Ritorno al Pianeta Irritabile
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Nel 1974, nove anni dopo il premio Strega vinto con La macchina mondiale, Paolo Volponi pubblicò Corporale, un anti-romanzo caotico e frammentario che insegue le paranoie del protagonista, Gerolamo Aspri, ex dirigente industriale con l’ossessione della bomba atomica. Come scrive Emanuele Zinato, «in realtà la bomba è simbolo della nuova insopportabile società tecnocratica, a cui il protagonista cerca di sottrarsi». La metafora della catastrofe imminente di Corporale diventa piena apocalisse due anni più tardi, con Il pianeta irritabile, una favola fantascientifica che racconta del viaggio impossibile di una scimmia, un’oca, un elefante e un nano che, nel 2293, si mettono in marcia alla ricerca di un nuovo mondo dopo che un’esplosione atomica ha spazzato il circo dove lavorano e vivono.
Volponi è stato prima un poeta e poi un manager e solo dopo, a quarant’anni, un romanziere (divenne infine anche un politico). Nel 1991 vinse il secondo premio Strega – ed è ancora l’unico a esserci riuscito – con La strada per Roma. Della sua biografia vengono inevitabilmente ricordati – prima ancora dell’amicizia con Pasolini o dalla sua consulenza per la stesura di Petrolio – i venti anni che passò alla Olivetti, quella di Adriano, vale a dire la Olivetti «crogiolo di cultura» e di welfare industriale, dove si sperimentò una visione sociale e solidale di sviluppo partecipato e innovativo. Lì Volponi lavorò come collaboratore, poi come direttore dei servizi sociali, direttore dell’intero settore delle relazioni aziendali e se ne andò, come racconta Massimo Raffaeli in una bella puntata di Wikiradio, solo quando gli venne proposto e poi subito dopo negato il ruolo di amministratore delegato unico. Divenne consulente della Fondazione Agnelli, ma fu costretto a lasciare l’incarico quando, da repubblicano, annunciò la sua adesione al Partito Comunista Italiano.
«Nella fabbrica bisogna starci giorno per giorno, avvelenarsi gradatamente; se uno se ne libera anche per un breve tempo riesce a vederne tutti gli orrori», scrisse in Memoriale. Ma Volponi rimase convinto, anche dopo la fine dell’utopia olivettiana, della necessità di un’industria moderna, aperta alle istanze dei lavoratori. Con gli anni però si disilluse davanti alle nuove esigenze del capitalismo finanziario, quello che porterà anche gli industriali italiani «illuminati» a non pensare più «all’industria alla produzione, al rapporto della fabbrica con il territorio», ma solo a essere «più celeri, più veloci: è più importante vendere che produrre, guadagnare che fabbricare».
I paesaggi scorrono in una carrellata psichedelica: colline di cenere, pianure di polvere rotte da crepacci e da buche, erba alta e selvatica, lacustre, che si slancia in cielo con grandi lame.
Torniamo al Pianeta irritabile. Il cammino dei quattro protagonisti (animali post-umani tutti e quattro, compreso il nano che nei codici della favola è preso come simbolo di uomo a metà, tra natura e cultura, tra viscere e cervello) è un percorso confuso, insicuro, «senza interrogativo e senza una sola speranza sulla durata e sulla meta». I mesi passano veloci, a volte in una sola riga, e il tempo stesso non ha più alcun senso, visto che il nano si ostina a «comporsi un’ora contando sette, otto volte fino a sessanta; e poi ancora di seguito un’altra ora: e via un’altra ancora fino a dodici, e poi altre dodici, uguale a ventiquattro… e ventiquattro misurato nella stanchezza dei passi, e perfino nell’aria oltre che nel brontolio dello stomaco».
I paesaggi scorrono in una carrellata psichedelica: colline di cenere, pianure di polvere rotte da crepacci e da buche, erba alta e selvatica, lacustre, che si slancia in cielo con grandi lame. Poi, senza che il lettore se ne accorga, si passa a un orizzonte montagnoso, in una continua apocalisse post-apocalisse, tra esplosioni, blackout, terremoti. I quattro vedono all’orizzonte «montagne blu di ghiaccio» e attraversano un bagliore di lattice giallastro, tra stelle e lune che nascono e scompaiono. Si ritrovano a viaggiare sopra un nastro trasportatore, su una zattera che attraversa una palude dove affiorano topi annegati, mentre il cielo si fa buio, e poi tra i ghiacci, dove si calano sotto terra e rovistano tra resti di industrie e fabbriche, e cumuli di città storiche, regni in cui il fiato si deposita per terra e dopo poco rifiorisce «come un muschio azzurro», mentre tutt’attorno piove, a intermittenza, fuoco, sabbia rossa, pece, e solo raramente un po’ d’acqua.
L’oca scagazza ovunque, la scimmia è presa da una invincibile smania onanista, il nano è tenuto al guinzaglio dalla ciurma, che «in preda all’alcol, alla nausea, alla diarrea», viene guidata dall’elefante, che sente e cerca la presenza del nemico, perché si scopre alla fine che è quello lo scopo del viaggio, sconfiggere il nemico, un nemico umano, dice l’elefante, perché solo l’elefante può fiutare la sua presenza grazie a «una parte del cervello a scatola, come una radio, la cui potenza è aumentata dal taglio delle zanne».
Le vicende dei quattro sono alternate da ricordi e balzi nel tempo, rimandi a un periodo pre-apocalittico ma comunque catastrofico e senza speranza. Vengono però rievocate con particolare nostalgia le gesta dell’Imitatore del canto di tutti gli uccelli, un’altra delle maestranze del circo, un uomo abile, generoso e dai molti talenti, che all’epoca divenne imitatore di uccelli, appunto, assunto dal circo dopo essere riuscito a trafugare dall’archivio di un «centro elettronico militare» una scatola di metallo nero con su scritto «canto degli uccelli – 1998 -2198», un reperto unico in un’epoca in cui gli uccelli erano già ormai quasi tutti estinti.
Un romanzo straordinario, forse proprio perché alieno, dove è difficile non ritrovare qualcosa delle atmosfere stranianti del post-esotico di Volodine o del weird di VanderMeer.
Come forse si intuisce da questo riassunto, Il pianeta irritabile è una parabola allucinata, un’avventura delirante all’interno di un incubo di piena marcescenza. Ma è anche, nelle intenzioni dell’autore, il racconto allegorico di come la modernità, il capitale assunto a legge di natura e la vita post-industriale non lascino più alcun posto per l’essere umano.
Nell’universo del dopo-bomba, sopravvive infatti questa animalità anarchica, vitale, disgustosa e folle (nei momenti di maggiore felicità, durante il viaggio, il nano, prendendola per il collo, si ficca l’oca giù in gola fino a ferirsi). Ma sopravvive all’apocalisse anche lo spettro del mercato e del denaro, sopravvive il Capitalista Supremo, ultimo capo degli uomini sopravvissuti, personificato nel Generale Moneta: come si scopre solo alla fine, è lui il nemico fiutato dall’elefante, l’obiettivo ultimo di quell’improbabile armata. Un essere umano che si mostra ancora più folle e violento degli animali e del nano.
Oggi Volponi è considerato datato, scaduto, distante, imprigionato in una stagione culturale irrimediabilmente trascorsa. Il pianeta irritabile, in più, è forse il suo libro più indigeribile, di sicuro il meno analizzato, è una strana miscela di fantascienza e simbologia politica, un guazzabuglio di visioni, di quadri, più che di vicende, in cui in effetti a volte è difficile orientarsi. Eppure è un romanzo straordinario, forse proprio perché alieno, dove è difficile non ritrovare qualcosa delle atmosfere stranianti del post-esotico di Volodine o del weird di VanderMeer oggi tanto osannati.
Il gruppo di quattro freak post-umani, unendo le forze, e grazie all’insperato aiuto del redivivo Imitatore del canto di tutti gli uccelli, riesce alla fine a sconfiggere il Generale Moneta in un finale fatto di sbudellamenti, merda e corpi schiacciati. Una conclusione nient’affatto consolatoria, anche se con un po’ di sforzo ci si può leggere «l’enunciazione di una flebile speranza», come ha scritto Matteo Moca sul Tascabile, nel superamento «di una società ciecamente dedita al profitto individuale a discapito dei legami, a favore di una nuova infatuazione per un desiderio collettivo e condiviso».
«Dio è con me. La storia è con me.» dice Moneta al nano, prima dello scontro finale. «Vuoi forse la fine della civiltà?».
«Tu non sei un uomo, né vero né finto; sei solo l’uomo alla fine dell’uomo», risponde il nano a Moneta. «L’uomo che ha snaturato e lasciato l’uomo, sei tu. Quindi sei uno stronzo, solo uno stronzo. Lo stronzo più stupido e scemo cagato da sgherri e gendarmi: cagato in fretta in fondo al corridoio di una caserma coloniale».