Mark Fisher, 1968-2017
Come ricorda Valerio Mattioli nella sua prefazione all’edizione italiana di Realismo capitalista, «è difficile rendere il senso di smarrimento che la mattina del 14 gennaio 2017 seguì alla notizia del suicidio di Mark Fisher […] la sensazione fu quella di un improvviso vuoto assieme politico, culturale e soprattutto esistenziale, che di colpo parve accomunare tanti di coloro che si erano imbattuti nei suoi scritti, nelle sue analisi, finanche nelle sue provocazioni».
La memoria di Fisher resta d’altronde vivissima anche a un anno dalla sua scomparsa: basti come esempio il memorial tenutosi pochi giorni fa alla Goldsmith University di Londra, talmente affollato che la sala non è riuscita ad accogliere le centinaia di persone accorse a rendere omaggio al teorico e scrittore inglese. Oppure bastino le parole di Nina Power che, nell’anniversario della morte, conclude il suo ricordo con un commosso «niente è più lo stesso».
Per rendere il senso di quanto la perdita di una figura di Fisher ha significato per chi l’ha conosciuto o di persona o attraverso i suoi scritti, abbiamo qui raccolto una serie di interventi apparsi nelle settimane immediatamente successive alla notizia del suo suicidio: è una rassegna senz’altro dolorosa (anche se mai malinconica – e questo è di per sé indicativo), ma che resta probabilmente utile per chi, specie in Italia, ancora conosce poco di una figura tanto fondamentale.
Cominciamo dalla Los Angeles Review of Books, che nel marzo dello scorso anno chiamò a raccolta una serie di firme per un lungo omaggio contenente interventi di Ellie Mae O’Hagan, Mark Bould, Roger Luckhurst, Carl Freedman e Jeremy Gilbert; curato da Dan Hassler-Forest, l’omaggio della LARB sottolineava come «nessun altro autore [come Mark Fisher] è riuscito a cogliere in maniera tanto vivida la deprimente assenza di alternative politiche e sociali nell’era del capitalismo globale», notando poi come «il genio di Fisher […] stava nella maniera in cui riusciva a collegare astrazioni complesse a esempi presi dalla cultura pop perfettamente scelti e immediatamente riconoscibili».
Su Frieze, il co-editor Dan Fox tornava all’importanza che Fisher ha avuto nell’individuare «attraverso il pop […] chiavi in grado di descrivere i meccanismi di classe e potere in una maniera lucida e urgente», diventando così una «lettura essenziale per tutti coloro che si sentivano alienati dal blairismo e disillusi dalle lotte intestine e dal narcisismo della sinistra».
La critica pop a Fisher deve d’altronde moltissimo: in particolare, Fisher ha impresso un marchio indelebile nel fin troppo bistrattato ambito della critica musicale, ed è quindi comprensibile come da quel mondo siano arrivati molti dei commiati più sentiti. Sulle pagine del Guardian, Simon Reynolds arriva a definire Fisher «un John Berger post-rave», mentre su The Quietus un altro grande nome della critica musicale inglese come David Stubbs ne parla come di «un collega, un eroe, un’ispirazione, ma anche un amico». Vale anche la pena citare il profilo del mensile The Wire, in cui ben vengono riassunti gli interessi da cui prende spunto il pensiero di Fisher, capace di spaziare «dalla filosofia alla cultura alla politica, prendendo spunti da Doctor Who come dai Fall, dall’etichetta drum’n’bass Metalheadz come da Spinoza, passando per Lovecraft e tutto quello che sta in mezzo». Infine: assieme alla musica, l’altro linguaggio della cultura pop più indagato da Fisher è stato senza dubbio il cinema; in questo senso è significativo il ritratto che, sul sito del British Film Institute, Sam Davies fornisce del contributo di Fisher alla critica cinematografica britannica degli anni Duemila.
L’altro contesto in cui più si è fatto sentire l’impatto di Fisher – e di un libro come Realismo capitalista in particolare – è chiaramente quello della politica e del pensiero «radicale». A tal proposito, su Jacobin, un commosso Alex Niven ricorda come «imbattersi in Realismo capitalista ha cambiato la vita a tanti della mia generazione». Da citare poi quantomeno il tributo di Juliet Jacques sul sito dell’editore Verso, e l’omaggio – opportunamente intitolato Negativity, Not Pessimism! – di Adam Harper su opendemocracy. Ma è stato soprattutto un vecchio amico come Robin Mackay di Urbanomic a prendersi carico dell’eredità di Fisher, ribadendo come l’autore di Realismo capitalista sia sempre rimasto estraneo ai vetusti meccanismi dell’accademia per preferire un’indagine «singolare e sovversiva». A Mackay si deve inoltre il primo memorial che, a poche settimane dalla scomparsa, poneva sul piatto la questione della «funzione Fisher» e dei suoi possibili sviluppi.
Whitstable in Kent, 2012
Se fuori dal mondo anglofono la notizia della scomparsa di Fisher è arrivata fino sulle pagine di El Pais e del Tagesspiegel, in Italia la stampa mainstream non se ne è (prevedibilmente?) occupata in alcun modo; restano però dei preziosi contributi apparsi nei circuiti dell’editoria indipendente perlopiù online: tra le varie analisi e riflessioni, ricordiamo almeno quella di Tommaso Guariento sul defunto Prismo, Claudia Durastanti su Pixartprinting, il ricordo di Franco «Bifo» Berardi su effimera e, sempre su effimera, gli interventi di Alessio Kolioulis e Francesca Coin.
Infine, permetteteci di ricordare Mark con l’intervista che, come NERO, gli facemmo nella primavera del 2014 e che pubblicammo sul nostro sito l’anno successivo. Da quella lunga e appassionante conversazione, avvenuta in un pomeriggio di aprile alla John Cabot University di Roma, nacque dapprima l’idea di portare Realismo capitalista in Italia, in qualche modo gettando le basi di quella che adesso è la collana Not. Senza Mark Fisher, semplicemente, Not non sarebbe mai esistita.