Surrealismo alla Sertralina
Ispirato alla figura dell’artista Claude Cahun, Sertraline Surrealism è il titolo di un racconto del 2016 scritto da Juliet Jacques per Smarginature, la serie di eventi curata da Daniela Cascella e Natasha Soobramanien alla Lydgalleriet di Bergen. Ne pubblichiamo la traduzione italiana in occasione di Fiction, Memoir, Performance, la giornata di lecture, screening e dibattiti con protagonista la stessa Juliet Jacques, che si terrà il 26 aprile presso AlbumArte a Roma. Tutte le informazioni sull’appuntamento qui. Ringraziamo l’autrice e la curatrice Manuela Pacella per la disponibilità.
Da qualche parte ho letto che i poeti romantici erano soliti mangiare carne avariata prima di andare a dormire, per avere sogni più intensi. Non riesco a ricordare dove – memorizzo sempre fatti e citazioni ma mai dove li ho visti. Potrebbe essere stato in quel saggio dove Hugh Sykes Davies sostiene che il Surrealismo, piuttosto che essere un nuovo e audace movimento – o persino una fusione di Dada, psicoanalisi freudiana e marxismo rivoluzionario – fosse in realtà una continuazione di Shelley, Byron, Coleridge e compagnia, rendendolo tradizionale e domestico, ma probabilmente no.
Non importa: ho la Sertralina.
«I sogni anormali» sono inseriti tra gli «effetti [collaterali] non comuni»: solamente lo 0,1-1% dei consumatori ne soffre, ma io faccio parte di quella minoranza. Ho provato di tutto per gestire la mia depressione – politica radicale, psicoterapia, riassegnazione di genere, lettura e scrittura – ma niente ha funzionato. A 34 anni, con il mio primo libro alle spalle – un libro di memorie, che ha portato catarsi, ma anche lo stress su come rappresentare me stessa e la «comunità transgender» –, sentivo di non avere alcuna altra opzione che gli SSRI.
L’effetto che avrebbe avuto su di me si è rivelato entro poche settimane. Le cose che un tempo mi procuravano panico ora sembravano gestibili; la futilità della vita ora appariva come qualcosa che potevo affrontare in modo creativo, piuttosto che vedere con disperazione. Per anni ho avuto il timore che i miei problemi di salute mentale e gli impulsi artistici fossero intrinsecamente legati – un precetto alimentato dalla lettura dei romantici con la loro fissazione sul genio negletto così come da Nadja di Breton, René Crevel e altri surrealisti, con la loro celebrazione della bellezza convulsa, ma non da Claude Cahun – non ho incontrato il suo nome, o quello di altre donne surrealiste che avevano modellato il loro mondo per se stesse, se non molto tempo dopo. Le mie ansie si sono dissipate quando ho scoperto quanto fosse più semplice scrivere con una mente più serena. Ma, mentre la droga prendeva il sopravvento, la mia frenetica attività neurale si manifestava in visioni addormentate, che sembravano più reali di qualsiasi altra cosa accadeva nella mia vita da sveglia.
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Sono fuori dalla Pitié-Salpêtrière nel 13° arrondissement di Parigi. Dopo mesi di conversazioni online incontrerò N. per la prima volta. N. traduce la targa commemorativa sul lavoro di Jean-Martin Charcot sull’ipnosi e sull’isteria in un linguaggio che capisco; mi prendo un momento per pensare a quelle donne e a cosa potrebbe averle spinte a una tale condizione, prima di andare in giardino. Su una panchina è seduta una donna bionda. Una lettrice di tarocchi mostra le sue carte. Voglio vederle ma, avvicinandomi, le immagini si trasformano in ologrammi d’argento. Chiedo una lettura ma nessuno mi presta attenzione e N. mi guida all’interno della chiesa.
Cerco Charcot, ma non può essere trovato. Le donne isteriche si allineano lungo i banchi, ridendo spasmodicamente mentre io e N. risaliamo il corridoio in abiti abbinati, camicie bianche con cravatte nere e gonne lunghe, bianche e stringate con sottovesti. Quando raggiungiamo l’altare e posiamo per alcune fotografie, [le donne] si inginocchiano. Le statue dei santi le dicono di chiedere a noi una cura – a me e a N. La congregazione sta in piedi e marcia verso di noi: io e N. corriamo attraverso il parco in una rete di tunnel abbandonati sotto l’ospedale. Leggo i graffiti – gli slogan del Front National e gli adesivi antifascisti – prima di arrivare in un edificio disabitato, dalle finestre distrutte.
Entriamo nel corridoio attraverso una porta rossa con sopra la scritta Joyeux noël imbrattata di vernice bianca. Vediamo la Creazione di Adamo di Michelangelo, ma Dio ha il seno e un pene. Lei/lui [nel testo originale: S/he, NdT] tocca una donna nuda – «Adam?» – con la punta del dito. Sono circondati da volti che sembrano familiari, ma non li riconosco: forse sono Artaud, Breton, Péret, Soupault, et al. È datato 3 ottobre 1999, il giorno in cui ho compiuto diciotto anni, ma sembra che l’edificio sia stato dismesso molto prima della fine del 20° secolo. Claude Cahun non ha scritto che «l’anno 2000» sarebbe stato «la fine del mondo?» Mi ricordo del Millennium Bug, che è passato senza incidenti, e degli eventi apocalittici a New York, ventun mesi dopo, e di tutto quello che ne è seguito.
Successivamente vediamo due sale da pranzo. Quella a sinistra è dipinta di bianco, ha le pareti spoglie e le finestre sbarrate: deve essere stata la sala per i pazienti. La stanza di destra è invece color giallo senape, con Klimt e Courbet in bella mostra, la finestra che guarda il parco e l’ospedale in lontananza. Entrambe le sale sono allestite per la cena di Natale, con belle porcellane e posate su tovaglie incontaminate, con cracker [tradizionali segnaposto britannici, NdT] e decorazioni, ma non c’è nessuno.
Snervate, torniamo nel corridoio. Il murale è sparito. Rimane solamente la data: 18 luglio 2012, il giorno dell’intervento di riassegnazione del mio sesso. Un uomo severo con i capelli bianchi e le sopracciglia folte mi afferra. Non ti appartiene, dice. Neutro è l’unico genere che mi si addice sempre, rispondo, prima che N. chieda, pensavo che tu preferissi usare pronomi femminili [in inglese si gioca sui pronomi «she» e «her», NdT]. Si scaglia contro N. Prendo la mano di N. e la osservo mentre svanisce nel nulla. La tua voce è maschile, insiste. Come fai a saperlo? Mi spoglia e poi mi infila un ago nel seno sinistro. Mentre un gruppo di uomini – medici o psichiatri – irrompe dalla porta e mi trascina fuori, mi sveglio, sudando.
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ME: Quel sogno. Non è reale.
N: Certo che non lo è. Il simbolismo è troppo comodo.
ME: No, voglio dire, è accaduto davvero.
N: Sciocchezze.
ME: Mi hai portato alla Salpêtrière e mi hai parlato di Charcot. Lo scorso autunno. È stata un’esperienza da sogno, certo, ma siamo davvero andate all’ospedale e alla chiesa e, attraverso quei tunnel, verso quell’edificio abbandonato.
N: Forse, ma io sono un insieme composito di molti dei tuoi amici, hai cambiato molti dettagli e nessuna di quelle persone era lì.
ME: Forse le ho sognate.
N: No, le hai scritte.
ME: Che cosa è la scrittura, se non un sogno lucido?
N: Ma quando scrivi, hai completo controllo.
ME: È vero che creo personaggi e costruisco per loro delle situazioni, spesso attingendo alla «vita reale»… Successivamente, però, non so mai cosa potrà accadere. Se lo sapessi, non avrei alcun interesse a scriverne. A volte fanno cose che non mi aspetto o che trovo addirittura aberranti. Non è proprio la stessa cosa di un sogno normale in cui sei spettatore in uno scenario che il tuo stesso subconscio ti ha gettato addosso, lo ammetto. Per un periodo, anni fa, ho avuto sogni lucidi. Non sono mai durati a lungo, forse solo pochi secondi. Ma a un certo punto sapevo di essere in un sogno e di poter prendere decisioni. Se fosse stato un incubo, avrei potuto svegliarmi.
N: Ne hai tenuto traccia in un diario?
ME: Solo occasionalmente. Sentivo che scriverli li avrebbe alterati. Potrei ricordarli male, abbellirli o persino influenzarli in anticipo.
N: Ti sono piaciuti?
ME: Sì – il mio lavoro all’epoca era insopportabilmente noioso, per cui questa era la migliore forma di evasione.
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Mi sono sempre annoiata facilmente, anche da bambina – specialmente da bambina – quindi cercavo di rendere più accattivante la banalità della periferia in cui vivevo. Qualsiasi cosa avesse contribuito a creare quel mondo mi interessava: i videogiochi; la musica; i film; i romanzi. Tutto ciò che consumavo formava sedimenti nella mia mente e diventò impossibile dire poi cosa fosse divenuto pietra angolare e cosa, invece, evaporò. Sapevo che Dada, il Surrealismo, il Futurismo, la teoria transgender e l’esperienza vissuta erano importanti per me, mentre il Romanticismo, il razionalismo e la religione non lo erano – ma niente ha trasformato i miei giorni in qualcosa di trascendente, o sollevato i miei sogni al di sopra dei miei pensieri di ansia e frustrazione.
A poco a poco mi resi conto che essere un’artista trascurata o una bellezza convulsa non era quello che mi era stato fatto credere. I numerosi rifiuti potrebbero non essere stati perché ero in anticipo sui miei tempi, ma perché non ero abbastanza brava; essere desiderabile agli uomini attratti da donne transgender di solito comportava oggettificazioni o molestie. Prima di compiere trent’anni, tutto questo mi aveva logorato così tanto che chiesi al mio medico generico un antidepressivo e me ne andai con una prescrizione di 20 mg di Citalopram al giorno.
I pensieri suicidi diminuirono, così come i primi mal di testa e la nausea. Persi l’appetito e spesso mi sentivo esausta, ma ero terrorizzata dal dormire visto che avevo avuto incubi così orribili. Vecchi amici che mi ero alienata con il mio rifiuto di tollerare qualsiasi cosa pensassi mediocre, tornarono a rimproverarmi … disturbi vittoriani … isteria … elefantiasi … umiliazione pubblica per mano di un’amante … Al risveglio mi riorientavo, ma quando dormivo le linee tra sogno e realtà diventavano indistinguibili. Non era questo quello che volevo. Ho smesso il farmaco, il mio appetito è tornato, avevo più energia e i miei sogni si sono calmati. Ho deciso di provare di nuovo a gestire la mia depressione attraverso il mio mondo materiale – ma alla fine il ciclo mi ha riportato al mondo farmaceutico. Forse questa volta gli effetti collaterali sono più gestibili – o forse, cinque anni più grande, sono disposta ad accettare di più se noto un miglioramento generale.
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Rimanere sani di mente è il lavoro di una vita.
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Conoscevo il tuo nome, Claude, ma non avevo letto Disavowals (oppure Canceled Confessions) quando ho documentato la mia riassegnazione di genere. Se lo avessi fatto avrei forse visto dei parallelismi tra la tua dichiarazione che «neutro è l’unico genere che mi si addice sempre» e la mia conclusione che «ci sono tante identità di genere quante sono le persone; tutto è unico, tutto è costantemente esplorato in modi consci e inconsci». I miei articoli erano frammenti, anche se dovevano essere realisti, trasparenti come un vetro, scritti contro me stessa e la letteratura che amavo. A quanto pare, e in maniera appropriata, il tuo lavoro mi è arrivato in frammenti, un autoritratto obliquo in un volume di Queer Art and Culture qui, un assaggio del film Magic Mirror di Sarah Pucill, che ha trasformato passaggi e immagini da Disavowals in tableaux, lì.
Alla fine ho incontrato il tuo lavoro, nella sua totalità frantumata, quando un’amica di Jersey, che si è identificata con la tua sovversione dell’occupazione nazista locale, ha curato una mostra delle tue fotografie insieme a Magic Mirror e mi ha chiesto di parlare della tua scrittura. È stato difficile raccogliere i miei pensieri su qualcosa di così disparato: ho ammirato il fatto che potevi scrivere per te stessa e non piegare il tuo stile in qualcosa di vendibile (anche se il tuo background letterario ti ha liberato dalle preoccupazioni commerciali). Ma che dire di quel libro che hai assemblato per quasi un decennio ma che alla fine è stato pubblicato nel maggio del 1930, in un’edizione di cinquecento copie, che non è stato tradotto in inglese se non solamente nel 2007 – molto tempo dopo di quando ne avevo maggiormente bisogno?
Mi sono ritrovata di fronte a dieci sezioni, affiancate da collage di foto che mi hanno ricordato Hannah Höch, un misto di autoritratti, facce dall’aspetto familiare (Breton e i suoi amici?), frammenti di corpi femminili sconnessi e il mio preferito, la scacchiera sotto un’ombra inquietante che mi ha ricordato Dada, Duchamp, Sélavy. Molti erano intitolati con acronimi decifrabili solo a te, forse, ma uno si distingue: «Me stessa (per mancanza di qualcosa di meglio)».
Poi, d’improvviso, ti sei girata e allontanata da te stessa, avvolgendoti in una prosa-poesia metaforica, allontanandoti da quel patto autobiografico dando «False impressioni», prima di chiedere: «Esprimiti: umiliati? Sì, ma per la giusta ragione». Ma quali sono le ragioni giuste? È il narcisismo, la «non-cooperazione con Dio» e la «resistenza passiva» di cui hai scritto in maniera così netta, lacaniana prima di Lacan; la necessità di registrare la propria esistenza o soggettività prima di lasciare il palco? Era una consapevolezza che «il personale è politico» avant la lettre, e che documentare i tuoi giochi con il genere e l’identità avrebbe potuto ispirare altri a trasformarsi in opere d’arte? O semplicemente c’era così tanto dolore nell’essere ebrea, femmina e queer in un mondo antisemita, misogino e omofobico che dovevi levare queste parole e scagliarle contro qualcuno, anche se (come sapevi) non sarebbero stati tanti, almeno non durante la tua vita?
«Calpesta, questa carne della mia carne. Attingi al rimorso, pesa sulla mia memoria, sulla mia statua obesa, l’unico trampolino che non cede sotto di me». Questa frase: ho capito perché avresti cancellato le tue confessioni, l’incubo di trovarti in una posizione in cui i lettori, i critici, gli editori pretendono di rivelare di più per farli continuare a tornare, la speranza che la convalida esterna possa aggiustare ulteriormente il senso di auto retrocessione. Ti definiranno e poi non saprai come sei o dove sei. Ciononostante – non mi pento di aver messo la mia vita in una pagina e non ho la sensazione che tu l’abbia fatto.
Anche se non facevi esattamente parte del gruppo dei surrealisti che mi affascinava così tanto – e dato quanto fossero ostili a qualsiasi cosa che andasse oltre l’eterosessualità, e come le donne per loro fossero raramente qualcosa di più che oscuri oggetti di desiderio, posso capire perché – la tua scrittura e i tuoi autoritratti apparivano così fantasmagorici e risonanti da farmi sperare di esserci potute incontrare nell’occhio della notte.
Sono tornata a scuola, nel Surrey. Faccio sempre questo sogno ed è insostenibile. Non voglio essere qui e non ho bisogno di fare di nuovo i miei GCSE [General Certificate of Secondary Education, NdT]. Ciononostante attraverso il cancello, vado oltre il capannone delle biciclette e il campo da basket, oltre il parco giochi dove trascorro l’ora di pranzo tirando una pallina da tennis con indosso i miei pantaloni pruriginosi. Fisso il grattacielo di cinque piani e poi mi chiedo perché continuo a venire qui quando potrei semplicemente prendere il treno per Brighton e …
Entro nelle stanze d’Inglese e vado oltre la biblioteca. C’è un segnale: SALONE DEGLI ARTISTI. Chiunque viene visto lì verrà preso a calci in testa, credo, e poi decido che sono stufa di vedere le mie scelte dettate da una piccola banda di bulli, ed entro nervosamente.
Dietro la porta c’è una spiaggia, ed è notte. Alzo gli occhi sulle stelle e poi su due uomini che salgono su barche a vela. La barca a sinistra non ha nome; quella di destra, più piccola, ha un’iscrizione che recita «Onda dell’Oceano». Partono – mi tuffo nell’acqua per cercare di fermarli, ma una voce mi blocca, dicendomi di lasciare che completino le loro leggende. Mi giro: una persona è seduta da sola, una camicia a scacchi e una testa rasata. Mentre mi siedo e osservo gli uomini andare oltre l’orizzonte, dimentichi l’uno dell’altro, il mare si trasforma in uno specchio, e fissiamo i nostri riflessi – non riconoscibili né come maschile né come femminile.
CLAUDE: Ciao, sono Claude. Sono il tuo consulente del lavoro. Piacere di conoscerti. [Silenzio.] Cosa vuoi fare dopo aver lasciato la scuola?
ME: Diventare una donna.
CLAUDE: No – mi riferivo al lavoro.
ME: Non lo so… Be’, voglio essere una scrittrice. Tutti continuano a dirmi di lasciar perdere.
CLAUDE: Io scrivo. Ma non sono ossessionata dal diventare famosa.
ME: Sei fortunata.
CLAUDE: Hai detto che volevi diventare una donna. Scrivi di questo.
ME: Non ne sono sicura.
Claude estrae alcune carte dei tarocchi. Immagino che confermeranno se raggiungerò o meno il mio obiettivo, ma ancora una volta non riesco a vederle. Claude sorride e le rimette in una tasca della camicia. Guardo Claude, frustrata.
CLAUDE: Sarebbe noioso scrivere di qualcosa di cui già sai cosa sta per accadere. (Alzo le spalle.) Non è mai importante la destinazione: è il viaggio. Scrivi dei vestiti che indossi, delle etichette che dai a te stessa e il sesso che hai con persone di diversi generi o senza genere. Delle tue vittorie mutilate e delle tue coraggiose sconfitte. Dei sogni che hai e del corpo che abiti quando sei lì. Scrivi perché vuoi, e perché devi, non per quello che pensi possa darti. E mostralo alle persone solo se credi li libererà. O ti libererà.
Annuisco ed esco dalla stanza. Appena faccio un passo fuori la scuola si trasforma nell’ospedale in cui lavoravo come addetta alle pulizie quando avevo 16 anni. I reparti hanno il nome di città e villaggi del Surrey: Ashtead, Earlswood, Horley. Cammino lungo i corridoi sterili, ascoltando i suoni delle donne che urlano dalle singole stanze: i medici tirano le tende mentre passo.
Torno fuori. Invece del parco giochi e del campo da basket ci sono laghi e il palazzone è stato sostituito da un grandioso edificio vittoriano, con mattoni rossi e grandi finestre e pilastri, con un giardino perfettamente ordinato che vi ci conduce. Cammino lungo il sentiero per entrare e vedo Claude, seduta nella sala d’aspetto. Quando raggiungo la reception, un chirurgo mi porta in un laboratorio e mi inietta l’anestetico. Nel momento in cui mi addormento, mi sveglio.
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Neanche quello era un sogno vero. Né, naturalmente, era la realtà. Il simbolismo è troppo conveniente, era chiaramente un incontro che mi sarebbe piaciuto avere, quando non avevo modelli di possibilità nella vita o nella letteratura. Se fosse stato un sogno, dubito che il dialogo sarebbe stato così chiaro o memorabile – normalmente posso solo ricordare frammenti di dialogo, e quelli che hanno condiviso una stanza o un letto con me quando sono in questo stato mi riferiscono che o borbotto qualcosa di incomprensibile oppure articolo distintamente solo un paio di parole, di solito quelle che mi mettono in imbarazzo.
I sogni di Sertralina superano di gran lunga la normalità, perché divengo uno spettatore di lunghe conversazioni che si svolgono con amici e conoscenti, eroi e delinquenti, vivi e morti. Probabilmente accadono durante il sonno più profondo: un amico dice che i sogni lucidi sono uno stadio tra il sonno profondo e la veglia, e queste visioni sfuggono al mio controllo. A volte mi chiedo che cosa avrebbe fatto Charcot con loro; spero che Cahun mi avrebbe detto di abbracciarli e attingere a loro di giorno e di notte. Potrei dire a Claude che, anche quando sono da incubo, voglio trasformarli in poesia e prosa, come un’arma contro la realtà, o ciò che mi viene costantemente detto di accettare come «realtà» – di solito da parte di coloro che hanno investito di più nel sostenere il mondo così com’è.
Traduzione di Manuela Pacella (editing: Rachel Moland). In accordo con l’autrice la traduzione si «adatta» alla lingua italiana, forzando alcune importanti sottigliezze della lingua inglese e perdendo alcuni dettagli significativi, specialmente nella definizione dei generi.