Miss Anthropocene vs. Miss Tesla Inc.
Tutti sanno che il 21 febbraio è uscito il nuovo album di Grimes, Miss Anthropocene, ma non tutti sanno che mentre tempo fa leggevo Manaraga. La montagna dei libri di Vladimir Sorokin, oltre a divertirmi pensando a un futuro (precisamente il 2037) in cui l’unica carta stampata è quella delle banconote e leggere significa dar fuoco ai libri per cuocervi cibi super costosi secondo la tecnica del book’n’grill, io pensavo a Elon Musk. E quando qualche mese dopo – un po’ per interesse, un po’ per sano autolesionismo – mi ritrovai a leggere proprio la sua biografia, capii di non aver viaggiato troppo con l’immaginazione: Elon Musk: Tesla, SpaceX e la sfida per un futuro fantastico si apre con l’autore del libro, Ashlee Vance, in un lussuoso ristorante di pesce della Silicon Valley a cena con un Musk impegnato a divorare pezzi di aragosta fritta al nero di seppia, ideale per la sua dieta low-carb. D’altronde, questo è il minimo per uno che, insieme all’ex-moglie Riley, ha «trasformato in un’arte» l’organizzazione delle proprie feste di compleanno. Tanto per fare un esempio, una volta si divertì ad affittare la cosa più simile a un castello nel centro di New York, per poi invitare una cinquantina di persone, tra cui un lottatore di sumo con cui lottò, appena dopo essersi bendato gli occhi e aver «preso un palloncino in ciascuna mano e uno tra le gambe» sperando che un lanciatore di coltelli professionista colpisse solo quelli e non lui.
Be’, ecco, quest’uomo è il fidanzato ufficiale di Grimes. La vita privata delle persone e le loro relazioni sentimentali non sono affare nostro, e resteranno sempre realtà sulle quali non è corretto sbilanciarsi in giudizi; eppure non nascondo di aver guardato con occhi diversi la figura artistica di Grimes dopo aver scoperto, oltre un anno fa, la sua storia d’amore con Musk. Voglio dire: stiamo letteralmente parlando di uno degli uomini più ricchi e potenti del pianeta. Certo, bisogna ammettere che Grimes è sempre stata animata da un certo spirito naif, a cominciare dal suo monicker che deriva dal genere musicale – il grime, appunto – nei cui vicoli non ha mai accennato ad avventurarsi. Ma a tutto c’è un limite: frequentare quel genere di persone lì – persone così tanto ricche, così tanto potenti – lo trovo eticamente sbagliato, punto.
A parte questo, chi è Grimes?
Claire Elise Boucher (questo il suo vero nome) nasce a Vancouver nel 1988 e si affaccia al mondo della musica e dell’industria discografica mediante la scena DIY di Montreal. I suoi primi due album, Geidi Primes e Halfaxa, entrambi del 2010, escono per Arbutus Records, un’etichetta che certo non vanta nessun nome da classifica, bensì volti appena conosciuti al popolo indie: tizi tipo Doldrums, musicista che ha fatto una fugace comparsata nel catalogo Sub Pop, e Sean Nicholas Savage, stravagante e talentuoso cantautore apprezzato dalla critica di nicchia. Tra questi due primi album, a cesellare un curriculum indipendente di tutto rispetto, c’è spazio per uno split assieme al connazionale d’Eon per Hippos In Tanks, etichetta americana che ha lanciato gran parte dell’elettronica più interessante degli ultimi anni, tra cui James Ferraro (proprio col suo chiacchieratissimo Far Side Virtual), Games (il progetto di Daniel Lopatin assieme a Joel Ford), Laurel Halo, Hype Williams, Arca. Il successo di queste sue prime fatiche le procura un contratto con la storica e prestigiosa etichetta dream-pop/shoegaze 4AD per quello che nel 2012 sarà il disco della sua consacrazione: Visions. Ed è immediatamente Best New Music su Pitchfork, con la musica di Grimes che viene definita «cyborg-pop» ed «electro cotton-candy».
L’approdo su 4AD coincide con un’inversione verso suoni più elettronici e più vicini a tutto quel fermento neopsichedelico prosperante soprattutto in America, e promosso da label come la stessa Hippos In Tanks, Not Not Fun e 100% Silk. Il suo immaginario vagamente cyber si consolida sempre più, iniziando a fare scuola e influenzando miriadi di ascoltatori. Registrato in tre settimane con uno spirito profondamente casalingo (anche grazie all’utilizzo di GarageBand, il software in dotazione ai computer Apple), Visions resta un ottimo disco pop, con singoli come «Genesis» e «Oblivion» capaci di accontentare tanto le platee del Primavera Sound quanto le orecchie più raffinate, innamorate del sound etereo di Cocteau Twins e Kate Bush. È un disco nel quale l’aura sognante della sua voce, strascicata da nebbie di delay, si mantiene persistente, così da ingigantire le linee melodiche: una perfetta formula per l’easy listening più sofisticato, che verrà leggermente raffinata nel successivo Art Angels, uscito nel 2015 (stavolta composto e registrato col più prestante Ableton Live), finito come il suo predecessore in (quasi) tutte le classifiche dei migliori dischi dell’anno.
Da Art Visions sono passati cinque anni, e solo adesso il seguito – a titolo Miss Anthropocene – è finalmente arrivato. Ovviamente si è subito scatenata una pioggia di recensioni entusiastiche, con testate tipo il Guardian che interpretano lo scenario distopico che aleggia nel disco (lo stesso che popola praticamente ogni serie Netflix da qualche anno) per un dolente e coraggioso canto nichilista. Allo stesso modo, Pitchfork ne esalta «la narrazione contorta sul modo di personificare i cambiamenti climatici» – perché è vero, secondo molti la novità di Grimes consiste nell’aver reso accattivante l’apocalisse. A ciascuno le proprie considerazioni: certo è che il piglio pop di Grimes non manca, e quindi è plausibile che Miss Anthropocene non deluderà i fan. Ma è pur vero che dal punto di vista meramente sonoro non c’è nessuna novità. Zero proprio. La sua musica resta la stessa dei soliti Visions e Art Angels, solo leggermente più cupa e maggiormente orientata verso il synth-pop e l’electro.
A sua volta, il titolo «accattivante» presenta l’album come un concept dimensionato su quello che è, senza mezzi termini, il tema più dibattuto della nostra epoca: l’impatto che l’azione umana ha avuto e sta avendo sulla Terra. Miss Anthropocene si presenta in effetti come un concept-album incentrato su una «anthropomorphic goddess of climate change» che abita nello spazio e si diverte a vedere la fine del mondo. E così, i testi che compongono le varie canzoni – ognuna rappresenta le diverse modalità dell’estinzione umana – gettano luce su quello che è il vero e proprio pensiero di Grimes sulla contemporaneità: tra un banalissimo «I can take your picture, baby/This is the sound of the end of the world» e i più impegnativi «But AI will reward us when it reigns/Pledge allegiance to the world’s most powerful computer» e «Baby, plug in, upload your mind/Come on, you’re not even alive» emerge, certamente, il suo spirito naif, ma anche la sua esaltazione tecnoutopica.
Da una parte, nel nuovo disco di Grimes la vaghezza regna sovrana; dall’altra, non si intravede neanche in lontananza la costruzione di un immaginario inedito: tutto sembra già visto e sentito.
Probabilmente interessata da sempre a queste tematiche, già in una vecchia intervista risalente al 2011 aveva etichettato la sua musica con il termine (allora assai in voga) «post-Internet», aggiungendo a mo’ di spiegazione che la musica della sua infanzia era stata piuttosto variegata, avendo avuto accesso praticamente a qualunque cosa grazie al web. Impossibile insomma non pensare agli infiniti anarchivi mediali che mettevano a portata di click qualsiasi reperto musicale, di cui parlava Simon Reynolds in uno dei testi che più hanno influenzato il dibattito culturale dell’ultimo decennio: Retromania.
Proprio qualche mese fa, lo stesso Reynolds ha creato di nuovo scompiglio tra critici e appassionati con un articolo assai discusso e intitolato «The Rise of Conceptronica», uscito sullo speciale monografico di Pitchfork dedicato al decennio appena trascorso. La sua tesi è sostanzialmente una critica (sarebbe meglio definirla una constatazione, considerando il basso tasso provocatorio dello scritto) indirizzata agli autori di un certo genere di elettronica che insistono molto sull’apparato concettuale della loro musica, e che al tempo stesso si ritrovano in maniera sempre più disinvolta nel circuito dei festival organizzati da grandi multinazionali.
Farcire la propria musica di troppi – e a volte immotivati – elementi paramusicali finendo per rendere cliché problematiche serie e importanti, spesso di matrice politica e sociale: proprio la critica più puntuale che si può rivolgere a Miss Anthropocene. Da una parte, nel nuovo disco di Grimes la vaghezza regna sovrana; dall’altra, non si intravede neanche in lontananza la costruzione di un immaginario inedito: tutto sembra già visto e sentito. E poi siamo sinceri: dobbiamo davvero affidare la costruzione di qualsivoglia immaginario a una persona che ha preso le parti del suo fidanzato multimilardario quando girava voce cercasse di impedire ai dipendenti Tesla di organizzarsi in un sindacato?
Almeno gli artisti «conceptronici» a cui allude Reynolds affrontano queste tematiche in maniera meno fumosa (al contrario, gli si potrebbe rimproverare una certa esasperata militanza concettuale). D’accordo: a essere sinceri, già il primo album di Grimes era piuttosto strutturato, essendo ispirato al romanzo di Frank Herbert Dune; e lo stesso Halfaxa titolava parte dei pezzi con caratteri non alfabetici e grafismi esotici tanto cari ai rapper drogati dediti al chopped and screwed e poi, soprattutto, agli esponenti della witch house. Ma il passaggio dalle montagne di sabbia di Dune al parlare (attraverso una serie di frasi fatte che difficilmente impressioneranno qualcuno) di temi come l’antropocene e l’esaltazione tecnologica, volendo peccare di malizia, rende più comprensibile la sua frequentazione con Musk.
Come tutti sanno, Elon Musk è un imprenditore, co-fondatore di Tesla e PayPal, fondatore di SpaceX e CEO di Neuralink – insomma una persona che ha a disposizione molti, molti, molti, molti, davvero molti, soldi. Unanimemente considerato come uno dei 50 personaggi più ricchi e potenti del mondo, con le sue trovate esuberanti è diventato uno degli eroi indiscussi del capitalismo digitale, erede di quel neoliberismo che crede nella favoletta secondo cui le persone si fanno da sé e con un po’ di impegno dal nulla si ritroveranno ad amministrare fortune mastodontiche.
La relazione tra Grimes e Musk è per certi aspetti molto simile a quella tra Chiara Ferragni e Fedez, ammantata com’è da un alone di chiacchiericcio gossipparo (qualcuno non si è potuto esimere dal chiamare la coppia Grusk, un po’ come Ferragnez)… L’ultima news arrivata dalla coppia ci dice che Grimes è adesso incinta di Musk, anche se alcuni sospettano che la notizia non sia vera, ma semplicemente una trovata per promuovere proprio Miss Anthropocene. Ma questo non ci interessa: piuttosto, a enfatizzare l’hype nei confronti dell’album – oltre alla decisione presa nell’aprile scorso di rinunciare al suo vecchio nome e farsi chiamare semplicemente c – ci hanno pensato una serie di dichiarazioni della musicista che hanno poi innescato alcuni botta e risposta incandescenti.
Tutto nasce dall’invito da parte dello scienziato americano Sean Carroll a presenziare come ospite per una puntata del suo podcast Mindscape, in cui la nostra dichiara amabilmente che presto la musica dal vivo diverrà obsoleta. Alla base di questa sua affermazione c’è una critica più generale, una riflessione sul fatto che le persone col passare del tempo stanno preferendo la simulazione al reale, ammiccando sempre più a un «mondo pulito, finito, falso». Grimes, che prima di dedicarsi completamente alla musica studiava neuroscienze alla McGill University, dice la sua su un tema caldissimo: in che modo cambierà la musica con l’apporto dell’intelligenza artificiale. Secondo la musicista canadese, una volta che le AI sapranno operare autonomamente fino a creare prodotti artistici, riusciranno facilmente a superarci in bravura e perfezione.
Il problema è ovviamente molto complesso e coinvolge diverse discipline, ed è soprattutto di natura filosofica. In parte le intelligenze artificiali sono già in grado di comporre musica: il progetto Google Magenta e la recente ondata Algorave ne danno la conferma. Google Magenta nasce dal gruppo di ricerca sull’apprendimento profondo, Google Brain, e se ne era già parlato proprio da queste parti grazie all’artista russo Vitaliy Bogachev, in arte Cypher Sanctuary, il quale aveva realizzato il suo disco d’esordio Sanctuary con questa tecnologia. Con Google Magenta si parte da suoni del tutto comuni, anche semplicemente provenienti da strumenti classici, facendoli interagire con algoritmi matematici e creando così sonorità tutto sommato inedite. Ma, come mi spiegava Vitaliy, per fare in modo che realmente si crei musica bisogna necessariamente avviare, settare, inserire suoni, regolare, decidere una forma finita. In sostanza, bisogna che qualcuno dia delle direttive, ma soprattutto è necessario che qualcuno – ancora umano – prenda la decisione di fare musica: deve esserci un’intenzionalità.
Parlare di intenzionalità significa inevitabilmente parlare di coscienza, quindi per avere musica realmente composta dalle intelligenze artificiali bisognerà aspettare le profezie di Ray Kurzweil: letteralmente, la singolarità tecnologica. O quantomeno bisognerà che un robot del tutto munito di coscienza, con le sue volizioni e idiosincrasie, deciderà di produrre un testo musicale.
Interagire musicalmente con le intelligenze artificiali come lo si fa oggi equivale a suonare uno strumento molto complesso. Questo non significa assolutamente voler screditare le intuizioni che possono essere suggerite da uno strumento così sofisticato, anche perché significherebbe gettare via diversi decenni di musica generativa (Brian Eno e compagnia sperimentale di seguito). Sono moltissimi gli artisti che vedono il futuro dirigersi verso questa direzione, e a sentire i lavori di alcuni di essi sembrerebbe essere del tutto plausibile questa scelta, specie se si considera il tutto dal punto di vista della decostruzione del beat. Gli Autechre sono probabilmente coloro che hanno osato per primi superare certe barriere stilistiche ed estetiche, dando un po’ il via a tutta una fascinazione nei confronti di certe sonorità legate a questa sorta di inerzia macchinica. Attraverso la loro recente discografia sembrano vivere un periodo di totale simbiosi con le macchine, e ben oltre la simbiosi sono diretti gli esperimenti di personaggi come Renick Bell, Rian Treanor, TCF e molti altri.
L’altro grande problema con cui probabilmente dovranno scontrarsi le intelligenze artificiali non sarà tanto di carattere marginalmente estetico, quanto piuttosto di natura sociologica. Molto banalmente, nessuno considera che il piacere che un essere umano prova quando ascolta musica è anche – in parte non trascurabile – legato alla fruizione che ne fa mediante una narrazione che il produttore musicale – o il contesto entro il quale il prodotto musicale è collocato – decide di presentare. È qualcosa che va oltre il semplice elemento paramusicale. È per esempio molto difficile immaginare le AI alle prese con questioni inerenti il divismo o l’autenticità, temi che sono serviti moltissimo alla costruzione proprio di un personaggio di Grimes, concetti con cui lei gioca in continuazione: il cambio del nome in c ne è un esempio lampante.
La tesi di Grimes ha suscitato diverse reazioni, alcune delle quali positive ed entusiastiche. Altri al contrario – come Devon Welsh, ex-frontman dei Majical Cloudz – hanno descritto i suoi commenti come «propaganda fascista della Silicon Valley»; la musicista statunitense Zola Jesus ha bollato Grimes come «la voce del privilegio fascista del silicio», definendola come una persona che parla con cinismo perché non ha nulla da perdere. I commenti acquistano un senso se si considera che la stragrande maggioranza dei musicisti ha bisogno di suonare dal vivo per mantenersi; Grimes probabilmente no, o quantomeno da qualche tempo guarda alla musica solo da un punto di vista commerciale (strano tra l’altro esprimersi sulla «morte della musica indipendente» in un momento storico in cui fare musica è come non mai alla portata di tutti). La cantante ha poi risposto con argomentazioni piuttosto ambigue, insistendo sul fatto che la tecnologia ha sempre modificato il modo in cui produciamo e fruiamo musica, e che quindi è impossibile prevenire risultati negativi se prima non iniziamo a immaginare quelli positivi. Molto più sul pezzo sembra essere Holly Herndon, da sempre interessata alla tecnologia e al ruolo che le intelligenze artificiali avranno nel futuro della musica: basti ricordare che il suo Platform le fece ottenere lo scettro di «queen of tech-topia» dal Guardian.
Il suo intervento, benché sembri accodarsi in qualche modo alle considerazioni fatte da Zola Jesus sul fatto che probabilmente le AI non sostituiranno i musicisti, tenta di spostare la discussione su un ulteriore piano, quello politico, chiamando in causa il lavoro di varie multinazionali come Google, Apple e Spotify, le quali, estraendo dati dal controllo dei nostri ascolti, fanno in modo che la musica divenga sempre più simile ai risultati generati da raffinati algoritmi. Questa cosa sì, ha un impatto significativo sul nostro gusto e sul nostro modo di percepire musica, e potrebbe stravolgere in maniera consistente la nostra facoltà di giudizio. Intanto, la preoccupazione rivolta a tali tematiche è la prova del nove di come «la musica continui a definire le esistenze delle persone che si aggregano grazie a essa e che si innamorano, proprio come ha definito la nostra vita a tal punto da spingerci a preoccuparci di questo problema». Suggestioni che avevano avuto un precedente già alcuni mesi fa quando Holly Herdon affermò di trovare di urgente importanza far apprendere la bellezza umana alle AI, anziché far lavorare gli algoritmi del Capitale al posto nostro. Un leitmotiv che torna di frequente nel suo pensiero, dal momento che la sua ultima uscita discografica, Proto, è stata composta con l’aiuto di un AI a cui è stato dato perfino un nome, Spawn, e che è stato ammaestrato e introdotto al nostro gusto. Se alla base del suo precedente Platform c’era l’individuo nell’epoca digitale, in Proto c’è il suggerimento di una più generale propedeutica digitale. Quindi io dico: meno Grimes e più Holly, meno Miss Anthropocene e più Proto – nonostante Violence sia davvero un bel pezzo!