Messaggi dagli inferi
Quando nel 1977 Stephen King scrisse The Shining non aveva certo in mente un’implausibile futura pandemia, ma chissà se in questi giorni ha pensato al suo John Torrance (Jack è una licenza poetica di Kubrick) intrappolato nell’Overlook Hotel a cercare di sopravvivere fino alla fine del lockdown. Il racconto si sposa perfettamente con il nostro tempo: c’è un John Torrance in ogni scrittore in quarantena. Chiuso in casa senza poter uscire, con quel libro che dovresti scrivere e non riesci nemmeno a iniziare, sprofondato nel tuo inconscio, essere posseduto dal fantasma di un custode morto e tentare di sterminare la famiglia è il minimo che ti possa capitare.
La difficoltà degli scrittori alle prese con la sindrome della pagina bianca è una delle sottotrame di questa pandemia, e se non vi sembra la più interessante probabilmente non siete degli scrittori. Poiché – come dice una mia amica – quando gli scrittori non riescono a scrivere ci scrivono sopra un memoir (Mark O’Connell su Twitter il 5 marzo: «When do all the self-isolation personal essays start coming?»), gli ultimi due mesi sono stati attraversati da un fiume d’inchiostro prodotto da scrittori che riflettono sull’impossibilità di scrivere durante l’emergenza Covid-19. Come molti colleghi anch’io ho fatto esperienza di quello che sembra uno strano incantesimo. Cosa ci impedisce quindi di scrivere?
Uno dei problemi è che, come capita a John/Jack in Shining, la pandemia mette lo scrittore in un doppio legame potenzialmente devastante: da un lato, confinati in casa, senza presentazioni e conferenze, aperitivi e altri impegni sociali, gli scrittori avrebbero tutto il tempo di fare quello che in teoria dovrebbero amare fare, cioè scrivere, ma dall’altro proprio questa assenza di distrazioni li costringe a un contatto ininterrotto con la fonte della propria scrittura, se stessi, e non è detto che questa relazione forzata aiuti a stimolare la creatività.
Jack Torrance, quello di Kubrick, perde la testa proprio perché non ha altro da fare tutto il giorno che dedicarsi al suo romanzo, e così invece di scrivere inizia a passare il tempo a lanciare una pallina da tennis contro il muro. Pochi giorni fa, quando ho fatto questo collegamento, ho smesso di giocare a calcio con la pallina antistress che mi sono portato a casa dall’ufficio, uno dei miei passatempi preferiti della pandemia. Ricordo che è guardando il nipotino Ernst che lanciava ripetutamente un giocattolo contro il muro che Freud teorizzò la pulsione di morte esattamente un secolo fa, nel 1920.
Se l’ispirazione venisse solo dall’interno dello scrittore il doppio legame non dovrebbe esistere, e quella dell’isolamento sarebbe una situazione ideale: la pandemia dovrebbe essere il paradiso degli introversi. Il fatto che le cose vadano diversamente ci dice qualcosa su come funzionano i meccanismi che generano lo «shining», la «luccicanza» dell’ispirazione, la cui origine va ricercata nel proprio contrario, cioè nell’oscurità del mondo infero.
In quanto prodotto del mondo delle ombre, i sogni hanno leggi proprie. E queste leggi sono le leggi della morte.
Un’altra sottotrama della pandemia, questa forse più interessante delle ansie di fallimento di una comunque troppo nutrita classe intellettuale, è quella che riguarda i sogni insolitamente vividi di cui molte persone hanno fatto esperienza dall’inizio della crisi. Sebbene ci sia chi ha cercato di attribuire questa insorgenza del mondo onirico a fattori biologici, come ad esempio a una permanenza più lunga nella fase REM nelle ore del mattino, visto che in quarantena si dorme di più (a meno che non soffri d’insonnia come il sottoscritto, nel qual caso dormi tanto quanto prima, cioè poco) è evidente che sotto i «sogni della pandemia» ci deve essere anche dell’altro.
I sogni indotti dal Covid-19 hanno talvolta le tinte cupe dell’incubo e contengono spesso, a quanto pare, insetti. Io non sogno insetti ma, con una costanza che ha qualcosa di numinoso, realtà virtuali, schermi di computer e TV, giochi di ruolo e algoritmi programmati per raccontare storie. Nei sogni sono spesso l’autore e il personaggio del racconto, controllo e sono controllato dallo storytelling, e come in un sogno lucido so di star sognando e che la realtà intorno a me è un costrutto narrativo. Come in un romanzo di Philip K. Dick, o in una Billie Eilish al contrario, mi chiedo dove andrò quando mi sveglio.
Un’altra abitudine che ho preso dall’inizio della pandemia è quella di giocare ai videogiochi: in uno costruisco una fattoria, in un altro stabilisco una base su Marte, nel terzo sono ogni essere vivente e inerte dell’universo, dai fili d’erba alle galassie, e quando finalmente arrivo nel nero del vuoto interstellare sento la voce di Alan Watts che si chiede quale sia la natura della realtà (da cui deduco che Alan Watts è dio). Ciò che collega questi tre scenari è che sono simulazioni: nel videogioco sono l’autore e il personaggio del racconto, controllo e sono controllato dallo storytelling e così via.
Siamo abituati a interpretare i sogni come il rimosso della vita diurna o, ben che vada, simboli che richiedono alla mente di essere decifrati per integrare il nostro lato in ombra, ma forse questo approccio è riduttivo. Nel 1979 James Hillman ha proposto una versione alternativa in Il sogno e il mondo infero, un libro che mi ossessiona da quando l’ho letto. Rifacendosi come suo solito alla mitologia, e soprattutto al mito di Orfeo che discende nell’Ade, Hillman sostiene che sia un errore tentare di interpretare i sogni con le regole del mondo diurno come fossero tasselli di un puzzle che aspetta di essere rimesso in ordine dalla luce della ragione: in quanto prodotto del mondo delle ombre, essi hanno leggi proprie. E queste leggi sono le leggi della morte.
Secondo Omero, Hypnos e Thanatos, sonno e morte, erano fratelli. Ade invece era il fratello di Zeus, e il rapporto tra i due era tanto stretto che talvolta il primo viene indicato come «Zeus ctonio». Hillman ne deduce che il mondo del giorno e il mondo della notte sono la stessa cosa osservata da prospettive diverse. Questa specularità era condivisa anche dagli antichi Egizi, il quali erano convinti che il mondo dei morti fosse uguale a quello dei vivi ma ribaltato di 180 gradi: si trovava sottoterra e la gravità era invertita al punto che i morti defecavano dalla bocca.
Per Hillman quindi il sogno ha a che vedere con la morte, e più precisamente con il «lavoro della morte» («death-work») dentro di noi. Esso è imparentato con la depressione e con il Todestrieb freudiano. Inquilini del mondo dei morti, i sogni non possono essere portati pienamente alla luce, soprattutto, dice Hillman, in una società come la nostra che ha profondamente disconosciuto il ruolo giocato dalla morte nel mondo e, quindi, ne è più succube, più inconsapevolmente schiava. I sogni sono la manifestazione del lavoro della morte. Durante una pandemia facciamo sogni stranamente vividi. Il Todestrieb è tutto intorno a noi: più tempo passo in quarantena e più aumenta la mia voglia di stare chiuso in casa. Vado a passeggiare ogni giorno ma faccio sempre lo stesso percorso, piccole variazioni mi agitano. Sono diventato sensibile ai rumori forti, da quando ho smesso di ricordare con precisione i sogni i momenti di tristezza si sono fatti più lunghi e viscosi. La maggior parte del tempo, però sono felice: nella mia casa affacciata sul bosco, alla fine di una strada chiusa, mi verrebbe facile ignorare la catastrofe planetaria se non fosse per il rumore incessante delle ambulanze in lontananza. Provo a scrivere, ma la pagina rimane bianca.
Pensando a Hillman, mi pare emblematico che il primo poeta, Orfeo, fu anche l’unico vivo a discendere nel regno dei morti. Ne uscì depresso dopo aver perso per sempre Euridice e finì male: mentre vagava disgustato dalla vita trattò con disprezzo le baccanti, che in un’estasi di violenza alimentata dal vino lo fecero a pezzi e sparsero i suoi organi per i campi. La testa gettata nel fiume Ebro continuò a cantare, e Zeus impietosito ne fece la costellazione della Lira.
Se torniamo a Shining e alle versioni della storia fornite da King e Kubrick, ci rendiamo conto che la principale differenza tra i due racconti è che mentre John (quello di King) si trasferisce all’Overlook Hotel appositamente per scrivere una sceneggiatura ispirata agli omicidi avvenuti nell’albergo, poco o nulla sappiamo del romanzo che Jack (quello di Kubrick) è andato a scrivere nell’isolamento del grande edificio vuoto. All’inizio del romanzo John è un brav’uomo, mentre Jack è chiaramente uno squilibrato che sta solo aspettando di dar libero sfogo alla propria follia omicida. Nel libro non c’è mai il dubbio che a trasformare John in un assassino siano i fantasmi che abitano l’albergo, mentre fino alla fine del film di Kubrick abbiamo l’impressione che Jack stia sostanzialmente sprofondando nei gorghi di una follia individuale.
Le ragioni per cui John e Jack impazziscono sono insomma diametralmente opposte: mentre John entra in contatto troppo promiscuo con l’oggetto del suo racconto (i fantasmi dell’Overlook), Jack non riesce a scrivere il suo romanzo perché i fantasmi gli colonizzano la mente. Le porte della percezione di John sono troppo aperte al mondo dei morti, mentre il blocco di Jack deriva dal fatto che vorrebbe tenerli fuori e concentrarsi sulla sua carriera letteraria. Inutile dire che l’unico a possedere realmente la luccicanza è Danny, che con l’aldilà entra in un contatto dialettico attraverso l’amico immaginario Tony.
King non rimase colpito dal film di Kubrick quando andò a vederlo nel 1980, definendolo «una grande, bella Cadillac senza motore», ma la realtà è che libro e film sono specchi piuttosto fedeli delle ossessioni dei loro autori, ossessioni che, in questo caso, sono antitetiche: mentre King è interessato alla possessione (i suoi personaggi vengono spesso manipolati da entità ancestrali, come la «cosa» che si nasconde sotto Derry in It o come appunto il fantasma del custode dell’Overlook Hotel), Kubrick ha fatto un’arte della chiusura claustrofobica dei propri mondi, dalla capsula della Discovery One in 2001: Odissea nello spazio alla convivenza forzata di Eyes Wide Shut (che a quanto si dice sarebbe costata il matrimonio tra Tom Cruise e Nicole Kidman). Insomma, mentre King è interessato alle forze provenienti dall’esterno, l’attenzione di Kubrick era rivolta a quelle che agivano non viste dall’interno. Mentre in King il male è cosmico e ricorsivo, in Kubrick è il prodotto dell’isolamento e della fissazione.
Non c’è dubbio che le storie vengano dal mondo dei morti e che l’etere in cui viaggiano sia lo stesso attraverso cui si muovono sogni e fantasmi.
Fedele alla sua idea della scrittura come possessione, in On Writing King scrive che le buone storie «spuntano a quel che sembra apparentemente dal nulla»: inutile quindi che lo scrittore si sforzi di farsi venire un’idea, i racconti sono forze impersonali che abitano l’etere e si servono dello scrittore per venire alla luce. Dal che si deduce che di ogni storia lo scrittore è l’autore e il personaggio del racconto, controlla ed è controllato dallo storytelling, che non gli appartiene mai del tutto. Esso è l’autore di una simulazione di cui lui stesso è schiavo, per lo più inconsapevole.
Non c’è dubbio che le storie vengano dal mondo dei morti e che l’etere in cui viaggiano sia lo stesso attraverso cui si muovono sogni e fantasmi: nella versione del mito di Orfeo portata al cinema da Jean Cocteau nel 1950, la morte (che si è innamorata di lui) comunica con il giovane poeta attraverso i messaggi trasmessi da una stazione radio che solo lui può ascoltare. I messaggi sono di questo tenore: «L’uccello canta con due dita. Due volte. Ripeto. L’uccello canta con due dita». Oppure: «Giove rende saggi coloro che vuole perdere. Attenzione. Ascoltate: Giove rende saggi coloro che vuole perdere». Ovviamente Orfeo si fa sedurre e attraversa lo specchio che lo porterà nell’Ade.
La mia quarantena ha avuto due fasi nettamente distinte. La prima è stata segnata dalla cacofonia informativa, i dispacci dal mondo di fuori fluivano senza sosta attraverso i miei dispositivi tecnologici sempre attivi, i feed di Twitter, le chat di WhatsApp, Skype e Zoom, la televisione accesa in sottofondo, tre schede di Firefox sempre aperte sul Post, il Guardian e il conteggio in tempo reale dei nuovi casi di Covid-19. Ho scritto a persone che non sentivo da un decennio per sapere se andava tutto bene, ricevendo fotografie tutte identiche scattate da New York, Parigi, la campagna lombarda o le Dolomiti (sostanzialmente foto di stanze da letto, cibi e strade fuori dalle finestre) che mi mostravano una quarantena in tutto e per tutto identica alla mia. Io trasmettevo a mia volta testi e immagini. Quando finalmente la giornata finiva e andavo a letto cominciavano nuovi messaggi, questi dal mondo dei morti: iniziavano i sogni.
Questa è stata la fase in cui gli scrittori di tutto il mondo hanno preso appunti, febbrilmente, in attesa di scrivere il grande romanzo della pandemia. Un romanzo che, come ha riflettuto Sloan Crosley sulle pagine del New York Times, sarà simile alle fotografie della quarantena: trarrà la propria forza dalla ripetizione meccanica dell’uguale, le stesse scene di supermercati vuoti, ambulanze in lontananza, animali selvatici nel centro delle città, horror vacui, solidarietà dal basso e tutte le altre immagini estreme ma banali, visto che le abbiamo vissute tutti, che hanno caratterizzato questo momento. Anch’io ho preso appunti, ma l’unica cosa che sono riuscito a scrivere che abbia qualche valore letterario sono i resoconti dei sogni. La narrazione corale del nostro mondo onirico collettivo, mi pare, è il vero romanzo della pandemia, e a scriverlo non siamo noi ma le nostre ombre.
Nella fase due della mia quarantena l’emergenza è stata sostituita dalla nuova normalità, il disagio alle spalle provocato da una postazione lavorativa inadeguata alleviato dall’edificazione rituale di uno standing desk ottenuto impilando il Dizionario di filosofia di Abbagnano sopra i tre tomi dei Passages di Benjamin dell’edizione Einaudi, e i sogni sono finiti. Inizialmente si sono fatti frammentati, come se i dispacci dal mondo dei morti incontrassero problemi di trasmissione, arrivavano a brandelli di statica perlopiù incomprensibili. Poi si sono del tutto inabissati. Ho smesso di provare a scrivere, traendone un immediato senso di liberazione. Per primo ho abbandonato Twitter, poi gli aperitivi su Skype hanno cominciato a risultarmi insopportabili. Dopo due settimane mi sono accorto che controllavo WhatsApp una volta ogni tre giorni.
Quando si ha a che fare con l’Ade, guardarsi in faccia è pericoloso: gli antichi Greci offrivano i loro doni ai morti senza guardarli in faccia, ed è quando si volta a guardare Euridice che chiama il suo nome che Orfeo perde l’amata per sempre.
Invece ho cominciato a giocare più spesso ai videogiochi: la mia base su Marte è proliferata. Ogni tanto, quando sono in vena, faccio lunghe passeggiate su Second Life, godendomi il panorama generato dinamicamente a ogni passo, e quando sono stanco di camminare volo. Questo è stato il momento in cui la quarantena si è trasformata da un romanzo di Stephen King a un film di Stanley Kubrick. All’incessante mormorio delle voci spettrali trasmesse dalle frequenze informatiche e oniriche è seguito un crescente silenzio. Come in un romanzo di Ballard, si comincia a sprofondare nello spazio interiore, il tempo rallenta fino a quasi a fermarsi, ogni azione richiede tre volte, quattro volte il tempo che richiedeva prima: mi sveglio ed è ora di andare a dormire («c’è una via d’uscita, dottore», dice uno dei personaggi di Miti del futuro prossimo del 1982, «una via d’uscita dal tempo»).
Rallentando il ritmo della macchina capitalista, la pandemia ci impedisce di distrarci, ci porta a contatto con noi stessi e ci immerge nel tempo profondo individuale e collettivo. Quando si ha a che fare con l’Ade, guardarsi in faccia è pericoloso: gli antichi Greci offrivano i loro doni ai morti senza guardarli in faccia, ed è quando si volta a guardare Euridice che chiama il suo nome che Orfeo perde l’amata per sempre e segna il proprio destino.
Così cominciano i sintomi: non riesco a respirare durante una lezione di aerobica di Jessica Smith e ci metto cinque minuti a capire che è un attacco di panico, che è cinque minuti più di quanto ci metterei normalmente. Ho letto un articolo sugli effetti dell’intossicazione da anidride carbonica a bassi livelli («low-level carbon monoxide poisoning») che si produce negli appartamenti troppo piccoli che non vengono areati appropriatamente per troppi giorni, proprio come il mio, che ha queste finestre antivento inglesi da cui l’aria passa a malapena. A quanto pare le persone che ne sono vittime pensano di essere due, si sdoppiano e lasciano post-it a se stessi di cui si chiedono la provenienza quando finalmente dopo due settimane escono di casa per buttare l’immondizia e i livelli di ossigeno nel loro sangue tornano sopra la soglia di guardia.
Intanto continuo a non scrivere, ma ho cominciato a prendere appunti sull’impossibilità di scrivere, la morte dell’autore, la scrittura automatica surrealista, l’appropriazione come tecnica letteraria e Orfeo come macchina ricetrasmittente. Mi viene quasi un colpo quando, guardando una conferenza in cui racconta di quella volta che è rimasto per una settimana a girovagare per le Galapagos dopo il suo primo e ultimo ritiro di ayahuasca nella foresta amazzonica, solo e convinto di trovarsi in un sogno dal quale non riusciva a svegliarsi, Jules Evans si rivolge alla telecamera e dice: «Non pensare troppo a quel romanzo che non riesci a scrivere». Vorrei rivolgermi allo schermo e chiedergli se sta parlando proprio a me, poi mi rendo conto che sarebbe una tipica manifestazione di quella che Evans chiama un’«emergenza spirituale» (la conferenza è su quel tema), un fenomeno il cui ritmo pare accelerato da quando è scoppiata la crisi del Covid, quindi mi trattengo e non dico niente.
Il che va bene, perché ho un bisogno crescente di rimanere in silenzio. Se resto immobile, ma veramente immobile, sento un ronzio di fondo e non ho dubbi che sia il canto sommesso del mondo infero. Navighiamo sempre in un oceano d’inconscio, ma da qualche tempo l’acqua si è fatta più alta, come nella vignetta del New Yorker del 29 aprile in cui c’è un naufrago su una barca a remi, nel mezzo dell’oceano, durante una tempesta e la didascalia che dice: «This is it: the time to finish your novel».
J. Torrance insegna che quando scrivi in una casa infestata l’unica cosa che puoi fare è lasciare che siano i fantasmi a parlare attraverso di te, come fa Danny, perché sia che cerchi di tenerli fuori dalla porta che ti abbandoni completamente al loro potere finisci per perdere la testa. Il che, mi sembra emblematico, è proprio quello che capita a Orfeo fatto a pezzi dalle baccanti. Ovidio invece ci dice che la testa mozzata può continuare a cantare anche senza un corpo o una volontà propria: Orfeo può continuare a essere il poeta più grande del suo tempo anche se Orfeo in quanto tale non esiste più. E forse ci dice anche che questo è la letteratura, in fondo: un demone dotato di vita indipendente, una voce scorporata, una radio che trasmette i segnali provenienti dal buio.