conosco da quando negli anni Ottanta alcuni loro tag riempivano i muri della periferia bolognese, e gli abbiamo proposto di collaborare alla realizzazione video di Wrong Ninna Nanna.
Ci siamo incontrati proprio il giorno prima dell’inizio del lockdown, e nella solitudine creativa di questi due mesi C&C hanno realizzato il video di alcuni brani. Gli altri li ha realizzati Marco Bertoni con l’aiuto di suo figlio. Stay tuned.
14 maggio
Dimostranti miliziani armati aiutano a riaprire esercizi commerciali in Texas.
Secondo il quotidiano La Folha de Sao Paulo le milizie bolsonariste non accetteranno la sconfitta e si stanno armando.
Guerra civile globale all’orizzonte.
Secondo Lorenzo Marsili non dovremmo aspettarci troppo dalla fine del mondo: «Dimenticate i sogni campestri di decelerazione. Basti pensare a questo paradosso: l’accelerazione vorticosa del mondo e del tempo intorno a noi avviene attraverso una crisi che ci costringe a rallentare. Sembra instaurarsi uno strano meccanismo per cui più ci fermiamo più la realtà viene trasformata dal nostro stare a casa. Il Covid-19, lungi dal rallentare il mondo, ha fortemente accelerato processi di trasformazione personale, politica ed economica già in atto.
Uno sfilacciamento più che un collasso.
Nemmeno il Covid-19 farà saltare in aria il mondo. Ma potrà certamente portare a una sua ulteriore degenerazione: i negozi artigianali potranno chiudere sempre più rapidamente a beneficio della grande distribuzione organizzata; vi potrà essere un inasprimento delle misure di austerità per espiare la colpa dell’indebitamento necessario; si potrà rafforzare la tendenza dei più ricchi a prepararsi vie di fuga, accelerando il processo di distaccamento delle élite dalla propria comunità nazionale. Il punto è che la crisi non è più interruzione della normalità. La normalità è crisi. La crisi non è più un momento decisivo, non più uno spartiacque, non più il momento eroico. E dunque non è più un concetto utile. Se dovessimo fare una lista delle cose che più ci sono mancate in questa quarantena – esercizio utile, se non altro per rendersi conto di quanta poca importanza un certo consumismo rivestisse nelle nostre vite – le relazioni umane sarebbero senz’altro ai primi posti. Ci mancano gli amici. Ma proprio tutti? Ecco un esempio semplice di cosa significa superare la scelta binaria fra crescita e decrescita. Meno amici e più amicizia.»
15 maggio
Scrivono citando un commento a Giap i Wu Ming, seduti sulla riva del fiume: «Si tratta di una sorta di principio di indeterminazione in senso heisenberghiano, fra il virus e l’emergenza. Non puoi guardare e tenere fermo lo sguardo su entrambi, ma o sottovaluti uno o l’altro. Sottovaluti agli occhi dell’altro. Cioè: per colui che vede bene il virus (o crede di vederlo bene) l’emergenza è solo una contingenza che passerà se passerà il virus; per colui che vede bene l’emergenza (o crede di vederla bene) il virus, per quanto serio e pericoloso, sarà sempre meno letale delle conseguenze che le politiche emergenziali stanno provocando. Ogni discussione ha questa instabilità al suo interno e farla venire a galla non può che essere un bene.»
Come spesso mi capita dopo aver letto Wu Ming, mi rendo conto di avere imparato qualcosa. Adesso mi fermo un attimo e ci medito su.
Stasera qui in terrazza c’è una luce celestina che non vuole finire e sfuma lentamente malinconica. Facciamo mezz’ora di yoga e un lunghissimo mantra prima che la luce del sole si spenga del tutto.
A Bologna sono stati arrestati sette compagni e compagne del circolo anarchico Il Tribolo con l’accusa abnorme di associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Si tratta di compagni e compagne che si sono distint* nella solidarietà e nel sostegno ai detenuti, pienamente intern* al movimento anticarcerario trasversale che ha ricominciato a esprimersi negli ultimi mesi nei presidi sotto il carcere Dozza e nelle iniziative in città.
Tutta l’operazione contro di loro assume caratteristiche di abnormità: dai pedinamenti con i droni (perché, con la caccia ai runners in via di esaurimento, in qualche modo bisognerà pure utilizzarli), all’irruzione nelle case di carabinieri in tenuta antisommossa, con caschi e scudi. Trasferiti nelle sezioni di alta sicurezza di Piacenza, Alessandria, Ferrara, Vigevano. Perché?
Unico reato specifico contestato: il danneggiamento di un ponte ripetitore, la cui attribuzione ovviamente è tutta da dimostrare, ma che ricorda, tristemente, montature di altri tempi in Val di Susa.
Il comunicato stampa della Procura ha carattere di documento politico: afferma il carattere preventivo dell’intervento «volto ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato”», in linea con la direttiva emanata dal ministro Lamorgese ai prefetti per prevenire il «manifestarsi di focolai di espressione estremistica».
Si prepara un’ondata di repressione preventiva, nel clima di paura e isolamento che il lockdown ha favorito.
Quando ho visto gli spot di celebrity pubblicitarie che ci invitavano a imitarle restando a casa, come se avessimo tutti la piscina la terrazza e il maggiordomo, ho subito pensato che lì c’era qualcosa di sbagliato.
16 maggio
Guido Viale mi è personalmente antipatico da quando nel luglio del 1970 pubblicò sul quotidiano Lotta continua una lunga stroncatura del mio primo libro che si chiamava Contro il lavoro. Non gliel’ho mai perdonata, però ammetto che negli ultimi tempi scrive sempre delle cose intelligenti. Oggi pubblica su Comune-info un articolo in cui parla di normalità «potenziata»: «Potenziata per recuperare il tempo perduto: non quello di Proust, ma quello del PIL: più produzione, più sfruttamento, più precarietà – cioè mancanza di prospettive e di futuro – per tutti, più debito, più diseguaglianze tra ricchi e poveri, più emarginazione di chi è rimasto indietro, più respingimenti di chi non dobbiamo vedere tra noi (per poterli sfruttare meglio), più indifferenza verso le “vite di scarto”. Per molto tempo, per i lavori della riproduzione o di cura – il cui ruolo essenziale al funzionamento della società, ma a lungo occultato, è stato portato alla luce dai movimenti femministi – è stata rivendicata una “pari dignità” e una retribuzione adeguata a quelle che venivano riconosciute al lavoro detto produttivo. Si trattava, in altre parole, di sospingere con la lotta, il lavoro di cura entro la sfera del lavoro produttivo. Oggi però appare chiaro che il movimento da promuovere è esattamente l’opposto: occorre battersi per trasformare tutto il lavoro produttivo in lavoro di cura della Terra, del vivente, della convivenza umana, della riproduzione della vita. È la cura che deve attrarre, accogliere e trasferire entro la propria sfera di senso e di rivalutazione il lavoro detto “produttivo”, realizzando, entro questa trasformazione, quel riequilibrio tra generi e ruoli che lo “sviluppo delle forze produttive” non ha mai saputo né poteva realizzare: una inversione di campo non da poco. È in questa prospettiva che la rivendicazione di un reddito incondizionato può perdere il suo carattere retributivo – “mi paghi in cambio di qualcosa”; per assumere i connotati di una rivendicazione consustanziale a quella di un’appartenenza comune a un unico genere umano».
17 maggio
Dopo aver meditato sulle parole di Wu Ming che ho citato poc’anzi, ora tocco un tasto sensibile, e non vorrei che qualcuno equivocasse.
Non sono certo un fanatico della produttività, né idolatro la libertà come valore astratto. Sono anarchico, ma non per questo credo che sia giusto fottere gli altri in nome della propria libertà. Anzi credo proprio che il mito della libertà (di alcuni) sia stato spesso usato per imporre la schiavitù della maggioranza.
Ma quando nel mese di marzo ho sentito parlare dell’obbligo di starsene a casa, quando ho visto gli spot di celebrity pubblicitarie che ci invitavano a imitarle restando a casa, come se avessimo tutti la piscina la terrazza e il maggiordomo, ho subito pensato che lì c’era qualcosa di sbagliato. Ma ancora più sbagliato era l’invito contrario a riprendere a tutti i costi il lavoro alla catena di montaggio. La Confindustria è peggio di Fiorello.
Poche storie: per evitare che il virus dilagasse uccidendo milioni di persone era giusto fermare tutto. Ma ora, due mesi dopo, dobbiamo andare a vedere i dati relativi alla letalità del virus e scopriamo che sono abbastanza bassi. Inoltre è interessante il dato relativo all’età media dei morti. 80 anni in Austria, 80 in Gran Bretagna, 84 in Francia, 81 in Italia, 84 in Svizzera, e 80 negli Stati Uniti. Dal momento che ho settant’anni non penso affatto che sia giusto lasciar che i vecchi muoiano senza curarsene troppo. Ma insomma…
Dobbiamo forse riconoscere che la pericolosità del virus è stata in qualche modo sopravvalutata? In questi casi è meglio sopravvalutare che sottovalutare, non c’è dubbio. Ma quel che occorre spiegare è come mai si è scatenata la più angosciosa tempesta informativa di tutti i tempi.
Ripeto che sono un acceso tifoso del lockdown e detesto i «libertari» che vogliono far lavorare la gente con sprezzo del pericolo. Ciononostante, senza alcunissimo intento polemico nei confronti delle misure di prevenzione mi chiedo: come mai?
La mia risposta è complessa ma semplice.
Nella primavera del 2020 abbiamo assistito a una globale crisi di panico la cui causa era solo occasionalmente legata alla pandemia, e in modo più profondo dipendeva dallo stress psichico di una società costretta a lavorare in condizioni precarie competitive e miserevoli, oltre che dallo stress fisico di un organismo debilitato dall’inquinamento dell’aria e dei linguaggi.
Se non si fossero imposte le misure di confinamento, il virus avrebbe ucciso molte volte di più – dunque viva il lockdown.
Ma quel che occorre contenere e debellare non è soltanto il virus che scatena reazioni in alcuni casi estremamente dolorose e talora letali. Quel che occorre debellare è anche l’inquinamento sistematico dell’ambiente, lo stress da competizione economica e da iperstimolazione elettronica. E questo non lo faranno i medici e non lo farà un vaccino. Dobbiamo farlo noi, con la lotta di classe. Warren Buffett aveva ragione quando diceva che la lotta di classe non è affatto finita, semplicemente l’hanno vinta loro, gli sciacalli. Questo era ieri, ma adesso è domani. La lotta di classe riprende, e questa volta gli sciacalli sono disorientati, almeno quanto noi.
18 maggio
Sul New York Times esce un articolo di Roger Cohen, un giornalista liberal, moderatamente progressista, molto colto. Forse il mio giornalista americano preferito. Il titolo «The masked against the unmasked» si annuncia piuttosto misterioso, ma il testo è chiarissimo, fin dalle prime righe.
«…un vicino in Colorado mi ha detto: gli altri, (i trumpisti) sono armati e non si fermeranno davanti a nulla. Cosa diremo ai nostri nipoti quando Ivanka Trump prenderà il potere come 46esimo presidente degli Stati Uniti nel 2025 e saranno aboliti i termini di durata della presidenza? Gli diremo che ce l’abbiamo messa tutta con le parole, ma che loro avevano il fucile?»
Naturalmente subito dopo Cohen aggiunge che non è d’accordo col suo vicino e che la democrazia americana non è come quella ungherese.
Però a me interessa la sostanza, non le buone intenzioni dell’illuminato liberal Cohen. Mi interessa sapere che in America si prepara una guerra civile, oppure una psicopatica vittoria dei suprematisti. E quel che si prepara in America si sta preparando anche in Brasile, e in molti altri paesi del mondo: la guerra civile è la prospettiva più realistica. Dobbiamo armarci anche noi? Non credo, se finisce a fucilate non c’è dubbio che perderemo. Ma dobbiamo sapere cosa ci aspetta, e smetterla di dire frasi retoriche sulla democrazia che è già morta e sepolta, per inventare una resistenza all’altezza della tempesta che arriva.
Devo farvi una confessione imbarazzante: negli ultimi tempi sono cambiato, la mia personalità è stravolta, insomma non mi riconosco più. Non per effetto della pandemia o del lockdown, intendiamoci, quello sarebbe perdonabile. No: è successo per colpa di Netflix.
Mi spiego: da una quindicina di anni io e Billi ci siamo trovati d’accordo su una cosa: basta con la televisione. Per anni ogni sera ci eravamo rovinati la cena con quelle facce da culo e con le valanghe di merda che ne fuoriuscivano. Basta.
Lo schermo televisivo è stato sommerso da piante rampicanti, cactus e rododendri, poi è finito nell’immondezzaio. Per quindici anni non ho mai più visto la tivù se non per pochi secondi in qualche bar malfamato.
Sono diventato così un disadattato sociale. Nelle discussioni con i conoscenti metà dei riferimenti mi sfuggivano, personaggi molto nominati erano per me del tutto sconosciuti. Tanto meglio per me se non sapevo chi fosse Giletti.
Poi è arrivato il lockdown e sai che cosa ho fatto? Mica sono andato a comprare un’altra tivù, non esageriamo, però mi sono iscritto a Netflix. Ho pagato nove euro e ho avuto a disposizione una lista di roba di cui ignoravo l’esistenza. Più o meno a caso abbiamo scelto di vedere una cosa che si chiama Casa de papel – credevamo, pensa un po’, che fosse la traduzione di House of Cards. È una produzione spagnola che racconta una rapina gigantesca alla zecca nazionale. Non una rapina in realtà, ma l’occupazione della casa in cui si stampa il denaro: lo scopo è quello di stampare circa 2,4 miliardi di euro con la collaborazione degli ostaggi. Tra gli ostaggi c’è la figlia dell’ambasciatore inglese in Spagna, e gli eroi della rapina si attribuiscono ciascuno il nome di una città: Tokyo, Mosca, Berlino, Nairobi, Rio, Denver, Helsinki e Oslo.
Be’ adesso non sto a raccontare tutto, ma una cosa la devo dire. Casa de papel è bellissimo, travolgente, meglio di Dostoievski, meglio di Stendhal, meglio di tutta la storia della letteratura universale. Certo alcune cose possono apparire inverosimili (tipo la liberazione di Tokyo da parte di quattro serbi con la barba). Ma quando voi leggete l’Odissea come potete credere che Ulisse ha attraversato a nuoto mezzo Mediterraneo? Ci credete e basta, perché l’ha detto Omero.
Confesso che ho sempre avuto un debole per le rapine, fin da quando nel carcere di San Giovani in Monte dove ero detenuto per noiosi reati politici incontrai Horst Fantazzini, che aveva rapinato una dozzina di banche emiliane senza mai avere un’arma da fuoco: si recava agli sportelli dicendo semplicemente (con l’esercizio di quello che i linguisti chiamano «atto linguistico performativo»): questa è una rapina. I cassieri gli davano tutto quello che avevano in cassa e lui se ne andava sorridendo giulivo. Una volta a Piacenza una cassiera gli disse se ne vada o chiamo la polizia, e Horst (che era un gentiluomo raffinato, parlava un ottimo francese, e in carcere vestiva una giacca da camera di velluto amaranto) le rispose: mi scusi, passerò un’altra volta.
Purtroppo io sono un cagasotto e non ho mi osato svaligiare nessuno. Mi sono limitato a concepire improbabili insurrezioni contro lo Stato, e vivo con una modesta pensione di insegnante che probabilmente nei prossimi anni scomparirà insieme allo Stato italiano e a tutti gli altri.
Ma insomma fino a dieci giorni fa ero ben informato, leggevo ogni giorno il Financial Times, il New York Times, Le Monde, il manifesto, L’Avvenire, El pais, più tre-quattro settimanali e grossi libri di storia e di filosofia. Adesso non so quasi più niente non penso ad altro che a Casa de papel, al simpatico professore, alla bellissima Tokyo e all’enigmatico e inquietante Berlino.
Il mio odio per le banche, per il denaro e per coloro che lo accumulano al momento si esprime così, ma spero che nei prossimi mesi, mentre il capitalismo continua a crollare come un castello marcio, l’esproprio si popolarizzi.
Forse il cambiamento della mia personalità è dovuto anche alla fine della droga. Ho letto che le vie di rifornimento si sono esaurite, più o meno, e comunque i ragazzi da cui mi rifornivo non li vedo più da quando il virus maledetto li ha separati da me. L’astinenza non mi fa male, intendiamoci. Anzi, senza le mie tre canne quotidiane il cervello si eccita esageratamente, e concepisco pensieri dei quali non dovrei parlare tanto allegramente. Solo con voi ne parlo, cari amici, ma acqua in bocca. Che non si sappia in giro.
Comunque questo settimo sigillo è l’ultimo della mia lunga cronaca della psicodeflazione.
Vi lascio, non so bene che farò adesso, ma come si sa un bel gioco dura poco e questo è già durato per tre mesi.
Ieri per decreto si è tornati alla vita normale. Sort of.
Come suggerisce Andrea Grop in un messaggio che ho subito condiviso, la parola d’ordine è: ripartire. Anche noi vogliamo ripartire, come no. Vogliamo ripartire le ricchezze che sono state privatizzate, vogliamo ripartire gli edifici sfitti di proprietà di un ente finanziario, vogliamo ripartire il denaro accumulato con lo sfruttamento del lavoro. La parola d’ordine è: ripartizione, esproprio, socializzazione dei mezzi di produzione, reddito garantito per tutti senza distinzione di sesso, di credo religioso e di provenienza geografica.
Vedrete che fra un anno quasi tutti capiranno che se non si espropriano gli espropriatori la maggioranza della gente come me e come te finirà in miseria nera, e morirà male. Ed è meglio morire bene, piuttosto che morire male.
Qualcuno si chiedeva se dal confinamento usciremo migliori o peggiori. Dipende da cosa vuol dire: la paura, il distanziamento, il ricatto economico non ci renderanno certo più solidali, almeno per un po’. I padroni useranno la disoccupazione come un ricatto; i proprietari della FIAT già ricattano lo Stato, chiedono miliardi di euro per la loro lurida azienda, che dopo aver sfruttato gli operai e succhiato per decenni i contributi dallo Stato italiano (non) paga le tasse in Olanda e licenzia a Torino e Pomigliano.
Accadrà, e subiremo. Subiremo molte cose nei prossimi mesi, subiremo la violenza dei razzisti contro i migranti, subiremo l’arroganza dei padroni e quella dei fascisti. Ma non subiremo per sempre perché il potere non si consoliderà, la macchina economica non si rimetterà in moto, è irreversibilmente scardinata.
Tutto sarà instabile, come una ciurma di ubriachi su una barca in mezzo al mare in tempesta. Occorre prepararsi a un lungo periodo di instabilità e di resistenza e occorre farlo fin da subito. Resistenza vorrà dire creazione di spazi autodifesi di sopravvivenza, di produzione dell’indispensabile, di affetto e di solidarietà.
Ci sono almeno ottantacinque probabilità su cento, anzi forse novanta e credo addirittura novantuno che la vita sociale peggiori, che le difese sociali si sgretolino, che forme di controllo tecno-totalitario si incastrino nel corpo malato della società, che il nazionalismo guerrafondaio prevalga. È probabile probabile probabile. Forse inevitabile.
Ma se la notte di San Silvestro ti avessi incontrato per strada e ti avessi detto che nell’arco di tre mesi ci sarebbero stati trenta milioni di disoccupati in America, che il prezzo del petrolio sarebbe sceso a zero dollari al barile, che il trasporto aereo si sarebbe fermato in tutto il mondo e che al confronto l’11 settembre è uno scherzo, mi avresti fatto internare alla neurodeliri.
Invece eccoci qua.
Sai perché? Be’, te l’ho già detto non so quante volte: perché l’inevitabile in genere non accade, infatti è l’imprevedibile che prevale sempre.