Il sinofuturismo è il nuovo tecno-orientalismo?

Come le fantasie hi-tech sul futuro della Cina rischiano di tradursi in una nuova forma di «esotismo inverso»

«La Cina è il futuro». Questa massima lapidaria, offerta con sicurezza da alcuni esperti, ricorrente nei media e dilagante nei dibattiti di geopolitica quotidiana, ha informato la mia scelta di quale lingua asiatica studiare durante il mio corso di laurea triennale. Quando mi sono spostato all’estero per portare avanti un master in Sinologia alla fine degli anni 2000, noi laureandi eravamo spronati – in maniera più o meno formale – a scegliere se concentrarci sulla Cina antica e su tematiche tradizionali, o sulla Cina contemporanea e su questioni più vicine al presente. Intuitivamente, la necessità di questa scelta sembrava avere senso, e io mi sono trovato a preferire la seconda, perlopiù per stanchezza da classicista. Studiare la Cina contemporanea mi avrebbe permesso di mettere a fuoco un periodo più o meno vago che partiva della «riforma e apertura» di fine anni Settanta, passando per l’entrata del paese nel WTO nel 2001, e che stava a significare, in linea di massima, una sincronizzazione imperfetta con il passo della modernità occidentale. Era una scelta entusiasmante, e liberatoria.

Per anni, durante il dottorato, ho continuato a inquadrare la mia ricerca sui media digitali cinesi usando come cornice temporale la contemporaneità, e ignorando scientemente le implicazioni problematiche di questo concetto. Se il termine contemporaneo definisce infatti una categoria ben precisa negli studi storici – spesso ancorata alla fine della seconda guerra mondiale – è raramente usato in altre discipline in riferimento a paesi europei o nordamericani. A meno di non precisare altrettanto, contesti nazionali come l’Italia o il Regno Unito sono comunemente sottintesi come contemporanei, mentre gli studi di contesti asiatici spesso enfatizzano esplicitamente la contemporaneità dei propri soggetti. Quello che può sembrare un cavillare terminologico su un’abitudine disciplinare poco discussa è, mi rendo conto solo ora, un problema di lungo corso riguardante l’inquadratura temporale della produzione di conoscenza sulla Cina e sull’Asia orientale in generale.

Il divario tra la Cina antica e quella contemporanea implica una temporalità terza, nascosta, che rimane in qualche modo al di fuori dei dibattiti disciplinari: il futuro. La relazione tra la Cina e il futuro, spesso tinta da speculazioni geopolitiche e prospettive economiche, era filtrata nella mia immaginazione attraverso le notizie sulla crescita economica del paese, la sua partecipazione in accordi internazionali, e l’accelerazione dei suoi avanzamenti tecnologici. La Cina era un mercato emergente da sfruttare, il mandarino diveniva la seconda lingua più usata su internet e, più in generale, il futuro sembrava dovesse essere cinese – qualunque cosa ciò significasse. Questo discorso molto diffuso riguardo la temporalità orientata al futuro della Cina (o sull’inevitabile marchio cinese sul futuro globale) può essere incapsulato da un termine piuttosto oscuro formulato da autori che lavoravano ai margini della filosofia e della fiction speculativa nei primi anni 2000: sinofuturismo.

Il primo uso documentato di questo termine appare in «Fei Ch’ien Rinse Out: Sino-Futurist Under-Currency», un saggio scritto nel 1998 dal musicista e teorico culturale Steve Goodman. Ispirandosi alle tattiche dell’afrofuturismo, Goodman combina riferimenti a tradizioni filosofiche cinesi, criminalità organizzata e network commerciali sotterranei con l’arrivo della cibernetica e delle tecnologie computazionali, proponendo «una cartografia oscura della turbolenta ascesa dell’Asia orientale». Questo immaginario sinofuturista enfatizza la «co-stratificazione» deleuzoguattariana di Oriente e Occidente, che è a sua volta esemplificata dalla convergenza di tecnologie della comunicazione e capitale globale. Goodman orbitava attorno alla Cybernetic Culture Research Unit (CCRU), un collettivo basato a Warwick, Regno Unito, che intorno alla fine del millennio portava avanti sperimentazioni al crocevia di culture underground e speculazione filosofica; accenni al sinofuturismo sono presenti in vari scritti dei membri del gruppo. In particolare, il saggio Collasso, scritto nel 1994 da Nick Land, contiene l’aforisma ur-sinofuturista «la Neo-Cina arriva dal futuro», mentre il libro Zeros + Ones di Sadie Plant è intriso di intuizioni Asia-futuriste:

Cinquecento anni di modernità svaniscono quando la tessitura di stuoie di bambù converge con la produzione di videogiochi sulle strade di Bangkok, Taipei e Shanghai. I collegamenti di silicio erano già lì.

Il sinofuturismo è una prospettiva allettante. In primo luogo, presagisce il superamento della distinzione arbitraria tra il passato della Cina antica e la sua modernizzazione contemporanea, promettendo di indirizzare la produzione di conoscenza sulla Repubblica Popolare Cinese verso il suo incerto futuro. In secondo luogo, il sinofuturismo sembra essere sufficientemente giustificato da tendenze storiche e sviluppi geopolitici: il consolidamento della Cina come superpotere mondiale, il suo massiccio processo di urbanizzazione che ha creato centinaia di centri urbani in pochi decenni, nonché i suoi successi nell’ambito di scienza e tecnologia, puntano tutti a un’innegabile futurità della RPC. Allo stesso tempo – un tempo principalmente euro-americano e anglocentrico, per essere precisi – il sinofuturismo si fonda su figure retoriche e modelli esplicativi che dovrebbero apparire sospetti agli osservatori che ben conoscono le genealogie della rappresentazione dell’Asia orientale e dell’Oriente in generale. 

Sotto la sua lucida patina di novità sci-fi e cyber-esotismo, il sinofuturismo compartecipa all’eredità problematica di un persistente discorso tecno-orientalista. 

Il tecno-orientalismo è un concetto originariamente formulato per descrivere l’emergere di un discorso occidentale sullo sviluppo tecnologico del Giappone tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, perfettamente riassunto nell’asserzione «il Giappone è divenuto sinonimo di tecnologie del futuro» (David Morley & Kevin Robins, Spaces of Identity). Tematiche tecno-orientaliste echeggiano in maniera sorprendente nelle rappresentazioni stereotipate di svariati paesi dell’Asia orientale: la dedizione «robotica» dei giapponesi al lavoro e alla dominazione mondiale, la loro inscrutabile cultura di autocensura e la loro abitudine di copiare senza rimorso, presentano tutte una minaccia alla morsa dell’Occidente sulla modernità. Morley e Robins riconoscono profeticamente che, dopo il Giappone, altre località dell’Asia orientale – prima le «quattro tigri asiatiche» (Singapore, Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong) e poi la Cina stessa – diventeranno probabilmente oggetto di rappresentazioni tecno-orientaliste, e la storia recente ha dimostrato quanto la loro intuizione fosse corretta. Come osservato da Wendy Hui Kyong Chun, un «orientalismo high tech» ha pervaso la maggior parte delle rappresentazioni dell’Asia Orientale nella cultura popolare, offrendo al soggetto occidentale moderno «un modo di orientarsi nel futuro, o di rappresentare più adeguatamente il futuro come qualcosa che si può negoziare».

Quando messo a confronto con la fondamentale critica dell’orientalismo formulata da Edward Said, diviene chiaro quanto il tecno-orientalismo – portando in primo piano la tecnologia a scapito della tradizione, e sostituendo il passato con il futuro – contribuisca a propagare simili immaginari. La tesi centrale di Said è che i resoconti occidentali sull’oriente neghino costantemente sia la legittimità che la possibilità di rappresentarsi da sé. Gli orientalisti operavano in parallelo con le imprese coloniali, immaginandosi partecipi di una missione dedita a recuperare il passato perduto dell’Oriente al fine di migliorarne la condizione – spesso soggiogata ed estrattiva – presente. In maniera simile, gli immaginari tecno-orientalisti invadono la formulazione di temporalità situate, e impongono le loro correlazioni tra tecnologia e futuro; ma allo stesso tempo, a differenza del suo antecedente coloniale, l’orientalismo high tech risponde a un’ansia fondamentale dell’Occidente riguardo la perdita – percepita o reale – del proprio primato civilizzatore. Tra skyline metropolitane e foschie tinte di luci al neon, i punti in comune tra sinofuturismo e tecno-orientalismo iniziano a trasparire, tradendo un meccanismo comune che sottostà al loro operare.

Nella sua polemica disciplinare Time and the Other, Johannes Fabian smantella spietatamente «l’uso schizogenico del tempo» fatto dall’antropologia, dimostrando come la produzione di conoscenza etnografica sia predicata su un distanziamento temporale dell’Altro. Una volta arrivati sul campo, gli antropologi occupano e personificano temporalità differenti dai loro informatori e, in maniera ancor più cruciale, la loro produzione testuale si basa su un dispositivo di distanziamento che Fabian chiama «diniego di coevità», il quale consiste in «una tendenza persistente e sistematica a collocare i referenti dell’antropologia in un Tempo altro dal presente del produttore di discorso antropologico». Il diniego di coevità permette all’antropologia di avvicinarsi al suo Altro come se questo abitasse una cultura delimitata temporalmente, che a sua volta funziona come «una specie di macchina del tempo» utile per indagini comparative ed evolutive. Ogni tipo di orientalismo presuppone un diniego di coevità, e il sostenere un re-radicamento del presente occidentale – indipendentemente dall’orientamento della rappresentazione temporale impiegata – è lo scopo principale di questo meccanismo.

Questa genealogia dell’othering (o rendere altro) temporale evidenzia come sia il sinofuturismo che il tecno-orientalismo siano non solo colpevoli di propagare fantasie esotiche sul futuro della Cina o di altri contesti asiatici, ma anche più generalmente responsabili di perpetuare un diniego di coevità. A differenza dei tradizionali tropi orientalisti e delle varietà più recenti di «orientalismo sinologico», la Cina non è più ritenuta intrappolata in un passato atemporale, né condannata a sincronizzarsi con la modernità: al contrario, si trova già nel futuro, arriva dal futuro, o presagisce una modalità cinese di futuro con implicazioni globali. In tutte queste varianti, l’immaginazione sinofuturista nega alla Cina la possibilità di sfidare e negoziare la propria rappresentazione nel presente coevo delimitato dalla produzione di conoscenza occidentale. Il futuro è per i sinofuturisti ciò che il passato era per gli orientalisti: uno stratagemma utile per incanalare la rappresentazione tramite il diniego di coevità.

La legittimità del sinofuturismo è basata su un parallelismo con altre articolazioni della futurità: l’approccio comparativo proposto da Armen Avanessian e Maham Moalemi, per esempio, lo giustappone con l’afrofuturismo, il golfofuturismo e altri «etnofuturismi», mettendo in luce l’emergere di immaginari orientati al futuro in contesti non occidentali. Sebbene metta in guardia dalla possibilità che articolazioni futuriste «al di fuori dell’Occidente e nel Sud globale o altre ex-periferie possano anch’esse evolvere in tendenze neo-coloniali», questo approccio purtroppo sorvola il problema più fondamentale del mettere in parallelo futurismi etnici o nazionali: il loro riferimento al futuro potrebbe risultare l’unico punto in comune tra programmi estetici ed etici altrimenti radicalmente diversi – un punto che la storia del futurismo italiano mette in evidenza in maniera lampante. Perfino l’opera di Lawrence Lek Sinofuturism (1839-2046 AD), divenuta un riferimento centrale per questo termine, si riferisce ripetutamente a un repertorio tattico comune a «movimenti minoritari che condividono un ottimismo riguardo la velocità e il futuro come mezzi per sovvertire le istituzioni del presente». 

Come dimostrato dall’afrofuturismo, i movimenti che ribaltano le strutture temporali e coloniali sono fondamentali per rivendicare la capacità di rappresentarsi contro il diniego di coevità. Ma per farlo, essi devono emergere organicamente dalle periferie della temporalità occidentale, piuttosto che essere evocati come parte di fantasie tecno-orientaliste. Invece, mentre gli esotici pastiche post-digitali del sinofuturismo hanno circolato abbastanza da diventare un’estetica riconoscibile, appropriata e sovvertita da musicisti elettronici e artisti locali, la varietà di sinofuturismo meno consapevole e più sensazionalista continua ad avere successo nelle rappresentazioni popolari della Cina. Il capitolo introduttivo di China Dreams: 20 Visions of the Future di William A. Callahan, appropriatamente intitolato «La Cina è il futuro», offre un esempio lampante di questo sinofuturismo banale:

È un momento emozionante per essere Cinese. Mentre in Occidente il primo decennio del ventunesimo secolo è stato caratterizzato dal pessimismo dovuto all’11 Settembre, la guerra in Iraq e la grande recessione, i Cinesi sono molto ottimisti sul fatto che il ventunesimo secolo sarà il «secolo Cinese». I frutti di tre decenni di rapida crescita economica della Cina sono sotto gli occhi di tutti: nel 2010, la Repubblica Popolare Cinese aveva il computer più veloce del mondo, gli studenti più intelligenti del mondo, ed entrava con entusiasmo nell’era spaziale, proprio mentre gli Stati Uniti stavano ritirando la loro flotta di Space Shuttle.

Il primo paragrafo di questo volume condensa molti dei temi sopra evidenziati: l’identità nazionale, l’idea di un secolo Cinese, la crescita economica della RPC, ed il balzo in avanti post-riforma simboleggiato dalla tripletta di primato computazionale, talento accademico ed esplorazione spaziale – ovviamente misurati rispetto a parametri arrugginiti risalenti ai tempi della guerra fredda.

Per riassumere: il sinofuturismo risponde a una mancanza di coinvolgimento con il futuro della Cina da parte della ricerca accademica e delle discussioni quotidiane del paese, e lo fa in maniera provocatoria, speculando su possibili future configurazioni di aspetti drasticamente differenti della storia, cultura e società cinese, giustapponendo sviluppi tecnologici e costumi tradizionali, trend globali e fenomeni locali, sistemi politici e forze materiali. Allo stesso tempo, il sinofuturismo attinge – e a volte riproduce direttamente – i temi e le narrative tipiche del tecno-orientalismo, riducendo la Cina all’ultimo caso in una serie di paesi dell’Asia orientale che si trovano a investire risorse per accelerare informatizzazione e industrializzazione, arrivando così a minacciare la supremazia occidentale sull’innovazione tecnologica e le supply chain transnazionali. La sovrapposizione storica del tecno-orientalismo con generi come il cyberpunk offre al sinofuturismo una scorciatoia conveniente per trovare successo come repertorio estetico accessibile in vari contesti: al di fuori della Cina, il sinofuturismo reagisce con il mix di fascinazione e ansia per l’illeggibilità e la portata della crescita cinese; all’interno della Cina, si presta invece alla celebrazione auto-orientalista del successo nazionale. Ma ciò non dovrebbe offuscare il suo principale modus operandi.

Il sinofuturismo, così come il tecno-orientalismo, opera un diniego di coevità. In virtù del suo essere prevalentemente articolato come discorso interpretativo dall’esterno, propone una sorta di equivalenza tra la Cina e il futuro. La Cina è il futuro, la Cina viene dal futuro, il futuro arriverà dalla Cina, e così via. Questi proclami sono tanto allettanti quanto sospetti, poiché utilizzano il futuro come uno stratagemma per differire la partecipazione alla contemporaneità. Il futuro funziona esattamente come il passato funzionava in argomentazioni orientaliste: una temporalità attraverso la quale l’alterità può essere gestita con sicurezza e le interazioni problematiche possono essere evitate. Se il locus dell’orientalismo descritto da Said era la regione dell’Hejaz, «un luogo sul quale si possono fare dichiarazioni in proposito del passato esattamente nella stessa forma (e con lo stesso contenuto) del presente», i loci del sinofuturismo sono le skyline di Shanghai, Shenzhen e Chongqing, pronte a essere inscritte con affermazioni sul futuro. Il sinofuturismo è un orientalismo inverso: un orientalismo che opera il suo diniego di coevità tramite l’attribuzione di futurità.

In conclusione, credo che questa mia valutazione drastica del sinofuturismo debba essere letta come un avvertimento piuttosto che un veto. Sebbene affrontare il presente sia inevitabile, il futuro è indubbiamente il dominio temporale più rilevante per la costruzione di mondi condivisi. Non c’è nulla di sbagliato nell’immaginare il futuro della Cina, nel tracciare i suoi discorsi riguardo la futurità, e nello speculare sull’impatto del paese sui futuri regionali e globali, a patto che si tengano a mente le implicazioni di ogni tipo di othering temporale. L’idea di coevità introdotta da Fabian – il coinvolgimento intersoggettivo che richiede l’inclusione dell’Altro in un presente condiviso – non può essere raggiunta semplicemente riferendosi a un paese come «contemporaneo»: ciò che è necessario è invece l’estensione di una co-presenza in cui al tempo dell’Altro venga permessa una propria posizionalità e contingenza. Immaginare l’ascesa della Cina attraverso la mediazione dei media occidentali, gli echi calanti del Japan Panic e di un canone cyberpunk consolidato negli anni Novanta ha portato alle speculazioni provocatorie del sinofuturismo: oggi è possibile fare qualche passo in avanti – o forse di lato – verso la coevità.Fortunatamente, in Cina non mancano articolazioni del futuro, pronte a essere incontrate nei propri termini. Nel corso dei secoli, le tradizioni filosofiche cinesi hanno dibattuto diverse concezioni del tempo, futurità utopiche hanno ispirato numerose rivolte, e la temporalità rivoluzionaria è stata un campo di battaglia centrale per la fondazione della Repubblica Popolare Cinese. La storia dello sviluppo economico guidato dal Partito Comunista Cinese è scritta attraverso piani ufficiali che abbracciano anni o interi decenni; allo stesso tempo, le politiche tecnologiche del partito sono state anche influenzate da improbabili conversazioni con futuristi occidentali. E di recente, un secolo di fantascienza cinese ha finalmente trovato successo internazionale tramite traduzioni, una tradizione letteraria coronata dal premio Hugo conferito a Liu Cixin. Rimangono innumerevoli i futuri da scoprire nel lavoro di pensatori, accademici, registi, scrittori e politici cinesi, i quali non dovrebbero essere semplicemente indicizzati come termini di paragone con (o alternative a) la modernità occidentale, ma come articolazioni coeve della temporalità. È il momento di pensare, pluralmente, in termini di sinofuturismi, e di incontrare futuri cinesi che sono sempre già stati.

Gabriele De Seta