Sophia Al-Maria, Liminal

Il Golfo è una profezia di quello che verrà

Distopie kitsch, Gulf Futurism e deserti-robot: ritorno al futuro apocalittico di Sophia Al-Maria

Pubblichiamo un estratto dal nuovo numero di Arabpop. Rivista di arti e letterature arabe contemporanee, ringraziando la redazione per la disponibilità.

Immaginare l’apocalisse è immaginare la fine di tutto o solo la fine del mondo come lo conosciamo? La definitiva scomparsa di corpi, parole, nazioni e memoria sarebbe una catastrofe spaventosa o l’unica via possibile per l’inizio di una nuova storia?

Nel suo Archaeologies of the Future (2005) Fredric Jameson sostiene che se è vero che non esiste idea concepibile dalla mente umana che non sia frutto di esperienza sensibile, allora persino le nostre fantasie più estreme non sono altro che un grande collage di elementi provenienti dal reale.

Come il Giappone per l’immaginario cyberpunk anni ’80, così l’odierno Medio Oriente incarna appieno l’idea occidentale di futuro, sostiene l’artista Sophia Al-Maria parlando di Gulf Futurism.

Crescita iper-accelerata e disomogenea, capitalismo estrattivo, corsa all’accaparramento delle risorse e ostilità dell’ambiente esterno (air-conditioned environments), ma anche strascichi postcoloniali, autoritarismi, conflitti: il Medio Oriente contemporaneo rappresenta un microcosmo che è allo stesso tempo realtà geopolitica specifica e specchio di tendenze e tensioni globali.

Apparsa per la prima volta al grande pubblico in un’intervista del 2012, l’idea di Gulf Futurism non solo ispira l’intero lavoro di Al-Maria, ma è parte integrante del suo immaginario sin da quando era adolescente.

Grattacieli e centri commerciali costantemente climatizzati come unici spazi vivibili, videogame e TV satellitare: «È cultura del consumo in un deserto robot. Il Golfo è una profezia di quello che verrà».

Coniato insieme all’amica musicista Fatima Al Qadiri, il concetto di Gulf Futurism si ispira alla quotidiana distopia della vita nei paesi del Golfo, una regione resa improvvisamente ricchissima dal petrolio, in cui infrastrutture ipermoderne e kitsch e norme sociali ultra-repressive creano uno spazio liminale unico al mondo.

«Uno dei modi di vivere più antichi di sempre si è scontrato tutt’a un tratto con il capitalismo e con questa ricchezza estrema: vetro e acciaio contro lana e cammelli. C’è stato un salto quantico che ha creato una bolla temporale. È come se le due cose fossero state cucite frettolosamente insieme e ci fosse un pezzo di storia mancante. L’idea di Gulf Futurism ha iniziato a prendere forma intorno a queste contraddizioni».

Cresciuta tra Qatar e Stati Uniti e ossessionata da anime, sci-fi e techno-dread, è nel lontano settembre 2008 che Al-Maria crea The Gaze of Sci-Fi Wahabi – A Theoretical Pulp Fiction and Serialized Videographic Adventure in the Arabian Gulf, blog in cui il suo cyber-alter ego SFW (Sci-Fi Wahabi, appunto) racconta con post e video la fulminante parabola verso l’apocalisse dei paesi del Golfo, «un’area del mondo che fornisce un’inquietante anteprima di futuri e presenti a lungo immaginati, in cui amore e morte passano per cellulari e fotocamere». Il wahhabismo rappresenta una versione particolarmente rigida e conservatrice dell’Islam che ha avuto ampia diffusione nelle petromonarchie della penisola arabica. Al-Maria sceglie ironicamente di accostare questo termine a sci-fi nell’intento di evidenziare l’assurdità di un presente in cui tendenze reazionarie e strutture ipertecnologiche convivono quotidianamente.

A causa della rigida separazione tra pubblico e privato, accettabile e proibito, reale e artificiale, e della pressione sociale che ne deriva, gli umani del Golfo sono già veterani della poliesistenza.

Questa condizione di base, unita al potenziale scatenato dall’accesso massivo alla tecnologia dei primi dispositivi mobili, ha creato un innesco esplosivo, sottolinea Al-Maria: «The jawal is the portal» il cellulare è l’ingresso.

Alla definitiva frattura tra reale e virtuale si aggiunge la previsione del collasso ambientale ormai prossimo: a differenza di altri futurismi non europei, il concetto di Gulf Futurism si fonda su presupposti estremamente pessimistici, tra cui le politiche estrattive neocoloniali messe in atto nel Golfo Persico, le profonde disuguaglianze che ne derivano e la distruzione di un ecosistema complesso e già ostile alla vita umana.

«È fantascienza? Sì. Ma è anche una storia d’amore al minuscolo e una catastrofe senza precedenti». 

Questa consapevolezza e un’attitudine molto emo – «extinction emo», come la definisce l’artista –, insieme agli anni di studi tra l’Università Americana del Cairo e la Goldsmiths di Londra, influenzeranno tutto il successivo lavoro artistico di Al-Maria a livello sia tematico che formale.

In un momento di rinnovato interesse, anche mainstream, per il genere fantascientifico, questo insieme di estetica hard sci-fi, contenuti audiovisivi e teoria critica non poteva passare inosservato: l’attenzione di media e istituzioni culturali è stata letteralmente calamitata dalla visione di Al-Maria sul futuro e su come la fantascienza possa contribuire a riscriverlo.

Ma quale futuro? E quale fantascienza?

«Ed eccomi di nuovo qui, nel bel mezzo della fine del mondo, a scrivere la mia opinione su questo futuro di cui tanto si sente parlare».

Al di là dell’ironia di qualsiasi discorso sul futuro in un momento in cui la fine del mondo non è mai sembrata così vicina, fantascienza e speculative fiction continuano a rappresentare un terreno di infinite possibilità. Scrittura e storytelling costituiscono tecniche ancestrali di elaborazione e conversione dell’immaginario in reale. «Cambiare percezione per cambiare memoria».

Il problema – sottolinea Al-Maria – è che nel canone occidentale di «buona storia» rientrano immancabilmente elementi di dramma, azione e violenza a cui anche molti autori di fantascienza hanno finito per fare abitualmente ricorso: «Tiratemi fuori da questa sequenza temporale… Se prendessimo esempio dalle strategie di adattamento delle altre creature terrestri sarebbero sicuramente tempi più folli e fantasiosi. Ed è questa la cosa fondamentale per me. Diversificare le storie che diffondiamo e seminare terreni sconosciuti».

Nel lavoro di Al-Maria immaginari interspecie (come in A Whale is a Whale is a Whale, 2014; Bitch Omega, 2020; The Future was Desert, 2016), ibridazione dei linguaggi, cross-cut e non-written literacy offrono il miglior tributo possibile alla scrittura cyborg di Donna Haraway, a The Carrier Bag Theory of Fiction di Ursula K. Le Guin e alla narrativa di Octavia Butler.

Al-Maria tende infatti a non a seguire un approccio lineare nelle sue opere, soprattutto video: articolando trame che si sviluppano simultaneamente in tempi e luoghi diversi e scegliendo di includere nel risultato finale elementi delle fasi di editing, ri-lettura e montaggio, l’artista rende il destinatario partecipe, in qualche modo, dell’intero processo.

Dal suo memoir fantasy-future del 2012 The Girl Who Fell to Earth al più recente Sad Sack (2019), dalle sceneggiature per la televisione e il cinema fino ai video e alla performance, ogni scelta di Al-Maria tende a evidenziare come linearità e antropocentrismo non solo non siano più in grado di rispecchiare presente e futuro, ma neanche di raccontare il passato.

Fedele alla propria intenzione di contenere e raccontare moltitudini, l’autrice combina nel proprio lavoro innumerevoli fonti, affiancando elementi personali o fantastici a fatti e dati scientifici, e sperimentando una serie di media differenti.

Ambientata sullo sfondo sci-fi di una battaglia solare e ispirata a The Arab Apocalypse (1989) della poetessa libanese Etel Adnan, la performance video Beast Type Song del 2019 sviscera i concetti di storytelling e fine del mondo, sottolineando la violenza intrinseca alla narrazione eroica, patriarcale e coloniale della storia e proponendo un linguaggio vivo, nuovo, mutante. Come i disegni di Adnan accompagnano la parola scritta quando quest’ultima non basta, da sola, a descrivere il reale, così corpo, simboli e musica creano un effetto intenzionalmente disarmonico nel lavoro di Al-Maria. Una sorta di live editing di un racconto corale, articolato su più linee spaziotemporali, in cui la danza di Tosh Basco e i momenti di monologo e lettura collettiva di Yumna Marwan ed Elizabeth Peace interagiscono ininterrottamente.

«Per il paradigma dominante la parola apocalisse coincide con rivoluzione». Malgrado la distanza da qualsiasi forma di tecno-ottimismo, il concetto di apocalisse non si connota negativamente nell’immaginario di Al-Maria: se può rappresentare la fine per i pochi che hanno tutto da perdere, al contrario apre un oceano di possibilità per il resto delle creature viventi. Cicli di morte e rinascita fanno parte della storia del mondo da sempre e l’idea di potersi dissolvere in molecole per assumere una nuova forma è un sollievo, una sorta di liberazione. 

«Forse a un certo punto realizzi che non c’è niente da possedere, piuttosto che niente da perdere».

I miti sulla creazione e sulla fine del mondo tendono a essere estremamente simili e, iper-genderizzati nella loro tragicità, costituiscono – e si nutrono di – pattern narrativi familiari e interiorizzati a livello collettivo. BCE, video installazione del 2019 realizzata in collaborazione con Victoria Sin, propone una cosmogonia inversa, in cui il racconto della fine è l’inizio. 

«Spero tanto che questo lavoro riesca a mostrare alle persone che viviamo in una molteplicità di narrazioni e linee temporali dissonanti e contraddittorie».