La grande depressione
Questo articolo tratta di depressione e di persone che oggi hanno 25 anni (non fa molta differenza se poco meno o poco più). Non intendiamo di certo parlare di venticinquenni depressi, bensì del fatto che alcune persone sono depresse proprio perché si ritrovano nella impossibile condizione di avere 25 anni nel 2020, nell’anno cioè che ancora più smaccatamente di altri segnala l’inizio della fine dei tempi. L’epidemia di una forma acuta di depressione generazionale sarà l’oggetto della nostra indagine; qualunque cosa significhi la parola depressione. Ci siamo infatti ritrovati in imbarazzo sul termine da usare. Non ci sembrava che la parola depressione fosse la più adeguata, la più precisa per indicare la nostra condizione; eppure non ne abbiamo trovata una migliore. L’uso che ne faremo nelle righe che seguono non ha certamente natura tecnica né tantomeno avremo interesse a considerarne tutte le implicazioni cliniche e psicopatologiche. Piuttosto, ci serviremo di questa parola per riferirci al sentire diffuso, pervasivo, atmosferico che ha contaminato la vita psichica e affettiva di molti appartenenti alla nostra generazione. Prima di procedere alla vera e propria analisi di quelle che ci sembrano le cause e le modalità di questa depressione generazionale, ci sembra utile mostrare alcuni dei tanti possibili esempi della «sintomatologia» che ci ha investito in prima persona.
Io sono Lorenzo. Mi sento paralizzato su un progetto di tesi che stento a portare avanti non riuscendo a rintracciare il senso di questa mia attività. Nel corso del tempo il peso che nella mia vita hanno assunto le relazioni affettive con i miei amici è cresciuto esponenzialmente. Con loro si è instaurato un rapporto di cura reciproco che mi rendo conto si basi essenzialmente sulla condivisione di un comune stato di sofferenza.
Io, Jacopo, avverto come un macigno sulle spalle il peso dell’atrofizzazione delle mie possibilità future. Ho paura che la mia laurea umanistica sia inutile, la via della ricerca all’interno dell’accademia mi sembra sempre più impervia e avvilente, e la condizione di autonomia materiale (lavorativa, abitativa ecc.) che mi traghetti finalmente fuori dalla condizione di figlio ha la consistenza di un miraggio. La sertralina non ha alcuna presa su questo tipo di angoscia.
No Future
Se estendiamo il focus al dominio generazionale, possiamo cogliere alcuni tratti precipui e persino definitori di questa cappa depressiva che ostruisce il respiro di tanti coetanei. Ci sembra, infatti, che un simile sentimento diffuso sia l’epifenomeno di un’alterazione ben più ampia e ben più impalpabile. Una delle condizioni patogene principali che finisce per produrre la depressione generazionale di cui parliamo consiste in un tipo di disturbo socio-temporale. A essere drammaticamente mutata è la percezione (su una scala di massa, non necessariamente individuale) del tempo, in particolare del tempo che viene. Recentemente, dunque, la modalità socialmente condivisa di relazionarsi al tempo ha subìto un brusco deterioramento. Tanto che possiamo dire che uno dei fattori scatenanti della depressione che viviamo in quanto venticinquenni è da rintracciarsi proprio in un disordine del modo sociale di temporalizzazione. In cosa consiste precisamente questa alterazione? Rispondendo seccamente: nella cancellazione del futuro. Il futuro semplicemente non c’è più, è stato socialmente abolito in quanto orizzonte di possibilità. Questa non è un’idea nuova, è piuttosto un fenomeno più volte rilevato dagli artisti e dagli intellettuali che più acutamente hanno preconizzato le tendenze socioculturali degli ultimi cinquant’anni. Tra tutti Franco Berardi «Bifo», nel suo Dopo il Futuro, ha tematizzato la «lenta cancellazione del futuro che si è verificata negli anni Settanta e Ottanta»:
Ma quando dico futuro non mi riferisco alla direzione del tempo. Penso piuttosto alla percezione psicologica che emerge dalla situazione culturale di progressiva modernità, alle aspettative culturali elaborate nel lungo arco della civiltà moderna, che hanno raggiunto il loro picco dopo la Seconda guerra mondiale. Queste aspettative si sono formate nel quadro concettuale di uno sviluppo in continuo progresso, per quanto attraverso metodologie diverse: la mitologia hegel-marxiana dell’Aufhebung e la rifondazione della nuova totalità del comunismo, la mitologia borghese di uno sviluppo lineare della democrazia e dei servizi sociali, la mitologia tecnocratica del potere onnipotente della conoscenza scientifica, e così via.
L’accento è qui posto sulla percezione della situazione culturale. Lo stesso Mark Fisher in Spettri della Mia Vita ha ragionato diffusamente sulle spie culturali dell’abolizione del futuro: «Il tempo culturale si è ripiegato su se stesso, e la sensazione di sviluppo lineare ha ceduto il passo a una bizzarra simultaneità». Secondo Fisher l’infruttuosità della produzione culturale attuale è spiegabile sulla base della nostalgia strutturale che accomuna le forme contemporanee di creatività, finendo per schiacciarle sotto il peso della dipendenza stilistica nei confronti della cultura novecentesca. In altre parole, la cultura, l’immaginazione sociale del presente ha perso la capacità di immaginare il futuro e persino di articolare il presente. Nello stesso testo Fisher abbozza un’illustrazione delle cause di un simile mutamento, iniziato da circa quarant’anni a questa parte:
In Gran Bretagna l’elezione di Margaret Thatcher ha messo fine ai precari compromessi del cosiddetto consenso sociale postbellico. Il programma politico neoliberale della Thatcher è stato supportato da una ristrutturazione transnazionale dell’economia capitalistica. Il passaggio al cosiddetto post-fordismo – con la globalizzazione, l’onnipresente computerizzazione e la precarizzazione del lavoro – ha prodotto una completa trasformazione del modo in cui in precedenza erano organizzati lavoro e tempo libero. Negli ultimi dieci o quindici anni, intanto, internet e le tecnologie di telecomunicazioni mobili hanno completamente modificato la trama dell’esperienza quotidiana.
Ad ogni modo, che si assuma una prospettiva culturale o generazionale, il nocciolo di questa analisi serve a chiarire che il tempo presente «è oppresso da un soffocante senso di finitezza e sfinimento» e che «la lenta cancellazione del futuro si è accompagnata a un ridimensionamento delle aspettative». Ora, si comprendono abbastanza intuitivamente i motivi per cui la soppressione del tempo futuro e la conseguente degradazione delle prospettive possibili degeneri in un’atmosfera depressiva presso la nostra generazione. È interessante notare che, al contrario di altre malattie epidemiche, questa particolare forma di depressione colpisce più aggressivamente i più giovani – non a caso Fisher, in Realismo capitalista, si spinge ad affermare che «[nell’epoca] tardo capitalista, il solo essere giovani rischia di equivalere a una forma di malattia». A venticinque anni, infatti, devi avere dei piani, devi sviluppare dei progetti, calibrare le scelte in modo lungimirante, devi innanzitutto spenderti per porre le condizioni materiali del tuo futuro. Del fatto che quest’ultimo sia stato cancellato non sembra importare molto a nessuno. In altre parole, alla nostra generazione è socialmente richiesto (a mezzo di una pressione non indifferente) di infuturarsi, protraendosi estaticamente verso un avvenire che è ormai deperito. Da questo scacco segue la depressione.
Un solo esempio dal carattere aneddotico fra i tanti possibili: non vi pare che la laurea online e l’adattamento del rituale alle esigenze imposte da Zoom sia la rappresentazione plastica dello iato che c’è tra la progettualità infuturante (dettata dalla liturgia di iniziazione al lavoro salariato e alla ricerca di impiego) e la catastrofe che ci circonda? Nell’insensata vestizione a festa del laureando e della sua famiglia, tutti confinati in casa per contribuire al rallentamento del collasso sanitario, non si trova forse segno di quella disperata, per certi versi inevitabile, caparbietà con cui si finge che il mondo non stia bruciando?
Inoltre, vi è un’ulteriore ragione che spiega l’acutizzarsi, oggi, di questo sentire generazionale. Rilevare questo fenomeno significa integrare la diagnosi di Bifo e Mark Fisher: la «lenta cancellazione del futuro» non è lenta. È veloce ed è già qui tra noi. Di conseguenza, sarebbe ormai del tutto obsoleto riferirsi alla produzione culturale della nostra epoca per individuare le manifestazioni collaterali della nostra relazione con l’orizzonte futuro. Quest’ultima ha ormai assunto in tutto e per tutto un carattere apocalittico, e ha ora effetti molto più evidenti. La prospettiva della fine dei tempi, nel 2020, è più che mai attuale. La catastrofe (ambientale, pandemica, economica, occupazionale) non è più un evento che abita l’inconscio collettivo e individuale. È al contrario una possibilità cosciente: un evento che è compiutamente passato nella coscienza collettiva (o al limite nel pre-conscio di tutti noi). L’abolizione del futuro, in quanto processo o sequenza di eventi, ha abbandonato la latenza ed è diventata un fenomeno pienamente attuale. Il suo statuto ontologico non ha più nulla a che vedere con la virtualità, è un evento realizzato. Il futuro, a meno di inventarselo ex novo, non c’è più e ad avvertire più crudamente tutto ciò siamo noi.
Competere Stanca
Il futuro non c’è più: questo non ci pare un assunto discutibile. Quali sono invece le condizioni socio-economiche, preesistenti la pandemia e l’esplosione definitiva della catastrofe ecologica in atto, che rendono avvilente la prospettiva di un’intera generazione? Per chi, privilegiato come noi, ha avuto la possibilità di effettuare studi universitari i 25 anni segnano un’età di soglia: quella dell’imminente confronto con il «mondo del lavoro». Peccato che anche questo costituisca un efficacissimo vettore di depressione.
Byung-Chul Han nel suo testo eloquentemente intitolato La società della stanchezza tratta degli effetti devastanti che l’imperativo della prestazione a tutti i costi produce sulla psiche collettiva contemporanea. Secondo la sua analisi, infatti, il paradigma della società odierna non è principalmente di tipo disciplinare (ovvero basato sull’interdizione della legge); Han pone invece l’accento sulla libera autorealizzazione personale. Questo venir meno di un’istanza di dominio esterna fa sì per Han «che libertà e costrizione coincidano». Al posto di una costrizione esterna subentra un’autocostrizione, uno sfruttamento di se stessi che «si accompagna al sentimento della libertà». Questo mutamento di paradigma permette al capitalismo di essere più efficiente: la produzione aumenta al costo di un esaurimento nervoso generalizzato. A tal proposito Han scrive:
L’obbligo prestazionale costringe [ogni individuo] a realizzare sempre più prestazioni, così che egli non giunge mai allo stadio tranquillizzante della gratificazione. Il soggetto vive permanentemente in un sentimento di mancanza e di colpa. Poiché, da ultimo, fa concorrenza a se stesso, cerca di superare se stesso, finché non crolla. Subisce un collasso psichico, chiamato burnout. Il soggetto di prestazione si realizza fin nella morte. Autorealizzazione e autodistruzione qui coincidono.
Han inoltre afferma che «il lamento dell’individuo depresso “niente è possibile” è possibile soltanto in una società che ritenga che “niente è impossibile”». Un simile slogan si concretizza nel momento in cui il dominio della competizione, che non riguarda più solo il confronto con gli altri ma in primo luogo invece la continua tendenza a superare se stessi, si fa assoluto. La depressione stanca e sfinita che ne deriva non può a sua volta generare altro che solitudine: essa distrugge «ogni unione, ogni comunanza, ogni prossimità, perfino ogni linguaggio».
Come siamo finiti in questa impasse? Quali sono le possibilità che abbiamo per uscirne? Bifo, nel suo testo L’anima al lavoro, ci fornisce degli utili strumenti per cercare di dirimere la questione. Bifo afferma che se per la classe operaia era possibile rifiutare il lavoro, in quanto «le otto ore di prestazione salariate [erano concepite come] una specie di morte temporanea dalla quale ci si risvegliava solo quando suonava la sirena di fine orario», per i lavoratori cognitivi, ovvero coloro la cui messa a valore riguarda più l’energia mentale che fisica, compiere questa operazione di estraneità al lavoro è molto più difficile. È più difficile perché i lavoratori cognitivi «tendono a considerare il lavoro come la parte più essenziale della loro vita, la parte più singolare e più personalizzata. […] Tendono a considerare il lavoro come l’impresa a cui dedicare le migliori energie. […] L’impresa tende a essere il nucleo intorno a cui si addensa il desiderio».
Perché però il desiderio è appiattito esclusivamente sul lavoro? Perché abbiamo una vita di merda. E ciò costituisce sia la causa che l’effetto di questo investimento libidico sul lavoro. Bifo scrive:
La comunità sociale urbana ha perso progressivamente interesse, e si è ridotta a un involucro morto di relazioni senza umanità e senza piacere. La sessualità e la convivialità sono state progressivamente trasformate in meccanismi standardizzati omologati e mercificati, e al piacere singolare del corpo è stato progressivamente sostituito il bisogno ansiogeno di identità. La qualità dell’esistenza si deteriora dal punto di vista affettivo e psichico in conseguenza della rarefazione del legame comunitario.
La nostra vita fa schifo? Benissimo. Siamo proprio sicuri che serva ancora a qualcosa riporre le nostre migliori energie mentali, desideri e speranze nella costruzione di un personale, faticoso avvenire lavorativo? Quella speranza illusoria che i nostri sforzi saranno in futuro gratificati, che il nostro desiderio infinito si realizzi finalmente in piacere non c’è più. Il futuro non c’è più. Non ci resta quindi che rifiutare il principio della competizione che ha contribuito in modo determinante a fondare le basi del sistema capitalistico, il quale ha distrutto irreversibilmente il mondo e ci ha condannati alla depressione. Ci risuona in testa la domanda retorica che Bifo si pone in Heroes: «Forse ci sarà un rapporto tra questo incredibile incremento della propensione a farla finita e il trionfo del neoliberismo che implica precarietà e competizione obbligatoria?».
Stanchezza e Resistenza
Ad ogni modo bisogna ammettere che se quando usiamo il termine depressione non pretendiamo di riferirci ad una voce del DSM-V, è altrettanto vero che non intendiamo trattarla come una posizione filosofica. Sempre Fisher giunse a dire che «la depressione non è una forma di tristezza, e neppure uno stato d’animo, [ma] è una (dis)posizione (neuro)filosofica». Cosa vuol dire considerare la depressione come una posizione filosofica? Vuol dire in buona sostanza ritenerla una teoria. «La depressione, dopotutto e soprattutto, è una teoria sul mondo e sulla vita» afferma Fisher. Essa si risolverebbe dunque in una postura teorica a partire dalla quale si guarda al mondo, e in quanto tale pretende di cogliere la verità ultima delle cose. Secondo questa visione, la persona depressa si esprimerebbe «in materia di vita e di desideri» smontandone in modo disincantato le illusioni congenite. Le storture e gli orrori della vita in società sono esibiti, da parte del depresso, «come reperti giudiziari di un processo al mondo e alla vita dove il verdetto è talmente inoppugnabile, talmente schiacciante da rendere superfluo qualsiasi appello a una specifica istanza». In questo modo la depressione assomiglia alla costruzione teorica sulla scorta della quale si costruisce a posteriori il processo alla realtà.
Simili conclusioni vengono tratte dalle prospettive che cercano di dare priorità al valore epistemico della depressione. Diversi autori, il più delle volte ascrivibili alla corrente del pessimismo filosofico, si sono impegnati nella descrizione della depressione come un atteggiamento (filosofico) dalla vocazione intrinsecamente realista. Attraverso le lenti del cosiddetto «realismo depressivo» la realtà verrebbe colta in modo più esatto, al di là delle illusioni che la velano.
Tuttavia, noi pensiamo che inquadrare la depressione come un problema politico implichi l’esigenza di discostarsi da simili analisi, forse alle volte persino morbosamente compiaciute ed estetizzanti. Sebbene, cioè, possiamo convenire sull’utilità di un esercizio controllato della disperazione (intesa piuttosto letteralmente come la condizione di chi non coltiva vacue speranze e punta lo sguardo dritto dentro all’abisso), non crediamo che sia proficuo intendere la depressione come una teoria. E questo perché l’aggettivo depressivo non qualifica le lenti attraverso cui guardiamo il mondo, bensì descrive il mondo stesso. È il mondo a essere deprimente. O meglio, sono certe configurazioni sociali (o socio-economiche) a rendere incredibilmente pesante l’esistenza di intere forme di vita o di intere generazioni. Bifo, nel suo ricordo di Mark Fisher, afferma: «Nessuno è depresso perché si rende conto che non c’è via di uscita dalla trappola. Questa è la disperazione, non depressione. E la disperazione è una condizione dell’intelletto, non del cuore, non del corpo».
Se il mondo è depressivo lo è perché ci rende soli, quindi inevitabilmente infelici. Alla tesi del pessimista, secondo la quale il «realismo depressivo» renderebbe evidente una volta per tutte l’illusorietà del senso della vita, siamo sempre in tempo a opporre un senso contingente che si fondi sul piacere di un’esistenza condivisa con gli altri, ricca di esperienze e occasioni di gioia. L’infelicità e la sofferenza psichica sono condizioni dolorose, molto spesso intollerabili, che occorre trasformare, ribaltare.
La depressione è in fondo una questione politica poiché è la competizione a esserlo a sua volta. Forse il primo passo che dobbiamo compiere per liberarci dell’esaurimento che ci sfianca è quello di disinvestire ogni nostra energia psichica che, non importa se in modo esplicito o implicito, faccia ancora riferimento al deleterio paradigma competitivo che evidentemente non può che produrre devastazioni sia sul versante del mondo esterno che in quello delle possibilità di godimento che ogni persona ha nell’essere al mondo. Han, in conclusione al già citato testo La società della stanchezza, arriva a dividere quest’ultima in due tipi tra loro opposti: se la stanchezza intesa come esaurimento rende «incapaci di fare qualcosa», da essa può nascere però una «stanchezza profonda, che ispira» e rende perciò possibile un rifiuto attivo delle condizioni che ci condannano alla depressione. Sentirsi buoni a nulla all’interno di una società sbagliata e feroce può significare opporle resistenza, può essere dunque il punto di partenza per la costruzione di una vita migliore. Questa stanchezza resistente può essere il mezzo attraverso cui convertire la giusta disperazione del nostro intelletto. L’essere stanchi-di questo mondo per com’è può consentirci di sperare che le nostre esistenze insieme possano trovare il modo di invertire quella rotta che sembra condurci inesorabilmente verso tempi bui e solitari. Concordiamo dunque con Han, secondo il quale abbiamo un compito che ci si pone innanzi con sempre maggior urgenza: «Oggi siamo chiamati a profanare il lavoro, la produzione, il capitale, dobbiamo profanare il tempo di lavoro e trasformarlo nel tempo del gioco e della festa».