Green Kampf
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I movimenti ambientalisti stanno vivendo il momento peggiore dell’ultimo anno e mezzo. L’interesse per la crisi climatica è stato oscurato dalla paura del contagio, l’effervescenza di gruppi come Fridays For Future ed Extinction Rebellion si è inevitabilmente sedata in due mesi di lockdown. Per assurda coincidenza, stiamo vivendo anche il momento di massima vulnerabilità dei combustibili fossili, con il prezzo del petrolio che a fine aprile è diventato negativo per la prima volta nella storia.
La crisi che attraversiamo si articola così su piani diversi – sanitario, energetico, economico – e ci riesce difficile riconnetterla all’orizzonte vasto e inconcepibile del riscaldamento globale. Le mobilitazioni in difesa del clima dovrebbero farsi proprio ora più tenaci e incisive, ma le proteste collettive sono ancora bandite e lo saranno chissà per quanto. Quando l’emergenza sanitaria eclisserà nella recessione economica, avremo mercati allo sfascio e movimenti ambientalisti da rivitalizzare. La retorica oggi più in voga considera prioritario rinsavire le economie, e mobilitarsi contro i cambiamenti climatici verrà fatto apparire da qualcuno come desueto.
In questo tempo di debole attesa, all’interno dell’attivismo ecologista statunitense si è aperta una polemica, una ferita, per opera di chi meno te lo aspetti: non i lobbisti dell’industria petrolifera o i greenwasher che si dicono«carbon neutral», avversari aperti e giurati, ma Michael Moore, un’icona del movimento progressista americano. In occasione del cinquantesimo Earth Day, ricorrenza simbolo per l’ambientalismo internazionale, sul suo canale YouTube e sulla piattaforma Films for Action è comparso il documentario Planet of the Humans, prodotto appunto da Moore e diretto dal collega di lunga data Jeff Gibbs. Un’ora e quaranta di racconto in prima persona in cui Gibbs si dichiara da subito ambientalista convinto, ma invece di prendersela con qualche nemico esterno – il negazionismo di Trump, le centrali a carbone di Xi, l’indolenza dell’Unione Europea o i gasdotti di Putin – affonda la lama della critica sul ventre molle del nemico interno, le organizzazioni ambientaliste statunitensi 350.org, Sierra Club e Apollo Alliance accusate di essere cooptate dalla finanza verde e di diffondere l’illusione che le energie rinnovabili possano risolvere davvero la crisi climatica.
Inanellando le testimonianze di ecologisti eterodossi tra i quali Ozzie Zehner, produttore anche lui del film e autore nel 2012 di Green Illusions: The Dirty Secrets of Clean Energy and the Future of Environmentalism, Moore e Gibbs sparano fuoco amico sui movimenti ambientalisti con lo stesso stile pungente e beffardo diretto in passato contro l’uso delle armi negli Stati Uniti (Bowling for Columbine), l’amministrazione Bush (Farenheit 9/11) e la crisi finanziaria del 2008 (Capitalism: A Love Story). Il risultato finale è controverso, e critiche al documentario sono arrivate da ogni angolo del movimento ecologista. Planet of the Humans è infatti un documentario amatoriale e sghembo, pieno di difetti, assemblato per lo più con filmati e interviste provenienti dall’archivio personale di Gibbs, che può contare su una lunga partecipazione a conferenze, fiere di tecnologie verdi, manifestazioni ambientaliste.
Il succo è questo: secondo Gibbs le energie rinnovabili – che sono in effetti diventate il mantra, e a volte l’unico obiettivo dei movimenti ecologisti statunitensi – sono un imbroglio, nient’altro che l’ennesima manifestazione del capitale attratto dall’interesse finanziario a breve termine. Energia eolica e solare sarebbero poco utili e poco efficienti per combattere la crisi climatica: non solo non permetterebbero di liberarci dei combustibili fossili, ma sarebbero uno specchietto per le allodole creato ad arte proprio dalle aziende petrolifere per anestetizzare gli ambientalisti.
Su MEDUSA abbiamo parlato spesso dell’ossimoro del capitalismo verde, del greenwahsing dell’industria petrolifera, dell’insostenibilità della crescita a tutti costi. Sono questioni decisive. E vanno presi sul serio, per esempio, anche i paradossi su cui si basa la transizione energetica alle rinnovabili, un’industria che per ora delega le complesse e pericolose attività di estrazione dei metalli rari di cui ha bisogno (e sono tanti) ai paesi poveri, al sud del mondo, a regioni con poche regolamentazioni ambientali e ancor meno diritti civili. Insomma, dietro la«narrazione verde» c’è davvero un grande non-detto, e bisogna essere coscienti di queste trappole.
Ma Planet of the Humans non rende giustizia alle proprie ambizioni e sviluppa il discorso in maniera apodittica, giornalisticamente goffa, senza aprire lo spazio per un serio dibattito scientifico. Lancia, come bombe, slogan da assemblea liceale:«The only reason we’ve been force-fed the story “climate change + renewables = we’re saved” is because billionaire bankers and corporations profit from it».
Le imprecisioni del documentario hanno riempito decine di articoli, in questi giorni, scritti da scienziati, ricercatori, attivisti e giornalisti. I primi a reagire sono stati Josh Fox, regista di Gasland, Naomi Klein e Michael Mann, uno dei climatologi più noti degli Stati Uniti, primi firmatari di una lettera in cui chiedevano di rimuovere il documentario dalla piattaforma Films for Action in quanto fonte di disinformazione fuorviante e pericolosa.
Affrontare qui tutti i punti sollevati contro Planet of the Humans vorrebbe dire dedicare questo articolo esclusivamente a questioni di ingegneria energetica. Riassumendo molto, le reazioni critiche al film hanno largamente riconosciuto che molti dei dati citati da Gibbs sono relativi allo stato dell’arte di eolico e solare di dieci, a volte venti anni fa – e d’altra parte si ha anche il sospetto che buona parte delle interviste e dei video siano datati, comunque registrati non si capisce bene quando. La sensazione generale che si ha guardando Planet of the Humans è quindi che sia un’opera nata già vecchia (il fatto che una biografia di Gibbs del 2012 dica«he is currently working on a film about the state of the planet and the fate of humanity» è solo una di tante prove).
Sono pochi i messaggi di Planet of the Humans che rimangono. Anzi forse c’è solo un vero messaggio nel film, ed è: continuiamo a bruciare i combustibili fossili, cerchiamo di ridurre i nostri consumi.
Anche la scelta degli intervistati è discutibile, una miscellanea di ambientalisti alle prime armi, industriali non meglio identificati e attivisti incontrati di fretta a qualche manifestazione. Sono contributi video montati, alla maniera di Moore, assieme a servizi di telegiornali e dichiarazioni di politici e gente famosa (insomma Al Gore, Richard Branson, Barack Obama…). Tra i nomi noti citati nel film in pochi ne escono bene: l’unica figura che rimane immacolata è quella di Vandana Shiva che in uno scambio con Gibbs di pochi secondi se la prende in maniera per forza di cose generica contro il sistema (eppure Shiva non è un personaggio privo di contraddizioni, di cui si può parlare così in velocità, avendo preso negli anni diversi abbagli scientifici).
Il caso di Bill McKibben è esemplare: figura centrale per l’attivismo ambientalista degli ultimi decenni, nel documentario viene raccontato senza troppe cerimonie come una marionetta dell’industria petrolifera e dei giganti della finanza che foraggiano i suoi progetti solo in apparenza«verdi». Nel 1989, a ventotto anni, McKibben scrisse La fine della natura e fu tra i primi a pescare le questioni climatiche dal mondo della ricerca e tentare di spiegarle al grande pubblico. Da lì la sua parabola è stata quella dell’idealista che viene spinto dal proprio successo verso una istituzionalizzazione pericolosa: negli anni mette in piedi un’enorme organizzazione ambientalista con tutti i crismi e finisce per dialogare con la finanza verde alla ricerca di fondi. Oggi è uno dei maggiori fautori di una soluzione«capitalistica verde» alla crisi climatica. Non è una figura immacolata e inattaccabile, anzi: è forse un buon esempio di quello che anche i nuovi movimenti dovranno cercare di affrontare, e magari evitare, nel passaggio dalla protesta all’azione.
Gibbs però critica McKibben prevalentemente per le sue posizioni sulle biomasse come alternative ai combustibili fossili. Dietro alle biomasse c’è l’idea che bruciare legno (e paglia, fieno, alghe) possa sostituire l’uso di carbone e petrolio, con il vantaggio che le colture di alberi necessarie per alimentare le centrali elettriche a biomasse assorbano nel frattempo anche un po’ di CO2. È stata un’ipotesi molto di moda tra gli ambientalisti. McKibben e tanti altri la sostenevano. Poi, una decina di anni fa, la comunità scientifica ha dimostrato che era un sistema insostenibile su larga scala. McKibben e molti altri hanno preso nota della cosa e guardato altrove; ma di tutte le critiche interessanti che si potevano fare a McKibben, Gibbs decide di attaccarlo proprio sulle biomasse, come se le sostenesse con fervore ancora oggi. (E questo è solo uno degli episodi che ci fa chiedere: Gibbs ha dato a tutte le persone che attacca la possibilità di rispondere?) McKibben ha replicato prima con un breve post sul sito della sua organizzazione, e poi con un lungo e dettagliato articolo su Rolling Stone.
Alla fine sono pochi i messaggi di Planet of the Humans che rimangono. Anzi forse c’è solo un vero messaggio nel film, ed è: continuiamo a bruciare i combustibili fossili, cerchiamo di ridurre i nostri consumi e di occuparci del vero problema del pianeta, quello della sovrappopolazione. Siamo troppi e consumiamo tanto, dobbiamo essere di meno. Non c’è bisogno qui di sottolineare quanto sia problematica un’affermazione del genere, soprattutto se viene fatta con tanta leggerezza da una posizione di privilegio (da uno statunitense). Dopo aver sollevato polemiche a non finire e richieste di cancellazione, su YouTube il documentario ha comunque superato i 7 milioni di visualizzazioni. Dopo neanche due settimane, però, sembra che gli unici ambienti in cui circoli con favore siano quelli dei negazionisti e dell’alt-right.
Ecco perché Moore, Gibbs e Zehner si sono sentiti in dovere di rispondere apertamente almeno a parte delle critiche. In un’intervista per Rising i tre hanno rivendicato l’intenzione genuina del film, comunque soddisfatti dal successo che si misura sul lungo strascico di polemiche che sono riusciti ad alimentare. Il punto su cui insistono, con toni e registri diversi, è lo stesso: l’orizzonte del dibattito ecologista è stato oscurato da quelle due parole, Climate Change, quando invece gli ostacoli che ci allontanano da una vita serena sul nostro pianeta, o dalla vita tout court, non si intrecciano soltanto all’aumento della temperatura atmosferica. Come mormora Gibbs in un passo del documentario, stiamo portando il sistema-Terra a tutti i suoi limiti ecologici in uno stesso momento. Decarbonizzare il settore energetico non sarà sufficiente.
Salon riassume in cinque punti, al di là dei problemi scientifici, l’essenza«politica» del documentario, ma a noi ne bastano anche tre:
1. L’energia rinnovabile non è sempre esattamente rinnovabile. I pannelli solari dipendono dal quarzo e dal carbone, le auto elettriche si caricano ancora grazie a griglie cittadine che non sono«pulite», le pale eoliche sono così imponenti da richiedere spesso interventi sul paesaggio e dopo 15-20 anni cominciano a discendere la curva della resa. Investire sulla biomassa, risorsa«semi-rinnovabile» ma non certo sostenibile, significa deforestare, bruciare e pompare CO2 nell’aria.
2. Alcuni leader del movimento ambientalista e l’élite industriale-finanziaria sono legati dagli stessi interessi. Il film aggredisce l’immagine pubblica di Bill McKibben, Al Gore, Robert F. Kennedy. Non che fossero delle sorprese le presentazioni di uomini della Goldman Sachs che spiegano come trarre profitto dallo sfruttamento del suolo, e quindi le chiacchiere tra Gore e David Blood, ex asset manager del gruppo, o scoprire che nelle opzioni di investimento«verde» sponsorizzate da McKibben ci fosse un’azione«verde» su cento. L’effetto aggregato delle informazioni, però, ha una certa capacità di annichilire, e fa male.
3. La narrazione che va per la maggiore intorno alle rinnovabili ha distolto l’attenzione dalla concomitante necessità di ridurre i consumi. A destra dello spettro politico domina la falsa credenza che i combustibili fossili non finiranno o non siano causa del climate change, a sinistra che li sostituiremo presto con fonti rinnovabili, la cui capacità di rimpiazzare gli idrocarburi senza compromettere la disponibilità energetica è oggi sovrastimata. L’illusione di poterci salvare con le energie rinnovabili che Planet of the Humanscerca di mettere a nudo produce una de-colpevolizzazione del singolo individuo: se i tetti di vetro e i girasoli giganti si incaricano della salvezza del mondo, allora possiamo evitare di trasformare le nostre abitudini, riprogettare i nostri desideri, in poche parole, comprare meno roba. In qualsiasi ambito, dal cibo ai vestiti ai viaggi: comprare meno roba è l’azione più eversiva.
Nell’intervista per Rising Gibbs prova a ricomporre la frattura: non stiamo cercando un attacco frontale verso i leader ambientalisti, assicura, abbiamo bisogno di leader ambientalisti. Ma almeno tra di noi, parafrasandolo, che siamo anti fossil fuel, il dibattito dovrebbe essere non solo permesso, ma incoraggiato. Moore aggiunge:«ammiriamo profondamente gli attivisti e i nostri compagni ambientalisti», sono persone che hanno dedicato mezzo secolo di vita alla causa (McKibben ha scritto La fine della Natura nel 1989, a ventotto anni); ma quando nella vita qualcosa non funziona, quando i problemi restano o forse peggiorano, lo devi ammettere. «E sono soltanto gli amici che possono dirti quando stai sbagliando».
La retorica di Moore, come sempre, alterna generalizzazioni ingenue («il movimento ambientalista ha fallito perché si è affidato alla wall street hedge funds corporate america») a verità icastiche che, a prima vista, si somigliano:«la parola più repellente per il sistema capitalistico è abbastanza». In questo inciso si può riassumere il senso e l’urgenza del documentario, ma anche il senso e l’urgenza di una trasformazione radicale di cui il nostro modo di pensare e agire, cioè vivere, necessita.