Federico Antonini, 19:1*, 2011

Out of Time

Giornate lunghissime e settimane che volano veloci: a proposito di quarantena, tempo, noia e finte citazioni di Borges

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In questi giorni, lavandomi le mani in continuazione, ripenso spesso a una poesia di Borges, una delle prime cose di Borges che ho letto, durante l’adolescenza, e che avevo ricopiato su un quadernetto.

Si chiama «Istanti» ed è un elenco di rimorsi, una lista di cose che Borges avrebbe voluto fare e rimpiangeva di non aver fatto. Ma non è una poesia di Borges. È un falso, e di qualità infima: avrei voluto viaggiare di più, essermi fatto meno problemi, aver avuto più momenti felici… Se solo potessi avere una seconda possibilità, «ma vedete, ho 85 anni e so che sto morendo».

«Istanti», con la firma di Borges, è diffusissima, erroneamente citata in articoli e libri, riportata su fotomontaggi con rose e tramonti, e letta in decine di video amatoriali su YouTube. Per una di queste vie era arrivata anche a me, all’epoca, quando a diciotto anni non avevo ancora mai letto nient’altro di Borges né sapevo distinguere una bella poesia dalla paccottiglia.

Capisco però le ragioni del successo di un falso d’autore come questo: in fondo è confortante pensare che un vecchio saggio, anzi, proprio Borges, il vecchio saggio per eccellenza, vecchio saggio cieco, uno che ha conosciuto gli abissi dell’infinito e ha esplorato le vette del taoismo e dello gnosticismo, alla fine, tirando le somme, possa tornare da te per dirti che ha capito che le cose che contano davvero nella vita non sono i grandi tormenti dell’intelletto ma soltanto le piccole gioie quotidiane.

La parte che mi torna in testa mentre mi lavo le mani in questi giorni, comunque, è questa qui:

Se potessi vivere di nuovo la mia vita
La prossima volta cercherei di fare più errori
Eviterei di essere così perfetto, mi rilasserei di più
Sarei più sciocco di quanto non sia stato, in realtà
Prenderei pochissime cose seriamente
Sarei meno igienico

Se non il resto, almeno quel «sarei meno igienico» era un serio campanello d’allarme, una stonatura stilistica così insensata, quasi comica, che non capisco come non mi abbia dissuaso dal ricopiare la poesia sul quaderno. E invece ricordo addirittura che al me stesso di diciotto anni sembrava una verità condivisibile quella: quanto tempo perdiamo a lavarci? Troppo, pensavo. E visto che «Istanti» è una poesia che inanella una serie di luoghi comuni, evidentemente il desiderio di essere meno igienici nelle proprie vite, qualsiasi cosa voglia dire, è un sentimento comune, diffuso in molti, o almeno lo era fino a qualche tempo fa.

Quel quaderno non lo apro da tanto, è sepolto in qualche cassetto, ma ho un ricordo visivo chiaro di quella pagina lì, dove accanto a «Istanti» avevo trascritto un’altra citazione di Borges. Anche a questa mi capita di ripensare spesso, ultimamente:

«Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.»

È davvero sua, è il finale di «Nuova confutazione del tempo», in Altre inquisizioni, una lunga riflessione (che all’epoca non avevo letto: mi ero limitato a copiare queste righe, arcinote e citate ovunque) dove Borges critica l’esistenza di un tempo oggettivo, lineare, inesorabile. Il tempo è invece soggettivo e personale, dipende dall’individuo, dice Borges, e articola il suo ragionamento partendo delle teorie di Berkeley e dal pensiero di Hume. Insomma, siamo lontani dai recessi toccati dai versi di «Istanti»: «guarderei più tramonti […] mangerei più gelati e meno fave».

Secondo le neuroscienze il senso che noi abbiamo del tempo è un tessuto slabbrato. Il tempo, per come lo viviamo, dipende da questioni variabili e personali, dalle situazioni in cui ci troviamo.

Il discorso di Borges sul tempo è una di quelle frasi che citano spesso anche i neuroscienziati – e non è l’unica, ce ne sono diverse, tra le sue opere, che sono state utilizzate per spiegare qualche meccanismo della mente, del funzionamento della memoria o dei ricordi, tutte cose che Borges sembra aver intuito e raccontato prima e a prescindere dalla scienza.

In Neurobiologia del tempo, Arnaldo Benini spiega bene in che senso quella citazione è azzeccata (ma non ho il libro a casa, quindi prendete quello che sto per dire con la giusta cautela). Secondo le neuroscienze il senso che noi abbiamo del tempo è un tessuto slabbrato. Il tempo, per come lo viviamo, dipende da questioni variabili e personali, dalle situazioni in cui ci troviamo. Dalla nostra razionalità così come dai nostri corpi, da faccende individuali e quindi poco prevedibili: è un’esperienza privata che coinvolge tutto il cervello e che viene prodotta da meccanismi nervosi capaci di distorsioni poderose, che cambiano tra animali e uomini, per esempio, e possono essere diverse in ogni essere umano. Fuori dall’incedere degli orologi, il tempo assoluto non esiste. Come diceva Borges.

Non ho mai fatto un’esperienza più piena e completa delle distorsioni del tempo come in questi giorni, io come tutti quelli che si sono trovati chiusi in casa (dovrei specificare: con il privilegio di avere una casa, e di non avere preoccupazioni più grandi o problemi di salute o lavoro). La quarantena è una piccola prigionia, e il tempo della quarantena è un cerchio instancabile e regolare di giorni spesso uguali. È la noia del dover stare chiusi in una stanza per ore, immersi in un pantano, più che nel fiume di Borges, è il peso di giornate lunghissime e di settimane che invece volano veloci. In più, anche il tempo lineare del calendario è ormai sdoppiato a causa dell’epidemia: nei grafici dei nuovi contagi cerchiamo di leggere i risultati di decisioni politiche di un mese fa, mentre il film della diffusione del virus viene riproiettato spesso identico a se stesso in città e in nazioni diverse, a qualche settimana e parecchi chilometri di distanza.

Ho iniziato un diario durante la pandemia, perché speravo che fissare gli eventi mi potesse fornire una mappa per orientarmi nella confusione, e per non dimenticarmi le cose che stiamo vivendo. I primi giorni, all’inizio di tutto, dopo i primi focolai e i primi morti italiani, sono pieni di appunti:

«Domenica scorsa, il 23 febbraio, ero all’Esselunga di Segrate a fare la solita spesa, e la prima cosa strana che ho visto sono state alcune persone, almeno tre, che dall’uscita andavano verso il parcheggio con una decina di confezioni da sei di bottiglie d’acqua a testa nel carrello. Facendo conti: 1,5l x 6 x 10 fanno un totale di 90 litri di acqua. Non c’era panico, nonostante fossero terminati i beni di prima necessità, o almeno quelli che, stando agli scaffali vuoti, erano stati percepiti come beni di prima necessità da chi era arrivato prima di noi (a occhio, oltre all’acqua in bottiglia: la pasta, la passata di pomodoro, la carne, di tutti i tagli e i tipi – esclusi però gli hamburger vegetali –, i barattoli di ceci e di lenticchie e, per qualche motivo, la frutta tropicale). Molti facevano foto alle mensole vuote, e bisognava stare attenti a non entrare nelle foto degli altri, per non essere ritratti noi come quelli che erano cascati nella trappola della paranoia: in fondo eravamo tutti solamente spettatori della schizofrenia altrui. Le coppie scuotevano la testa e si dicevano ad alta voce che era una follia, e nel frattempo riempivano il carrello esattamente come gli altri, esattamente come me che continuavo a mandare le foto delle mensole vuote ai miei amici.

Mi sono iscritto a un paio di gruppi Telegram dedicati alle notizie sull’epidemia di COVID-19. Mandano articoli di giornali online e di pagine istituzionali (Corriere, Skytg, ministero), screenshot di post dei politici (gli ultimi: Di Maio e Toti), messaggi brevi tipo “Vinitaly rinviato a giugno” oppure “Pence: forse entro l’estate terapie per coronaviru”». Ieri hanno ricondiviso questo sondaggio interattivo:

EPIDEMIA CORONAVIRUS  | Molti sono stati i battibecchi anche tra scienziati durante questi giorni. E tu, a quel esperto ti senti più vicino?

Roberto BURIONI
Ilaria CAPUA
Massimo GALLI
Maria Rita GISMONDO
Giovanni REZZA
Walter RICCIARDI

36,6K visualizzazioni – 7554 voti»

Lunedì 9 marzo, il giorno dopo il lockdown della Lombardia:

«Per la prima volta da quando vivo a Milano ho sentito odore di fiori dalla finestra. In Francia 3500 persone si sono riunite vestite da Puffi per battere un record. Dichiarazione di uno di loro: pufferemo il virus. Da noi proteste e rivolte in 27 istituti penitenziari, 7 detenuti morti a Modena, agenti ostaggio a Melfi. Francesco Caputo ha segnato il primo gol di Sassuolo Brescia, giocata senza spettatori; si è fatto passare un foglietto dalla panchina che diceva “Andrà tutto bene, #restate a casa”. In TV Massimo Galli, del Sacco di Milano, viene intervistato fuori dall’istituto a due metri di distanza dalla conduttrice. Dopo cena prima videochiamata di gruppo su Skype, che funziona bene.»

E così via. Molte di queste cose mi sembravano straordinarie quando le ho riportate e ora, dopo poche settimane, alcune sono già banali. Ci si abitua a tutto. Dopo qualche giorno ho smesso di aggiornare il diario perché non trovavo più nulla di interessante da aggiungere.

Torno però spesso al quadernetto con le citazioni di Borges e c’è un ultimo motivo, forse, per cui oggi ci penso tanto: la prima volta che da ragazzo ho incontrato una sensazione simile all’angoscia di questi giorni è stato durante l’invasione degli Stati Uniti in Iraq, nel 2003, ed erano gli stessi mesi in cui riempivo quel taccuino, un anno e mezzo dopo il crollo delle Torri Gemelle. Senza cercare di forzare i paragoni, all’epoca i miei amici ed io non avremmo mai pensato di trovarci preoccupati e impotenti per una cosa tanto più grande di noi. Ho chiesto ad A. se si ricorda cosa facevamo per provare a stare meglio, al di là di qualche manifestazione in piazza a cui partecipavamo per senso del dovere e per conformismo. Non siamo riusciti a venir fuori con nulla – stavamo insieme e cazzeggiavamo.

Una cosa in più mi è tornata in mente, dopo: in TV passavano spesso il video di «Out of Time» dei Blur, con la voce eternamente malinconica di Damon Albarn e le immagini di una ragazza poco più grande di me che girava per una portaerei americana, una soldatessa o forse un tecnico di volo, probabilmente in missione in Afghanistan o già in Iraq, depressa per colpa della guerra e, si scopriva, per la fine della propria storia d’amore. Mi infastidiva pensare che fosse quello il meglio che erano riusciti tirar fuori per il video di una canzone che voleva essere pacifista, ma capivo che era almeno un tentativo di sovvertire la retorica del testosterone  guerrafondaio shock and awe e del conflitto di civiltà di cui si riempivano i discorsi pubblici in quel periodo (a un certo punto si vedeva anche un ragazzo musulmano che pregava, in uno stanzino della portaerei). In un modo forse un po’ bizzarro e disgraziato, quella canzone mi calmava, invece di intristirmi o impensierirmi troppo.