Non c’è donna che si senta più donna di una ragazza trans
traduzione di Clara Ciccioni
Quando ero al liceo, per un intero semestre mi fecero uscire prima della fine delle lezioni una volta a settimana per salire sul pullman della squadra di pallavolo insieme a quindici ragazze in canotta acetata e pantaloncini cortissimi. Io ero l’unico ragazzo.
A volte capitava che qualche ragazza dovesse ancora cambiarsi, e allora si riparava dietro una fila di sedili per togliersi l’uniforme della scuola e indossare il completo blu scuro della squadra. Quando si trattava soltanto di piccoli aggiustamenti al vestiario, mi chiedevano semplicemente di chiudere gli occhi. In teoria gli occhi erano tutti puntati sulla partita che ci aspettava, durante la quale io – in veste di segnapunti ufficiale – avrei inserito dei numeri in una complicata tabella, mentre le ragazze si lanciavano in salti, tuffi e affondi con la forza bruta dell’adolescenza. Ma tutto il senso di disciplina che pervadeva la squadra prima di una partita si sarebbe dissolto subito dopo, spesso in seguito a un pit stop per mangiare cibo unto all’uscita dell’autostrada, mentre le ragazze si rilassavano in un innocente déshabillé: maglie fuori dai pantaloncini, canottiere attillate, la tracolla di un reggiseno sportivo. Con il candore della stanchezza post-partita, parlavano di ragazzi, sesso e altri vizi; di buon gusto e cattivo sangue, e di piccoli, intensi desideri. Io stavo seduto, le ascoltavo e aspettavo pazientemente quella scossa di ribellione che passa improvvisamente da un braccio nudo a un altro in un martedì sera altrimenti ordinario, mentre il pullman ci riportava a casa superando il confine tra uno Stato conservatore e l’altro.
La verità è che non sono mai stata in grado di distinguere l’attrazione per le donne dal voler essere come loro. Per anni il primo desiderio ha tenuto in bocca il secondo come una pillola troppo pericolosa da ingoiare. Quando scandaglio i fondali della mia infanzia cercando qualche segnale sommerso di ciò che sarebbe successo dopo, quei viaggi in pullman sono forse la cosa più gay che riesco a trovare. Forse non erano neanche così gay, in fondo. Del resto succede spesso che chi fa sport al liceo cerchi di schiacciare l’omoerotismo insito nello sport di squadra sotto il pesante rampone della negazione. Ma ho un disperato bisogno di recuperare almeno un autentico ricordo lesbico dal relitto di quel ragazzino etero così spaventato dalle aspettative sociali da fare di tutto per non deluderle, e di cui non potrò mai permettermi il lusso di non aver vissuto la vita. L’unico altro evento che può aspirare al titolo di ricordo lesbico è la mia infatuazione giovanile per la mia migliore amica, una ragazza lunatica con la voce profonda che faceva shopping da Hot Topic e – come mi resi conto solo molti anni dopo – cercava di impersonare al meglio Shane di The L World. Un giorno mi disse che dopo la scuola mi avrebbe confessato un segreto; passai tutta la giornata con la nausea, sperando che mi avrebbe dichiarato i suoi sentimenti. Più tardi, al telefono, dopo una pausa così lunga da affogarci dentro, mi disse che era omosessuale. «Immaginavo che fosse questo», risposi piangendo dentro. Una decina d’anni dopo, quando ormai non ci sentivamo più da tempo, le mandai un SMS. «Una settimana fa ho capito di essere trans», le scrissi. «Tanti anni fa tu facesti coming out con me. Volevo restituirti il favore.»
Questo successe mesi prima che cominciassi a tenere il mio primo seminario all’università, quando lessi il Manifesto SCUM di Valerie Solanas per la seconda volta nella mia vita – ma per la prima volta come donna. Il Manifesto SCUM è un sermone femminista squisitamente feroce, un appello al rovesciamento rivoluzionario di tutti gli uomini; Solanas lo autopubblicò nel 1967, un anno prima di sparare a Andy Warhol al sesto piano del Decker Building a New York. Mi chiesi quali sentimenti avrebbe suscitato in classe. Un giorno, prima della lezione, mentre mi sistemavo il rossetto e i capelli nei bagni, mi si avvicinò una ragazza seria e gentile che in classe si sedeva sempre alla mia destra. «La lettura di Solanas mi è piaciuta molto», mi disse tutto d’un fiato. «Non sapevo che si potesse studiare.» Alzai la testa, confusa. «Cosa non credevi che si potesse studiare?». «Il femminismo!», disse con un sorriso radioso. Durante la lezione lanciai una rapida occhiata ai suoi appunti, solo per scoprire che aveva riempito la pagina con la parola SCUM, scritta infinite volte con quella tenerezza barocca che in genere si riserva al nome della persona per cui ci si è presi una cotta.
Anch’io al college mi ero preso una cotta per il femminismo. Anch’io avevo sentito il brivido di quella scoperta clandestina. Lo avevo intravisto nella penombra di un’affollata stanza di dormitorio che vibrava di musica elettronica e intenzioni poco chiare: una ragazza discreta e sicura di sé, leggermente distaccata, con una forza di gravità a cui tutti i corpi circostanti obbedivano. Il femminismo era troppo cool, troppo disinvoltamente trendy per interessarsi a una persona come me, a cui l’ansia sociale aveva impedito di parlare al telefono con chiunque per gran parte delle scuole superiori. Inoltre avevo sentito dire che frequentava solo le donne. Di conseguenza mi limitavo a gesti di ammirazione a distanza. Lasciavo dei commenti critici sull’ultimo articolo di denuncia di qualche festa delle confraternite pubblicato sul giornale studentesco. Frequentavo un corso di Women’s Studies dove c’era solo un altro uomo. Leggevo come un disperato, da Shulamith Firestone a Jezebel, e scrivevo: commedie bizzarre e oscene sulla cultura dello stupro, tra cui una in cui l’arcangelo Gabriele teneva un monologo tanto indecente da far impallidire David Mamet; e strane, brutte poesie in cui figurava quello che chiamavo il Bellissimo Proletariato Ermafrodita. Il femminismo era l’unica cosa a cui volevo pensare e di cui volevo parlare. Quando andai a trovare i miei, mia madre e mia sorella, palesemente irritate, mi informarono del fatto che non potevo sapere cosa significasse essere una donna. Ma una cotta era una cotta, sebbene nutrita dalla convinzione che il femminismo – come ogni ragazza che mi fosse mai piaciuta – fosse troppo bello per me.
Ho letto per la prima volta il Manifesto SCUM durante il primo anno di college, attraversando l’East River su un solitario vagone della metro. Mi esaltò: per la megalomania, la polemica brutale, lo stile grezzo e succulento di tutta l’operazione. Valerie Solanas era fichissima. Rileggendo SCUM, mi sono resa conto che non era un caso. Il manifesto comincia così:
«Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile.»
La cosa che colpisce qui non è l’estremismo rivoluzionario di Solanas di per sé, ma la disinvoltura con cui lo giustifica. La vita sotto il predominio maschile non è opprimente, ingiusta o abusiva: è semplicemente di una noia mortale. Per Solanas, aspirante drammaturga, la politica comincia con un giudizio estetico. Perché per lei maschio e femmina sono essenzialmente degli stili, delle scuole estetiche rivali che si distinguono in base alle rispettive gamme aggettivali. Gli uomini sono timidi, inclini al senso di colpa, dipendenti, stupidi, passivi, brutali, insicuri, vigliacchi, invidiosi, vanesi, frivoli e deboli. Le donne sono forti, dinamiche, risolute, assertive, cerebrali, indipendenti, sicure di sé, antipatiche, violente, egoiste, libere, amanti del brivido e arroganti. Soprattutto, le donne sono cool e alla moda.
Eppure quando rilessi il Manifesto per preparare la lezione, mi ricordai con stupore che, per quanto il suo odio per gli uomini avesse raggiunto proporzioni epiche, Solanas è sorprendentemente accomodante nel perseguire l’estinzione del maschio. Per cominciare, le femmine libere e groovy del suo esercito rivoluzionario SCUM (che da un certo punto in poi sarebbe stato l’acronimo di «Society for Cutting Up Men» – Società per l’eliminazione degli uomini –, sebbene questa frase non compaia mai nel manifesto) risparmieranno ogni uomo che scelga di unirsi alla sua Ausiliaria Maschile, dichiarandosi «una merda». Inoltre, dopo la rivoluzione ai pochi uomini superstiti sarà generosamente concesso di consumarsi con le droghe oppure fare le drag queen, procreare con le donne-zerbino nei pascoli per le mucche o sintonizzarsi a dispositivi attivi ventiquattr’ore su ventiquattro per vivere per procura le eccitantissime vite delle femmine in azione. E poi c’è questo:
«Se gli uomini fossero saggi si sforzerebbero di diventare femmine autentiche, si applicherebbero in una ricerca biologica intensiva che, attraverso operazioni al cervello e al sistema nervoso, li metterebbe nelle condizioni di trasformarsi in donne, nella psiche così come nel corpo.»
Questo passaggio mi ha lasciato senza fiato. Era una visione della transessualità come separatismo, un’immagine di come la transizione di genere da maschio a femmina potesse esprimere non solo il fatto di non identificarsi con la maschilità, ma la anche la dissociazione dagli uomini. Come fa con la rivoluzione, qui Solanas rielabora la transizione in termini estetici, come se le donne transessuali decidessero di intraprendere la transizione non per «confermare» una sorta di identità di genere innata, ma perché essere un uomo è stupido e noioso.
Forse ho sovrainterpretato. Nel 2013 a San Francisco, un evento concepito come tributo a Valerie Solanas in occasione del venticinquesimo anniversario della sua morte fu cancellato dopo l’esplosione su Facebook di un aspro conflitto su quella che alcune considerano la transfobia di Solanas. Una donna trans disse di essere stata molestata all’interno di spazi queer da femministe radicali che facevano riferimento tanto a Valerie Solanas quanto a Janice Raymond, autrice del classico del femminismo trans The Transsexual Empire: The Making of the She-Male, pubblicato nel 1979. Altre passarono all’offensiva. Mira Bellwether, creatrice di Fucking Trans Women, la fanzine punk rock che insegnò al mondo la pratica del muffing (ovvero a masturbare i canali inguinali ai lati del pene, N.d.T.), scrisse un lungo post sul suo blog esprimendo le sue riserve sull’evento, e caratterizzando il Manifesto SCUM come «potenzialmente il peggiore e più velenoso esempio di incitamento all’odio lesbico-femminista» della storia. Bellwether prosegue accusando Solanas di essenzialismo biologico di primo grado, citando il suo esplicito richiamo alla genetica: «Il maschio è un incidente biologico: poiché il gene Y (maschile) è un gene X (femminile) incompleto, ha una serie incompleta di cromosomi. In altre parole, il maschio è una femmina incompleta, un aborto ambulante, abortito a livello genetico». Per Bellwether questa è una prova inequivocabile del fatto che tutto ciò che afferma il Manifesto SCUM sugli uomini vale anche per le donne trans.
Sono accuse quantomeno singolari. Chiamare Solanas una «femminista lesbica» significa implicare, erroneamente, che avesse rapporti con gruppi lesbici come il Lavender Menace di New York, protagonista di una breve irruzione al Second Congress to Unite Women nel 1970 per protestare contro l’omofobia all’interno del movimento delle donne e distribuire il suo classico pamphlet The Woman-Identified Woman («la donna che si identifica come donna»). Ma Solanas non era né una lesbica politica né una politicante lesbica. A detta di tutti, era una persona solitaria e disadattata, una scrittrice e lavoratrice sessuale in difficoltà economiche che a volte si identificava come omosessuale ma che pensava sempre a proteggere se stessa. La dedica che apre la sua esilarante commedia Up Your Ass (In culo a te, nell’edizione italiana) recita: «Dedico questo atto unico a ME STESSA, fonte inesauribile di sostegno e consiglio, senza la cui incrollabile lealtà, fede e devozione quest’opera non avrebbe mai visto la luce». (Era questa la commedia – il cui titolo esteso è Up Your Ass, or From the Cradle to the Boat, or The Big Suck, or Up from the Slime, «In culo a te, ovvero Dalla culla alla barca, ovvero Il grande risucchio, ovvero Venuti dalla melma» – che Solanas aveva dato a Andy Warhol cercando di convincerlo a produrla, prima con gentilezza poi con le minacce.)
Quanto alla questione genetica, suppongo che dovrei offendermi perché Valerie aveva infangato il buon nome dei miei cromosomi Y. Francamente, però, ho difficoltà a scaldarmi per una cosa a cui do lo stesso valore di una tessera omaggio di Blockbuster da 15 dollari. La verità è che se leggendola oggi si fatica a distinguere fra uomini e donne trans nella sua analisi, non è perché secondo Solanas tutte le donne trans sono uomini; casomai è perché secondo lei tutti gli uomini sono donne trans non dichiarate. Quando Solanas scrive che la maschilità è «una tara», penso a quelle donne trans che si autodiagnosticano – scherzando ma non del tutto – un’intossicazione da testosterone. Quando ringhia che gli uomini sono «incidenti biologici», non posso che intendere l’affermazione assolutamente sensata che ogni uomo è letteralmente una donna intrappolata nel corpo sbagliato. Parlo di quella che il Manifesto SCUM chiama invidia della fica, di cui soffrono tutti gli uomini, sebbene pochi osino ammetterlo, a parte i «froci» e le «drag queen», che Solanas annovera tra i meno miserabili. Da qui l’opinione che Solanas esprime attraverso Miss Collins, una delle due sagaci drag queen che onorano con la propria presenza le sconce pagine di Up Your Ass:
«MISS COLLINS: Ti confesso un segreto. Io detesto gli uomini, tout court. Perché, perché mi è toccato essere uno di loro?! Sai cosa vorrei essere più di ogni altra cosa al mondo? Una lesbica. Così prenderei due piccioni con una fava.»
Bellwether potrebbe obiettare che ancora una volta sono troppo generosa. Ma un testo così bollente al tatto come il Manifesto SCUM si può leggere solo con animo generoso. Dopo tutto si tratta di un pamphlet che promuove l’omicidio di massa e, cosa ancor peggiore, il danneggiamento della proprietà. Non è che le persone deluse per la cancellazione del tributo a Solanas approvassero nel complesso i suoi piani a lungo termine per l’estinzione dell’umanità intera (donne comprese) o il suo tentato omicidio di un uomo che dipingeva lattine di zuppa. Come racconta Breanne Fahs nella sua recente biografia di Solanas, l’attentato fu la goccia che fece traboccare quel vaso noto come National Organization for Women (NOW), che nonostante la sua tenera età – era stata fondata solo due anni prima, nel 1966 – aveva già subito delle scissioni sull’aborto e sul lesbismo. Quando le femministe radicali Ti-Grace Atkinson e Florynce Kennedy andarono a far visita a Solanas in carcere, e Florynce Kennedy le offrì assistenza legale gratuita, la presidentessa di NOW Betty Friedan si affrettò a prendere le distanze da quello che vedeva come un problema con un nome e un cognome, esigendo in un telegramma che Kennedy «CESSASSE IMMEDIATAMENTE DI STABILIRE QUALUNQUE COLLEGAMENTO TRA NOW E VALERIE SOLANAS». Sia Kennedy che Atkinson lasciarono l’organizzazione prima della fine di quell’anno, e ognuna si impegnò a formare il proprio gruppo: Kennedy fondò il Partito Femminista e Atkinson il Movimento 17 Ottobre, due organizzazioni decisamente più radicali di NOW. Allo stesso modo, dopo la cancellazione del tributo a Solanas nel 2013, alcune persone che speravano di chiarire di persona le discussioni emerse su Facebook organizzarono un evento off chiamato «We Who Have Complicated Feelings About Valerie Solanas» («Noi che abbiamo sentimenti contrastanti su Valerie Solanas»).
Questo semplicemente per sottolineare che le divergenze sul lascito di Solanas sono un vecchio standard del femminismo, il prodotto di un costume intellettuale diffuso su cui si basano le critiche come quelle di Bellwether, ovvero la cosiddetta storiografia femminista, con le sue ondate, i suoi gruppi e le sue conferenze leggendarie. Ogni brava femminista porta cucita su quel reggiseno ardente che chiama cuore la tappezzeria di aggettivi qualificativi che usiamo per raccontarci storie a vicenda su noi stesse e la nostra storia: radicale, liberale, neoliberista, socialista, marxista, separatista, culturale, aziendale, lesbico, queer, trans, eco, intersezionale, anti-porno, anti-lavoro, pro-sesso, prima-, seconda-, terza-, talvolta quarta ondata. Queste storie hanno probabilmente poco a che vedere con quello-che-è-successo-veramente e riguardano più quella che una volta Fredric Jameson ha chiamato «l’emozione della grande forma storiografica» – cioè la soddisfazione che si prova nel sintetizzare i confusi dati empirici del passato in un elegante arco storico nel quale ogni cosa accaduta non poteva essere andata altrimenti.
Per bene che ci vada, la vita in questa società è una noia sconfinata. E poiché non esiste aspetto di questa società che abbia la minima rilevanza per le donne, alle femmine dotate di spirito civico, responsabili e avventurose non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione completa e distruggere il sesso maschile.
Dire, allora, che queste storie sono raramente (per non dire: mai) «vere» non significa soltanto ripetere l’assioma che quando si tratta di cultura la tassonomia è tassidermia – sebbene non si possa negare che gli oggetti di indagine intellettuale sono sempre in fuga, come zombie in un B-movie, dalle tombe in cui sono seppelliti. Significa anche dire che tutti gli oggetti culturali, compreso il Manifesto SCUM, sono segreterie telefoniche che raramente rispondono ai messaggi lasciati dalla storia, o al massimo lo fanno solo indirettamente. Piuttosto, sono innanzitutto e soprattutto occasioni per sentire qualcosa: aggiustare il tono di un desiderio o aumentare gli intrecci di una fantasia per aprirsi a un sentimento nuovo o rinnovare la propria fedeltà a un sentimento vecchio. Dalla storia politica alla cultura pop, noi leggiamo cose, guardiamo cose – come femministe e come persone – perché vogliamo appartenere a una comunità o a un pubblico, o perché siamo stressate dal lavoro, o perché stiamo cercando un’amicizia o un amore, o forse perché stiamo lottando per capire come sentirci politicamente coinvolte in un’epoca e in una cultura definite dal generale naufragio dei bellissimi vecchi racconti della Storia.
Perciò quando Bellwether condanna il Manifesto SCUM come «l’apice dell’irragionevolezza e dell’odio espressi dal femminismo della seconda ondata e dal femminismo lesbico», la sua condanna è veicolo di quel genere di delusione politica nei confronti delle generazioni precedenti che le femministe amano coltivare. In questa versione del racconto, il femminismo ha escluso le donne trans in passato, sta imparando a includere le donne trans nel presente, e collocherà le donne trans in una posizione centrale nel futuro. La plausibilità di questa narrazione è senza dubbio dovuta a un rischioso pizzico di revisionismo insito nell’appellativo trans-exclusionary radical feminist («femminista radicale trans-escludente»), spesso abbreviato in TERF. Come quasi tutti i tipi di femministe, le TERF non sono un partito o un fronte unificato. Le loro convinzioni, sebbene diversificate, si sono ridotte perlopiù a un rifiuto dell’idea che le donne transgender siano di fatto donne. Non amano molto neanche il termine TERF, che considerano un insulto – una rimostranza che sarebbe oltremodo vergognosa se non fosse anche vera, nel senso che tutti i sinonimi della parola bigotta sono intesi come diffamatori. Il vero problema con un epiteto come TERF è il suo stratagemma storiografico: ovvero l’implicazione errata che tutte le TERF sono delle reazionarie che si sono perse la terza ondata, femministe radicali vecchio stampo che non si sono mai evolute. Questo permette di interpretarle come una specie di anacronismo vivente attraverso il quale discernere il passato, un po’ come quando l’antropologia europea immaginava che le cosiddette «società primitive» si trovassero a uno stadio meno avanzato dello sviluppo della civiltà poiché intrappolate nel passato.
In realtà faremmo meglio a parlare delle TERF nel contesto di internet, dove un’alleanza ribelle di blogger come Megan Murphy di Feminist Current e Linda Shanko di GenderTrender trascorre le giornate a lanciare minuscole esche acchiappa-click nei canali di scarico della Morte Nera dell’impero transessuale. Le vere battaglie imperversano su Tumblr, in forma di commenti, meme e doxing; per esempio, esistono dei Tumblr interamente dedicati alla catalogazione di altre utenti di Tumblr che amano definirsi «gender critical feminists» («femministe critiche sul genere»). Ma questo conflitto ha tanto a che fare con la complessa e peculiare realtà dei social media – specialmente Tumblr, Twitter e Reddit – quanto con qualunque grande conflitto ideologico. Quando una sottocultura sposa delle politiche estremiste, specialmente in rete, è allettante ma spesso scorretto scambiare quelle politiche come il cuore pulsante di quella sottocultura. Vale la pena invece chiedersi invece se le TERF, come certi esemplari dell’alt-right, possano essere meno definite dalla loro ideologia politica (comunque nociva) e più da un complesso (e francamente affascinante) rapporto con il trolling che starà ai futuri antropologi – una volta che avranno risolto il problema dell’etnografia digitale – elaborare.
Naturalmente la transfobia femminista, come il nazionalismo bianco, non è un fenomeno esclusivamente digitale. Certe femministe della seconda ondata odiavano e temevano sinceramente le donne trans. Alcune di loro sono perfino famose, come la femminista australiana Germaine Greer, autrice del best seller del 1974 L’eunuco femmina. Poche TERF storcono le labbra di fronte allo stile ricercato di Greer. Ecco come descrive l’incontro con una fan nella rivista Independent nel 1989:
«Il giorno in cui uscì L’eunuco femmina in America, una persona vestita di drappi svolazzanti si precipitò da me e mi prese la mano. “Grazie”, sussurrò con voce roca. “Grazie davvero per tutto quello che hai fatto per noi ragazze!”. Io ostentai un sorriso, annuii e mi ritrassi, cercando di liberare la mano dalla gigantesca zampa pelosa e inanellatissima che la teneva stretta. I suoi occhi mi fissavano ricoperti da uno spesso strato di trucco color pancake, attraverso il quale si vedeva già crescere la barba, in vana competizione con una parrucca di Dynel smisuratamente folta e due paia di ciglia finte. Sulle spesse costole, che si potevano contare attraverso il leggerissimo pareo, pendeva un simbolo di liberazione della donna in acciaio lucido. Avrei dovuto dirgli: “Sei un uomo. L’eunuco femmina non ti è servito proprio a niente. Vattene a fanculo”.»
Non serve un’analisi approfondita per dimostrare che un disgusto come quello espresso da Greer appartiene allo stesso odio per le donne che lei e le sue amiche TERF dicono di disdegnare. Fermiamoci invece un momento ad apprezzare quelle rare occasioni in cui la transmisoginia, il cui mezzo preferito è la bava alla bocca di sconosciuti, gode dei comodi privilegi stilistici della forma letteraria dell’individuo medio. È come guardare Julia Child cucinare un neonato.
Del resto Greer si è a lungo immaginata come l’Es del femminismo, emergendo di tanto in tanto dalla terra per sfregarsi le ali e fare la muta in televisione. Nel 2015 fece clamore quando criticò come «misogina» la decisione della rivista Glamour di premiare come Donna dell’Anno Caitlyn Jenner, allora fresca del suo servizio fotografico su Vanity Fair. In risposta alla reazione violenta suscitata dalla sua critica, Greer rilasciò questa perla di dichiarazione: «Non è che basta tagliarsi il cazzo e mettersi un vestito per essere una donna. Ho chiesto al mio medico di allungarmi le orecchie e farmi venire le lentiggini, e indosserò una pelliccia marrone, ma questo non mi trasformerà certo in un cazzo di cocker spaniel!». Ancora più sorprendente è stato sentire un’icona della seconda ondata come Atkinson – che in passato aveva difeso Solanas – sfoderare i classici argomenti delle TERF a una conferenza alla Boston University nel 2014: «C’è un conflitto attorno al genere. In altre parole, le femministe stanno cercando di sbarazzarsi del genere. E le persone transgenderizzate [sic] invece lo rafforzano». Il fatto che le osservazioni di Atkinson siano state fatte a una conferenza il cui tema era «La liberazione delle donne tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta» non può che incoraggiare le posizioni di rifiuto totale della seconda ondata in quanto Medio Evo della storia femminista.
Ma prendiamo la famigerata West Coast Lesbian Conference del 1973. La prima sera, l’esibizione della cantante folk transessuale Beth Elliot fu interrotta da alcune manifestanti che tentarono di cacciarla fuori dal palco. Il giorno dopo, la femminista radicale Robin Morgan, editor dell’influente antologia degli anni Settanta Sisterhood is Powerful, tenne un discorso modificato all’ultimo momento in cui sparava a zero su Elliott, chiamandola «un opportunista, un infiltrato e un distruttore… con la mentalità di uno stupratore». Due mesi dopo i commenti di Morgan furono pubblicati dal periodico underground Lesbian Tide, raggiungendo un pubblico più ampio:
«Non chiamerò un maschio “lei”; mi sono guadagnata il titolo di “donna” sopravvivendo a trentadue anni di sofferenza in questa società androcentrica. Questi travestiti che si vedono per la strada… qualcuno li infastidisce per cinque minuti (cosa che potrebbero anche apprezzare) e quelli osano, osano pensare di poter capire la nostra sofferenza? No, nel nome delle nostre madri e nel nostro nome, non dobbiamo chiamarli sorelle. Sappiamo cosa succede quando i bianchi si dipingono la faccia per sembrare neri; la stessa cosa vale per gli uomini che si vestono da drag.»
In genere i resoconti della conferenza si fermano qui, spesso con una sorta di studiata moderatezza su quanto quello fosse un Brutto Periodo. Eppure, come afferma lo storico Finn Enke in un eccellente articolo pubblicato su Transgender Studies Quarterly, molti resoconti tralasciano il fatto che la sezione di San Francisco dell’organizzazione lesbica nazionale Daughters of Bilitis aveva accolto una diciannovenne Beth Elliot nel 1971 dopo che i suoi genitori l’avevano rifiutata, che Elliot era stata eletta vicepresidente della sezione quell’anno, che era stata accolta dall’Orange County Dyke Patrol alla Gay Women’s Conference a Los Angeles e che aveva fatto parte del comitato organizzativo della stessa conferenza durante la quale un’infervorata minoranza di partecipanti aveva contestato la sua presenza. Quanto all’invettiva di Morgan, Enke suggerisce che il suo attacco a Elliott fosse frutto della sua insicurezza per essere stata invitata a parlare a un convegno per lesbiche malgrado fosse andata a convivere con un uomo, del quale aveva spesso cercato inutilmente di sfruttare l’effeminatezza come fondamento delle sue credenziali di femminista radicale.
Questo ci dice due cose. Primo, il femminismo radicale degli anni Sessanta e Settanta era una miscela di elementi diversi, come ogni movimento politico, da Occupy ai sostenitori di Bernie Sanders. Secondo, la transfobia femminista, almeno in questo caso, non era tanto un’espressione di un’ostilità anti-trans quanto una conseguenza indiretta, se non completamente esterna, di una crisi più generale nel movimento di liberazione delle donne che investiva la questione del politico. Estendendo la portata della critica femminista alla sfera della vita quotidiana – una mossa che produsse una branca teorica particolarmente vigorosa in grado di competere con le note sul capitalismo di qualunque marxista –, la seconda ondata si era inavvertitamente infilata in un vicolo cieco. Se, come affermavano le teorie del femminismo radicale, il patriarcato aveva infestato non solo la sfera legale, culturale ed economica, ma anche la psiche delle donne stesse, allora la rivoluzione femminista si sarebbe potuta ottenere soltanto setacciando costantemente i neurofilamenti della propria coscienza per scovare ogni possibile residuo di supremazia maschile – un po’ come cercare il pelo nell’uovo, per come stavano le cose. E non c’era altro luogo in cui ciò fosse più urgente, o più difficile, della camera da letto. Dopo anni di instancabile lotta per affermare l’idea che il sesso dovesse essere oggetto di critica politica, le femministe radicali si trovavano ora di fronte alla possibilità di passare dalle parole ai fatti. Di qui il famoso slogan di Hence Atkinson: «Il femminismo è la teoria, il lesbismo è la pratica». Questo era il clima politico in cui sia Elliott che Morgan, rispettivamente una donna transessuale e una donna sospettata di essere eterosessuale, vedevano il loro status di soggetti legittimi di politica femminista minacciati dalla nascente consacrazione, da parte di alcune femministe radicali, di quella cosa chiamata «lesbismo» come forma estetica preferita per mediare tra i soggetti individuali e la storia che si presumeva stessero facendo… chiamatelo il personale e il politico.
Quindi, mentre il femminismo radicale nel suo insieme conteneva un buon numero di lesbiche che amavano le trans e altrettante eterosessuali che le odiavano, c’è una linea di demarcazione storica tra il lesbismo politico come tendenza specifica ma tutt’altro che dominante all’interno del femminismo radicale e il fenomeno contemporaneo che chiamiamo femminismo radicale trans-escludente. Prendiamo Sheila Jeffreys, una femminista lesbica inglese e docente all’Università di Melbourne in Australia da poco in pensione. Quand’era giovane e inesperta, Jeffreys faceva parte del Leeds Revolutionary Feminist Group, ricordato per il suo feroce testo «Political Lesbianism: The Case Against Heterosexuality», pubblicato nel 1979. Il testo definiva una lesbica politica come una «donna che si identifica come donna e non si scopa gli uomini», ma si fermava a un passo dal proclamare l’obbligo al sesso omosessuale. Condivideva anche la serissima ironia del Manifesto SCUM: «Essere una femminista eterosessuale è come far parte della resistenza nell’Europa occupata dai nazisti, quando di giorno si facevano saltare i ponti e la sera si correva a ripararli». Oggi Jeffreys ha trasformato il disprezzo delle donne trans in un business, diventando la superstar del circuito TERF. Come molte TERF, anche lei crede che le scadenti imitazioni di femminilità delle donne trans (per come le immaginano le TERF) riproducano gli stessi dannosi stereotipi che causano la sottomissione delle donne. «Il transgenderismo degli uomini», scrive nel suo libro del 2014 Gender Hurts, «può essere visto come una spietata appropriazione dell’esperienza e dell’esistenza delle donne». Jeffreys ha anche una passione per le citazioni di quella letteratura sessuologica che classifica il transgendersimo come una parafilia. Alle TERF come Jeffreys piace molto ripetere che le donne transgender sono degli intrusi che allungano le mani, voyeur malati che cospirano per infiltrarsi negli spazi riservati alle donne per commettere la più grande rapina di mutandine della storia militare.
Acconsento serenamente a questa descrizione. Se fossi stata così fortunata da partecipare al Michigan Womyn’s Music Festival – noto per incoraggiare il nudismo, pur tollerando i vestiti – prima che cessasse nel 2015 grazie alle proteste delle attiviste trans, potete scommettere le vostre Birkenstock che non sarebbe stato per la musica. Il femminismo radicale trans-escludente, infatti, almeno in ambito lesbico, può essere meglio inteso come panico omosessuale in versione femminile. Il punto qui non è che tutte le TERF sono segretamente attratte dalle donne trans – sebbene questo squisito paradosso si verifichi indubbiamente più spesso di quanto tutte ammetterebbero – ma piuttosto che il femminismo trans-escludente ha ereditato dal lesbismo politico il terrore dell’ingovernabilità del desiderio. Il soggetto del panico omosessuale, che sia un senatore degli Stati Uniti o solo un membro della Camera dei Comuni, è tradizionalmente un soggetto minacciato dai suoi stessi desideri politicamente compromettenti: per preservare se stesso, proietta quei desideri su un’altra persona, per poi poter legiferare su di lei o bullizzarla fino alla morte. Anche la lesbica politica è un soggetto incastrato tra l’incudine della politica e il martello del desiderio. Come ha affermato Jeffreys rivolgendosi al Lesbian History Group a Londra nel 2015, il lesbismo politico voleva essere una soluzione alla fin troppo reale dissonanza cognitiva prodotta dal femminismo eterosessuale: «Perché andare a tutti questi meeting a elaborare teorie e politiche meravigliose, per poi tornare a casa da Dave (nel mio caso) e ritrovarti seduta davanti alla TV a pensare: “è strano. Che strana sensazione”». Ma il vero separatismo non si limita al fatto di lasciare il proprio marito, ma procede con paranoico rigore a purificare ogni stanza della mente da qualunque cosa sia lontanamente collegata al patriarcato. Il desiderio non fa eccezione. Il lesbismo politico si fonda sulla convinzione che perfino il desiderio a temperature abbastanza alte diventa malleabile. Per Jeffreys e le sue compagne il lesbismo non era un’identità innata, ma un atto di volontà politica. In quel mondo la biologia non era un destino, essere lesbica riguardava ciò per cui ti svegliavi al mattino, non cosa ti eccitava e cosa no.
Solo che l’eterosessualità forse non faceva neanche al caso di Dave. A quanto pare non è mai venuto in mente a Jeffreys che alcune persone tra noi «transgender» – come ama chiamarci – scelgono la transizione precisamente allo scopo di sfuggire a quella prigione con cui identificano l’eterosessualità. Il più grande paradosso della storia femminista è che non c’è donna che si senta più donna di una ragazza trans omosessuale come me, e che le vere lesbiche politiche erano Beth Elliott e le sue sorelle: donne che erano scappate sia dagli uomini nelle loro vite sia dagli uomini di cui stavano vivendo la vita. Siamo separatiste dai nostri stessi corpi. Siamo militanti di un calibro così pregiato che adottiamo regolarmente delle misure per avvelenare l’offerta mondiale di biologia maschile. Alle TERF come Jeffreys diciamo semplicemente che l’imitazione è la forma più alta di adulazione. Ma manteniamo le cose in prospettiva. Grazie a Jeffreys qualche donna negli anni Settanta si tagliava i capelli. Grazie a noi ci sono letteralmente meno uomini sul pianeta. Valerie, quantomeno, ne andrebbe fiera. La Society for Cutting Up Men è un nome davvero splendido per un circolo di lettura transessuale.
Ma ora sto sovrainterpretando sicuramente. L’idea che dovremmo mettere le lesbiche trans su un piedistallo come una sorta di avanguardia femminista è tanto indifendibile quanto attraente. Difendendola trascurerei quella che per me è la vera lezione del fallimento del lesbismo politico: quando si costringe il desiderio a conformarsi al principio politico non se ne ottiene niente di buono. Si fa prima a fare il bagno a un gatto. Ciò non significa che la politica non giochi nessun ruolo nel desiderio. La solidarietà, per esempio, può essere tremendamente eccitante – e questa era senza dubbio una delle cose più belle dei gruppi di aumento della consapevolezza degli anni Settanta. Ma non ci si può eccitare come gesto di solidarietà allo stesso modo in cui si infilano fogli nelle buste o si marcia sulle strade con le proprie sorelle-in-armi. Il desiderio è per natura infantile e diffidente da ogni forma di governo. Se cominciassimo a qualificarlo in base alla giustezza del suo contenuto politico, cominceremmo a ordinare di avere certi desideri e a proibire di averne altri. E così ci resterebbe soltanto il moralismo. Provate a immaginare la vostra vita come un’anemone di mare femminista, con i tentacoli del desiderio che si ritraggono all’istante a ogni tocco del patriarcato. Non avremmo nulla da guardare in TV.
Il più grande paradosso della storia femminista è che non c’è donna che si senta più donna di una ragazza trans omosessuale
Va sottolineato quanto sia impopolare oggi negli ambienti di sinistra tollerare l’idea che la transizione non esprima la verità di un’identità ma la potenza di un desiderio. Per accettare questa idea bisognerebbe interpretare la condizione di trans non come una questione di chi una persona è, ma di cosa una persona vuole. La funzione principale dell’identità di genere come concetto politico – e, sempre di più, giuridico – è mettere tra parentesi, se non negare del tutto, il ruolo del desiderio in quella cosa che chiamiamo «genere». Storicamente questo è l’effetto del bisogno diffuso tra i sostenitori della transizione di genere di mitigare la paura che le persone trans, e in particolare le donne trans, intraprendano la transizione allo scopo di ottenere cose: soldi, sesso, privilegi giuridici, ragazzine nei bagni pubblici. Come osserva il teorico politico Paisley Currah nel suo libro di prossima pubblicazione, lo Stato ha mostrato molta più disponibilità a riconoscere la riclassificazione sessuale quando gli individui riclassificati non ci guadagnavano niente. Nel 2002 la Corte Suprema del Kansas annullò il matrimonio tra una donna transessuale e il suo ormai defunto marito cisgender – dal quale avrebbe ereditato un patrimonio immobiliare da due milioni e mezzo di dollari – sulla base del fatto che la loro unione non era valida in Kansas a causa del divieto di matrimoni tra persone dello stesso sesso vigente in quello Stato. Il sesso sul certificato di nascita (emesso in Wisconsin), che anni prima la donna era riuscita a far modificare da maschio a femmina, quando si trattava di incassare non aveva alcun valore.
Non sto dicendo che secondo me questa donna ha intrapreso la transizione per arricchirsi più velocemente. Sto dicendo: E anche se fosse? Dubito che ci siano donne trans che cominciano la transizione semplicemente perché vogliono «essere» donne, in senso astratto o teorico. Io no di certo. Io ho deciso di cominciare la transizione per i pettegolezzi e i complimenti, per il rossetto e il mascara, per piangere al cinema, per essere la ragazza di qualcuna, per lasciarle pagare il conto o portarmi le buste della spesa, per il maschilismo cortese degli impiegati di banca e gli antennisti, per l’intimità telefonica dell’amicizia femminile a distanza, per rifarmi il trucco in bagno affiancata da una peccatrice a ogni lato come Cristo, per i sex toys, per sentirmi sexy, per essere corteggiata dalle butch, per quelle informazioni segrete su quali lesbiche temere e quali no, per Daisy Dukes, per i reggiseni dei bikini e per tutti i vestiti, e, mio dio, per il seno. Ma ora avrete cominciato a capire qual è il problema con il desiderio: raramente vogliamo le cose che dovremmo volere. Qualunque TERF vi direbbe che la maggior parte delle cose che ho elencato non sono altro che i tradizionali orpelli della femminilità patriarcale. E non avrebbe torto. Chiariamo una cosa: le TERF sono abolizioniste del genere, anche se il loro abolizionismo è un eufemismo per un diffuso disgusto morale. Quando si tratta di rivoluzione femminista, le TERF stanno molto più avanti delle ragazze trans come me, che perdono tempo ad agghindarsi. In questo senso, non sono le persone come Ti-Grace Atkinson – una sedicente femminista radicale impegnata nello smantellamento rivoluzionario del genere come sistema di oppressione – a essere antiquate; il vero dinosauro sono io, che mi faccio depilare le sopracciglia ogni due settimane.
Probabilmente non ho abbastanza consapevolezza. Mi stringo nelle spalle. Quando la compagnia aerea ti perde i bagagli e tu chiedi che li ritrovino, non stai facendo una dichiarazione politica di principio sulla tirannia della proprietà privata; vuoi soltanto che ti restituiscano la tua maledetta valigia. Questo fatto è più dolorosamente evidente nel caso della chirurgia genitale, che continua a lasciare perplessa una combriccola di teorici queer i quali, in forza di un prefisso casualmente condiviso, sono stati fin troppo pronti ad assumere le persone trans come mascotte delle loro politiche di trasgressione. Di questi tempi, la convinzione che ottenere una vagina ti trasformerà in una vera donna è retrograda fino all’eccesso. Ancora oggi, molte brave femministe riescono a comprendere la chirurgia genitale soltanto qualificandola come una scelta estetica personale: se ti fa sentire più a tuo agio nel tuo corpo, benissimo. Questo atteggiamento è tanto sbagliato quanto paternalistico. Sicuramente gli interventi chirurgici di riassegnazione del sesso sono pratiche estetiche, in continuità con la cosiddetta chirurgia cosmetica, dalla quale non possono essere distinti (nessuno entra in sala operatoria chiedendo una fica brutta). Quindi non possiamo dire che non sono decisioni estetiche; il fatto è che non sono personali. È questo il paradosso fondamentale dei giudizi estetici: sono allo stesso tempo soggettivi e universali. Le donne transessuali non vogliono operarsi perché la loro opinione personale è che una vagina sarebbe più bella da avere o da vedere rispetto a un pene. Le donne transessuali vogliono operarsi perché la maggior parte delle donne ha una vagina. Dite pure che è un discorso transfobico, se volete… questo non mi impedirà di farmi spellare il cazzo come una cipolla.
Sono tendenziosa, care lettrici e cari lettori, perché sto cercando di dirvi qualcosa di cui poche di noi osano parlare, specialmente in pubblico, soprattutto quando cerchiamo di sentirci politicamente coinvolte: non il fatto, noiosamente ovvio per chi di noi lo vive, che molte donne trans vorrebbero essere donne cis, ma il fatto più triste e più difficile che molte donne trans vorrebbero essere donne, punto. Questa, va sottolineato, non è una cosa che ci si aspetta che le donne trans vogliano. La grammatica dell’attivismo trans contemporaneo non ammette il congiuntivo. «Le donne trans sono donne», ci rimproverano con suadente aria di superiorità, come se ci fossimo tutte scambiate per Chimamanda Ngozi Adichie, come se fossimo tutte semplicemente intrappolate nella politica sbagliata, come se la cura per la disforia di genere fosse la wokeness. Come puoi volere una cosa che già sei? Il desiderio implica una mancanza; volere una cosa implica di non averla. Ammettere che ciò che rende transessuali le donne come me non è l’identità ma il desiderio significa ammettere che una parte della transizione ha luogo nelle sale d’aspetto delle cose che vuoi, ammettere che i tuoi seni potrebbero non spuntare mai, che la tua voce potrebbe non cambiare mai, che i tuoi genitori potrebbero smettere di chiamarti.
L’intensità del nostro bisogno è stupefacente.
Chiamatelo fascino della delusione. Vuoi una cosa. Hai trovato un oggetto che ti darà quello che vuoi. Questo oggetto è una persona, o una politica, o una forma d’arte, o una maglia che ti sta bene. Ti affezioni a quell’oggetto, non ti separi mai da lui, lo porti sempre con te, lo guardi in TV. Un giorno, ti dici, ti darà quello che vuoi. E poi, un giorno, questo non accade. E ti viene in mente che il tuo oggetto probabilmente non ti darà mai quello che vuoi. Ma non è in questo che risiede la delusione, non esattamente. A deluderti è quello che succede dopo: niente. Ti tieni il tuo oggetto. Continui a non separarti mai da lui, lo nascondi in un cassetto, lo innaffi, lo segui su Twitter. E quello continua a non darti quello che vuoi… ma tu lo sapevi. E hai capito un’altra cosa: non ottenere quello che vuoi ha ben poco a che fare con il fatto di volerlo. Essere più consapevole in genere non facilita le cose. Tu non vuoi una cosa perché volerla porterà a ottenerla. La vuoi perché la vuoi. È questa è l’inesorabile delusione che struttura tutto il desiderio e lo rende possibile. Dopo tutto, se potessimo volere solo le cose che ci hanno garantito che avremo, non saremmo mai in grado di volere alcunché.
Con ciò non voglio provocare pietà per le trans tristi come me. Abbiamo abbastanza rose accanto ai nostri letti. Meglio dire, semplificando al massimo, che anche le donne trans vogliono delle cose. I giacimenti del nostro desiderio sono profondi e attivi come qualunque altro. L’intensità del nostro bisogno è stupefacente. Forse perché fare coming out è un po’ come innamorarsi, perché il primo vestito è un po’ come il primo bacio, perché la disforia può essere un dolore straziante. L’altro nome della delusione, dopo tutto, è amore.