Manga dall’abisso
Se eri un ragazzino giapponese degli anni Settanta, leggere una rivista come Weekly Shōnen Sunday aveva la stessa forza dinamitarda di un secchio pieno di petardi. Dentro potevi trovare le storie di Osamu Tezuka e Go Nagai, un gioiello biopunk come Blue Submarine n.6 di Satoru Ozawa, e addirittura un misteriosissimo adattamento di una cosa di Jacques Lacan.
Nel 1972, in quella rivista di manga per adulti esordì Hyōryū Kyōshitsu di Kazuo Umezu. Arrivato in Italia solo adesso con il titolo Aula Alla Deriva, il fumetto parte da una storia semplice: una scuola della prefettura di Kobe scompare con tutti i suoi studenti e insegnanti, per poi riapparire in una landa desolata.
Umezu è un colosso in Giappone: musicista, attore e regista, oltre che mangaka formidabile. La sua influenza nello sviluppo e definizione di un preciso approccio orrifico al manga è ben testimoniata da Kanako Inuki, madrina del j-horror deviato di metà anni Novanta, in un’intervista del 2006 per la pubblicazione del suo School Zone negli USA:
«L’elemento drammatico nei suoi manga scaturisce da l’orrore nel quotidiano di mondi anormali contrassegnati da una realtà deformata. I personaggi nelle sue storie hanno un loro preciso punto di vista che rende tutto spaventoso; non si tratta dell’immagine, ma del modo in cui le emozioni dei personaggi sono proiettate nel lettore, non limitandosi a terrorizzarti (…) Umezu ha definito e mutato in Giappone il genere di manga horror “Kaiki” (misterioso/grottesco/anormale) creando il manga “Kyoufu” (terrore/paura)».
La dimensione indagata da Umezu è la stessa analizzata da Mark Fisher in The Weird and the Eerie; lo spaesamento e la ricollocazione in un mondo divorato da un tempo anomalo fanno esplodere negli adulti un senso di non appartenenza che conduce alla follia, mentre i bambini creano uno spettro imbarbarito e disperato di società seguendo il modello di The Lord Of Flies. Come le dune di Stalker, la sabbia che circonda la scuola è il perturbante freudiano che sfonda la psiche, un’estensione oscena della Zona.
In Aula, la deriva del protagonista Sho e dei suoi compagni puntella alla perfezione la definizione di Eerie data da Fisher (che traduciamo come «misterioso» per semplificare il discorso): «Il misterioso è costituito dal fallimento della presenza e dell’assenza. La sensazione del misterioso si verifica quando è presente qualcosa dove non dovrebbe esserci nulla, oppure non c’è niente dove dovrebbe esserci qualcosa». Il superamento del perturbante freudiano che limita la prospettiva del lettore è data proprio da questo nuovo senso del non-familiare: vedere l’interiorità dalla prospettiva dell’Altro.
La descrizione di Fisher suona come una fusione tra i due generi manga Kaiki e Kyoufu: un insieme di misterioso e perturbante che proprio Umezu ha lanciato come una bomba ridefinendo il genere e piantando semi velenosi negli autori che lo seguiranno. Ma il traghettatore ufficiale del manga horror dalle nuove frontiere dell’eerie a una ridefinizione del weird che ha influenzato contemporanei come Junji Ito, Suehiro Maruo e Shintaro Kago (ci arriveremo) resta senza dubbio quel pazzo assoluto di Hideshi Hino, amico dello stesso Umezu ma autore dallo stile diametralmente opposto.
Sesso, Lovecraft e Weird
Nel periodo immediatamente successivo all’Aula alla Deriva di Umezu, Hideshi Hino inizia a sviluppare storie contrassegnate da elementi grotteschi e personaggi deformati, fusi con quelle mostruosità inclassificabili tipiche dell’immaginario lovecraftiano e uno stile che potremmo definire un Fujiko Fujio disgustoso. In Bug Boy (1975) rivisiterà la metamorfosi di Kafka tramutando un ragazzino in un bruco schifoso, mentre in The Red Snake unisce il caricaturale a un turbinio di immagini sanguinose e stilizzate, come quella di una ragazza che si accoppia con dei serpenti, in una rielaborazione oscena de Il sogno della moglie del pescatore di Hokusai.
Nel 1985 Hino porterà all’estremo il suo stile con il secondo capitolo della saga cinematografica Guinea Pig, Flowers of flesh and blood; una roba talmente estrema e realistica da aver fatto credere a Charlie Sheen che si trattasse di uno snuff. Tornando a Mark Fisher, in questo caso il sentimento del weird (tradotto per comodità come «strano») si applica perfettamente alle parole di Philip Thomson sul grottesco: la copresenza del ridicolo insieme a qualcosa che di ridicolo non ha nulla. In Lovecraft, il sentimento del ridicolo è puramente accidentale, e Fisher puntualizza come il sentimento straniante nella produzione del bardo di Providence sia radicato soprattutto nella fascinazione verso l’orribile e l’assurdo:
«Ciò che è strano non deve solo repellere, ma anche forzare la nostra attenzione (…) La fascinazione in Lovecraft è una forma di jouissance lacaniana: un godimento che implica l’inestricabile unione di piacere e dolore».
Il lavoro del sentimento di jouissance influisce direttamente sul connotato negativo dell’oggetto sublimandolo a Cosa carpenteriana, al contempo terrificante e allettante. La Cosa trascende i connotati di positività e negatività espressi dalla libido, travolge e non può essere contenuta in alcun modo, ma proprio per questo motivo continua ad affascinare.
La grottesca mattanza iperreale e affascinante di Hino, opposta e confluente ai toni del misterioso perturbante di Umezu, trova tra i suoi massimi esponenti un colosso come Junji Ito. Le scan dei suoi fumetti circolano da anni nei forum più marci del web, e adesso arriva in Italia un volume edito dalla J-Pop che raccoglie integralmente Tomie, la sua opera d’esordio uscita in Giappone nel lontano 1987: settecento pagine di orrori che forse hanno perso la loro forza primigenia ma restano tra le cose più affascinanti e iconograficamente disturbanti degli ultimi trent’anni.
Le storie di Ito sono perturbanti e stranianti senza filtri o forti esigenze di racconto. In particolar modo Uzumaki, uscito originariamente alla fine degli anni Novanta e forse il suo capolavoro, è un esercizio stilistico che parte dall’assunto che una città intera venga infestata da una «maledizione della spirale». In questo modo corpi, cose e animali diventano catalizzatori di Unheimlich perdendo ogni senso di familiarità con il mondo e gettando i giovani protagonisti in una distopia macabra e nerissima. Le tavole di Ito variano dal ridicolo all’agghiacciante in un attimo, e la sua influenza è diventata talmente densa negli anni da portarlo a collaborare con Guillermo del Toro e Hideo Kojima nel defunto progetto Silent Hills. Il sospetto è anzi che abbia anche influenzato il design di Pennywise nel recente adattamento di It diretto da Andy Muschietti; in questa scena sembra davvero una faccia disegnata da Ito: espressione mostruosa/ridicola e occhi dislocati.
L’altra faccia del weird affonda nella sensualità abnorme e nella perversione assoluta del genere ero-guro, letteralmente «erotico-grottesco»; radicato nella letteratura giapponese sin dagli anni Trenta del Novecento e confluito nel filone dei film pinku eiga, l’ero-guro è la deriva estrema dello straniamento. Uno dei suoi massimi esponenti è Suehiro Maruo, che con un tratto elegante tra Hokusai, Otomo e i film della Hammer stilizza una montagna di atrocità scatologiche, superviolente e surreali raccolte in volumi come Ultra Gash Inferno e Q-SAKU (da noi tradotto come Notte putrescente). Maruo fonde pittura e illustrazione in disegni di rara bellezza votati al marcio assoluto, arrivando ad adattare (in parte) l’Histoire de l’oeil di Bataille e due racconti di Edogawa Ranpo: La strana storia dell’isola Panorama e Il Bruco (Ranpo è una sorta di Conan Doyle giapponese malato, se trovate in qualche mercatino dell’usato la raccolta Urania L’inferno degli specchi prendetela SUBITO. Oppure vedetevi Blind Beast).
Forse l’opera più rappresentativa di Suehiro Maruo è Shōjo Tsubaki del 1984, da noi arrivato come Midori – La ragazza delle camelie: rivisitazione amorale dei freaks di Ted Browning e opera di distruzione di una figura archetipica della cultura giapponese nella Grande Depressione (la preadolescente che vende fiori sul ciglio della strada), Midori ricorre a sequenze di abusi al limite del sopportabile. Nel 1992 ne è stato tratto un anime spietato e nel 2016 anche un live action, ma il fumetto originale di Maruo conserva una carica dissacrante che lo rende un ottimo esempio di manga abissale imbevuto di weirdness.
Maruo ha militato a lungo nella leggendaria Garo, la rivista nipponica votata al manga sperimentale che ha tra i suoi esponenti colossi del gekiga come Yoshiro Tatsumi ma anche un folle devastato come Usamaru Furuya, il quale dalla fine degli anni Novanta in poi ha spinto l’acceleratore sul surrealismo deflagrato di Maruo producendo robe come Litchi De Hikari Club, Short Cuts e Genkaku Picasso; muovendosi dalle mattanze grandguignolesche allo shonen sperimentale, Furuya dimostra come weird ed eerie si rimescolino perfettamente oltre i canoni di genere. E la massima dimostrazione in tal senso, arriva senz’altro dall’opera di due figure come Shintaro Kago e Tetsunori Tawaraya.
Weird & Eerie Remix
Apparso sulle scene alla fine degli anni Ottanta ma diventato solo nei Duemila un culto internazionale (quest’anno è stato anche tra gli ospiti d’onore di Lucca Comics), Shintaro Kago è riuscito nell’immane compito di spostare il guro dal sotterraneo più lercio al pubblico più vasto, riempiendolo di colori fluo e ragazzine che vomitano tenie. Da VICE a Flying Lotus, sono ormai in tanti ad aver eletto Kago a rappresentante pop del genere più underground del Giappone, vicino solo a certe derive incestuose dell’hentai.
Kago è il grande smolecolatore che parcellizza i corpi e gioca tantissimo con il genere: in Fraction sbudella il mistery e il POV dei protagonisti, così come in Anamorphosis il giallo diventa un espediente per giocare con colpi di scena e ribaltamento; ma il suo grande merito è l’esser riuscito ad inserire mazzate grafiche di weird estremo rendendole funzionali al racconto, sperimentando e sporzionando gli spazi inclassificabili dell’eerie e creando un’estetica esasperata che qualche temerario ha definito «fashionable paranoia». Kago adora ribaltare e sfondare ogni parete della credulità andando oltre il formato-fumetto, creando una sua dimensione di spaesamento sanguinolento estremamente divertente. La sua produzione è vasta e ricchissima, in Italia sta arrivando quasi tutto quindi va esperito assolutamente, per affacciarsi sull’abisso del guro provando quel misto lacaniano di repulsione e fascinazione estrema.
L’estremizzazione del concetto di perturbante e il suo superamento nella dicotomia weird/eerie di Fisher è senza dubbio il tuffarsi senza braccioli di Tetsupendium Tawarapedia, la raccolta di Tetsunori Tawaraya recentemente edita da Hollow Press; nella prefazione al volume, Cameron Hatheway definisce Tawaraya un «Salvador Dalì se fosse stato un punk rocker», ma va detto che l’autore giapponese va ben oltre il surrealismo per affacciarsi nella biologia sconosciuta e nelle geometrie non euclidee di Lovecraft, e lì osservare l’Altro dal punto di vista dell’Altro senza neppure una mappa canonica del fumetto, privo com’è di baloon e segnato da una consecutio temporum presa a randellate. Tawaraya è l’abisso oltre la forma e lo stile, trasposizione di incubi senza alcuna geografia della Zona. Neanche si dovrebbe parlare di manga horror ma di un suo superamento estremo, pur se i connotati del genere restano in non-storie come Seven Eyed God Castaway.
Il concetto di manga abissale sia ancora in pieno sviluppo, ma le sue estensioni tentacolari stanno lentamente divorando l’immaginario di ogni cosa partendo dal sottosuolo. Non dubito che un nuovo Necronomicon potrebbe arrivare a breve ma non in pelle umana e scritto da un arabo impazzito. Semmai, potrebbe avere la forma di un tankobon venduto negli scaffali della fumetteria vicino casa. Quella con le vetrine oscurate.