Gente ricca che spende male
Non si può regnare ed essere innocenti, come non si può pensare di costruirsi una produzione artistica ed estetica intorno a una formula riassumibile in «storia orale di quanto spacco» e poi pretendere che non arrivi mai nessuno a verificare cosa c’è di autentico in quello che si mostra. A cambiare, al limite, saranno le soluzioni con cui verrà presentato il conto al singolo individuo o alla società che ne ha approvato, se non facilitato, gli eccessi.
MTV Cribs debutta nell’anno domini 2000. Sopravvive ancora oggi, su Snapchat, ed è stato il programma forse di maggior impatto nella storia della rete. Ne sono stati girati 106 episodi, ma tutti se ne ricordano due.
Per il 2002, quando la pronuncia Mariah Carey, la frase welcome to my crib è già un tormentone. Lei abita in un palazzo di TriBeCa. Ne occupa i tre piani superiori. È stato «il suo primo appartamento», dice. Dai primi minuti di trasmissione è chiaro che qualcosa non gira. Sguardo acquoso, voce da bimba che non corrisponde al registro usato nelle interviste. Però, bene o male, Carey sta in piedi, sta davanti alla telecamera e ci fa fare il tour della casa, e dietro ogni angolo, una sorpresa. C’è in soggiorno il pianoforte appartenuto a Marilyn Monroe, «ma questo non ve lo posso far vedere». C’è la sala decorata in omaggio ad Ariel la Sirenetta (forse è un falso ricordo mio). Ci sono le cabine armadio e c’è lei che si cambia d’abito davanti alla troupe. C’è una stanza adibita a conservatorio di lettere, bambole e pelouche ricevuti dagli ammiratori. C’è il bagno con una doccia che lei ha usato «solo una volta» perché non sa far funzionare le manopole, una dormeuse accanto alla vasca, «per gli amici». Candelabri. Colori tenui «per non essere disturbata». E c’è lei che ripete, «una volta non avevo niente, adesso…». L’episodio viene dilatato a puntata speciale di un’ora. Ne andranno in onda varianti con altre celebrità che offrono le loro reazioni. Diventa una pagina leggendaria della televisione. Come si può vivere così. Come.
L’anno prima Carey ha fatto notizia per alcune uscite bizzarre e per un ricovero volontario presso un non meglio precisato ospedale dove avrebbe ricevuto cure psichiatriche. Si è parlato di «esaurimento estremo». Nel 2018 l’artista dichiarerà di soffrire di un disturbo bipolare diagnosticato in questo periodo e ignorato o trascurato. La scelta di apparire a Cribs potrebbe essere stata presa inseguendo una normalità perduta – come, se sembra Maria Antonietta? – ma porta con sé un difetto fatale, non evidente: Mariah Carey non è bianca. Passa per bianca in virtù di un tono di pelle medio, del suo indossare teste di capelli lisci, delle canzoni melodiche (una sfilza di Christmas Album), ma è per metà afroamericana, con un babbo che ha pure sangue venezuelano. È stata promossa come un oggetto neutro, ma non è bianca. Mai stata. Quando – altra tendenza di un periodo terrificante – si prova a cucire un’operazione cinematografica addosso a lei, spulciando tra i dati biografici di un musicista per fabbricare una storia di vocazione, ispirazione e sacrificio, la cantante si ritrova piantata in un film scadente, Glitter, il cui unico merito sta nel tentativo di portare la razza in primo piano. (La trama: un’artista meticcia viene lanciata e quasi distrutta dal fidanzato bianco che non accetta il successo della sua pupilla. Quattro anni dopo, il trattamento tocca a 50 Cent con Get Rich or Die Tryin’, esito minimo, ma lui continua a recitare perché perseverare è diabolico.) Alla luce delle origini della padrona di casa, il lusso che Carey sembra felice di condividere con noi potrebbe tradire un’incertezza fondamentale su quanto valga il denaro, e alcuni giocattoli costosi – il piano di Marilyn – potrebbero essere cose che parlano a lei, se non di lei, ma tutto il resto pare progettato per far impazzire qualcuno, non per abilitarlo a una vita adulta emancipata rispetto alla povertà che ne avrebbe dominato l’infanzia.
E poi c’è l’episodio con Redman. Redman che abita in una casa di merda, una baracca a Staten Island in fondo a una strada isolata, da fuori si comincia subito a pensare che butterà maluccio, non funziona manco il campanello, ma dentro è molto peggio: magliette buttate sulle sedie, i soldi nella scatola da scarpe, un cugino che dorme sul pavimento, un bagno solo, piccolo, uno shampoo mezzo vuoto sul piattino della doccia. Redman offre tutto questo alle telecamere con assoluta, pacifica serenità. Welcome to my crib. L’episodio anche oggi è tra i più visti e commentati del programma: possibile che una persona famosa accetti di vivere in tali condizioni? Cosa intendevi quando cantavi di Shaolin, amico? È uno scherzo? Lo stesso Redman decide di chiarire la situazione, e difende la scelta di mostrarsi al naturale: sapeva quale effetto avrebbe provocato, però, dice, la maggioranza degli artisti hip hop si procura gli oggetti giusti – l’automobile di marca, gli abiti firmati, i gioielli – per quando c’è da stare in pubblico, salvo poi, a porte chiuse, comportarsi in maniera assai più sobria. Questa è la realtà. E comunque, dettaglio che dà sapore all’ambiente, lui la casa di merda la voleva ristrutturare per venderla e guadagnarci sopra, però alla fine se l’è tenuta, gli piace.
Una scossa simile, in sedicesimo, l’abbiamo avuta in primavera, quando un articolo che accompagnava l’uscita di Dogman ha indugiato sull’apparente sfascio casuale della dimora del regista Matteo Garrone: attrezzi da palestra sparsi per le stanze, libri su H.P. Lovecraft appoggiati al tavolo da poker. Stimerei che la metà dei lettori abbia reagito con un «ma no, davvero?» e l’altra metà con «ah, ‘fanculo, mi trovo uno scantinato e dico che sto facendo Garrone».
Nel 2000 MTV Cribs è una novità relativa: da quando esiste la stampa patinata esistono i servizi fotografici sulle case delle celebrità – se ne è occupata la storica Anne Helen Petersen, condensando parte della sua ricerca nel saggio Scandals of Classic Hollywood, ma anche la fanta-casa di Mariah era già finita sulle pagine di Architectural Digest – ed esistono i rotocalchi televisivi sull’argomento (uno trasmesso anche in Italia, Lifestyles of the Rich and Famous). A mancare è una formula consolidata, però, chi si concede a sortite di questo tipo spesso ha superato i quarant’anni, appartiene a un milieu considerato noioso e/o rispettabile (le star delle soap opera, le glorie del cinema) e mostrare la roba può far parte di una strategia di posizionamento conservatrice: ecco la cucina, ecco il giardino, ecco i figli con il cane. Stiamo a posto. Cribs scardina tutto su due livelli: abbassa l’età dei protagonisti, settandosi sui venti/trentenni, con occasionali incursioni tra gli under 18, e li obbliga a muoversi all’interno del loro spazio vitale a beneficio della telecamera. Sembrano i padroni di casa, ma è lo sguardo esterno che li dirige.
Cribs tiene a battesimo tanta roba. Le espressioni che penetrano il parlato comune – i primi veri meme del periodo: la battuta «this is where the magic happens», detta da uno dei New Kids on the Block che ammicca seduto sul letto matrimoniale, assume subito vita propria, e viene ripetuta mille volte nel programma dai nuovi ospiti che ci strizzano l’occhio, su Cribs si dice così, qui ci chiavo = qui è dove avviene la magia; i momenti che arrivano puntuali – la piscina, meglio se una infinity pool, il garage impaccato di automobili e motociclette da collezione, la camera burina, il marmo, la scala, la cancellata; il legame infrangibile tra hip hop e Scarface, nato dalla frequenza e soprattutto dall’insistenza con cui gli artisti ci mostrano i DVD, i poster, i dipinti, i pupazzetti, il loro film preferito!, Tony Montana!, e qui Scarface diventa sinonimo di rapper nelle teste di chi non lo ascolta nemmeno, il rap. La cosa segna tanto in profondità il nostro mondo che quando un’operazione alta come Spring Breakers (2012) si interrompe per lasciare spazio a un mini-episodio di Cribs – la scena del «look at my shit!» – il gangster Alien si bulla del suo sogno capitalista fatto carne negli oggetti anche stupidi con cui si è addobbato la casa, e tra le ciabatte da mare e i nunchaku cos’ha? «I got Scarface on repeat, on repeat!» Harmony Korine fa arte mostrando la banalità a un pubblico di convertiti, ma se ci fa ridere è perché ci chiede complicità, trascinandoci nello stesso gorgo assassino dei personaggi: strada, merce, soldi, tette. Infatti le ragazze che Alien sta seducendo sono contentissime, Scarface is the best movie. Non se ne esce.
Per andare a Cribs, in teoria, devi essere bravo in qualcosa. Devi essere un musicista, un attore, uno sportivo. Devi avere una forma di talento già monetizzata e una riconoscibilità. I produttori stilano una lista di desiderata che riescono in massima parte a ottenere (Mariah Carey, ad esempio), ma in vari casi, lo confermano le tante storie orali del programma, si sentono rispondere «non adesso, chiedimelo tra un annetto, devo fare più soldi». Presentarsi al meglio è il nome del gioco. Quindi c’è qualcuno che partecipa a Cribs perché è il nome caldo e danaroso della stagione (quanti bambini scomparsi, quanti morti per overdose di antidolorifici), perché il meccanismo di selezione all’ingresso comincia a non funzionare, ammesso abbia mai funzionato. E a volte, pur di andare in onda, si imbroglia. I mobili e gli abiti vengono noleggiati, la casa affittata o chiesta in prestito. Scorrere gli elenchi di «chi ha mentito a Cribs» è una maratona di Meteore con qualche insospettabile che fa alzare gli occhi al cielo. Le Destiny’s Child avrebbero indugiato nella pubblicità occulta, ma il caso umano numero uno è Lil Bow Wow che mostra una schiera di automobili prese a nolo, se anni dopo tenta lo stesso identico trucchetto su Instagram, spacciando per jet privato un aereo di linea. E intanto c’è una questione razziale gigantesca che rimane sospesa.
La seconda metà degli anni Novanta impone il materialismo come unica risposta razziale capace di trovare folto pubblico, affermazione significativa e presenza mediatica.
Cribs parte nel 2000. Arriva nel momento in cui il grunge è morto e il pop è ripartito a colpi di oggetti lanciati furiosamente su un mercato che assorbe tutto (le boy band concepite da Lou Pearlman, le femmine giovani) per poi rigettarlo in fretta. Cribs gli idoli del pop lo fanno tutti, anche quelli che porteranno i manager in tribunale per truffa aggravata, anche quelli a cui verrà tolto il diritto di disporre legalmente dei propri guadagni. Ma il pop è storia nota, avremo Britney Spears che si rasa a zero in diretta, avremo la diagnosi psichiatrica obbligatoria e le considerazioni sulla facilità del perdere se stessi, ci siamo sposati troppo presto, abbiamo avuto tutto troppo presto.
Allarghiamo il campo. Nello stesso periodo l’hip hop è piombato, ora lo possiamo dire, in una fase di decadenza aberrante, i soldi continuano a entrare, anzi, se ne fanno sempre di più, ma sta succedendo di tutto: ci sono già stati i cadaveri in circostanze mai chiarite, ci sono le faide tra etichette rivali e gli artisti in rotta con le case discografiche, ci sono i videoclip con budget superiori al lungometraggio, c’è la codificazione di un linguaggio rigido – gangsta, soldi, ganja, fregna – e lo spostamento nella rappresentazione degli artisti da ragazzi di strada senza filtri a Golem ineffabili, muscolari, posizionati plasticamente all’interno di un paesaggio fatto di auto sportive, sedili in pelle, strobo, piscine – quante piscine: piene, semivuote, riflessi sull’acqua, fondali azzurri, vasche in cui chiunque porti le extension o la weave non potrà nuotare mai; è in corso la masticazione delle modelle/cantanti/ballerine usate per il contorno di ciornia, e c’è la testimone eccellente Karrine Steffans, futura autrice di un memoriale, Confessions of a Video Vixen, dove ricostruirà gli anni trascorsi nell’affannosa ricerca di un uomo da cui farsi mantenere, accumulando denaro sperperato, apparendo in videoclip importanti, da Hey Papi a Danger, e ritrovandosi ridotta a bambola collettiva per gli uomini dell’establishment, per poi risorgere fenice bruciacchiata e ferrea imprenditrice di se stessa. (Leggetelo, se vi capita, è la storia di Nicki Minaj al netto del talento.)
La seconda metà degli anni Novanta impone il materialismo come unica risposta razziale capace di trovare folto pubblico, affermazione significativa e presenza mediatica, e contiene la difficoltà, anche oggi, del tirare una linea tra quanto culi e macchine fossero una dichiarazione identitaria e quanto un’estetica calata dall’alto, perché stateci, perché negri, perché voi siete così. È il regno di Hype Williams e del fish eye, il grandangolo che deforma. Il punto di non ritorno è il video di California Love.
Chiunque non si allinea, oggi lo sappiamo, non ce la farà: i sopravvissuti stavano già lì (Jay-Z, Snoop), mentre chi si ribella implode (Lauryn Hill), chi si presta al gioco sperando di sovvertirlo viene annientato (Lil’ Kim) oppure sparisce (D’Angelo, da ragazzo prodigio del soul a recluso che sulla segreteria telefonica tiene registrata la frase «io non sono uno schiavo»: a dargli la mazzata, il disagio provato durante la trasformazione in uomo bello che fa i video, tanto che quando torna alla vita pubblica come musicista ha un corpo e una fisicità radicalmente differenti). Stando a quanto dichiara nel 2015 la producer Erika Clarke, chi accetta di fare Cribs per primo o più volentieri sono «i rapper e gli atleti». I non bianchi, dunque. Perché «il guardate cosa abbiamo sta nella loro cultura». Quale cultura, amore mio? Nell’arco di un anno crib – culla, traslato in «tana» – diventa l’ennesima parola cooptata e impoverita dai bianchi, una fine che il linguaggio fa sempre più in fretta, chiedetelo a bling, swag, dime, thot, ratchet, flexing, tutti termini che indicano soldi o sesso: l’unico furto senza vittime forse è veramente bye Felicia.
Se lo scenario è questo, non c’è bisogno di leggere Una lotta meravigliosa per intuire che la merce si mangia qualsiasi idea di miglioramento tramite lo studio e il lavoro normale. Allora Cribs arriva e diventa Caligola per una massa di spettatori sprovvisti del vaccino necessario a metabolizzarlo. Forse crediamo di sapere qualcosa in materia di sguardo che uccide: non siamo pronti al potere deumanizzante del semplice atto dell’offrire la propria casa a un dispositivo in grado di registrare immagini. Welcome to my crib. Guardate quanti soldi abbiamo, guardate con quali minchiate ci stiamo arredando l’esistenza, ce ne pentiremo?, si vive una volta sola, amici, spettatori, fan. Hater, siete i benvenuti, non potete toccarci. (Per amore di contesto, la fronda satirica contro le celebrità colpevoli di non avere gusto prende piede con il cubano Perez Hilton, ma acquista velocità di corsa verso la metà degli anni Zero, quando Gawker diventa la rivista online specializzata nello smontare la gente che sta antipatica a uno staff di giovani bianchi aizzati dal padrone inglese. Chiuderà per una battaglia legale finanziata dal capitalista trumpiano Peter Thiel.)
Altro segno dei tempi, Cribs prospera durante l’impero del coreano-americano Joseph Kahn, per certi versi lo prepara, se non vede il tramonto nemmeno oggi, il più richiesto e incisivo autore di video musicali, quello di Toxic, quello di Blank Space, quello di Thunder, quello che lavora volentieri sia con i rapper sia con le principesse, quello che abbina un controllo certosino sulla messa in scena a uno spirito non irriverente ma proprio ridanciano: con il dettaglio del cuore di zucchero vi sfasciamo la testa, però meniamocela di meno che stiamo solo girando un video. Kahn è l’artefice di un’estetica deliberata e ne gestisce lui i mezzi di produzione. In apertura campeggerà presto la scritta A film by Joseph Kahn. Gli artisti che manovra sono corpi nello spazio, ingranaggi sostituibili, comanda l’uomo dietro la macchina da presa. La stessa vena omicida è presente nei suoi primi due film per il cinema, soprattutto nel secondo, Detention, che contiene una lunghissima autocitazione: una carrellata all’indietro nel tempo realizzata attraverso brani musicali di cui il video più noto, Everybody (Backstreet’s Back), era roba sua, a dimostrare che i giovani si adeguano passivamente alle immagini, sempre. Un anno vogliono essere Kurt Cobain, un anno si svegliano Gucci Mane. Ridete, bestie.
MTV predica bene, a tratti, ma non fa nulla di concreto per diversificarsi. Può prendere giovani non bianchi – uno, al massimo due – e buttarli nel cast di programmi come The Real World, il pre-Grande Fratello partito nel 1992, ma: a) tende a fargli fare il negro in minime gradazioni, il fratello che non vuole integrarsi, la messicana tutto pepe, un tokenism a cui sfugge uno dei partecipanti alla prima stagione, lo scrittore Kevin Powell; b) se ripercorrendo il vostro lavoro col senno di poi il momento memorabile è un sieropositivo cubano che tira le cuoia trenta secondi dopo l’ultimo ciak allora non fate letteralmente un cazzo. MTV garantisce visibilità costante ai non bianchi solo su Cribs, cementando lo stereotipo della pelle scura che gozzoviglia, spreca.
Non c’è un’alternativa? L’alternativa è peggio: è BET, il Black Entertainment Network. BET manda in onda video musicali di neri per neri e programmi di vario calibro, sempre per neri. BET è un inferno dove si vedono soltanto culi e macchinoni. E chi, all’interno del bacino d’utenza, alza la voce per dire «questa roba ci fa male» si prende del grillo parlante guastafeste, come il fumettista Aaron McGruder, che dedica numerose strisce quotidiane dei Boondocks allo stigmatizzare i contenuti della rete. (Sono tradotte quando la strip è pubblicata da Linus e poi raccolte in alcuni dei volumi antologici editi da Baldini & Castoldi.) McGruder non è un mostro di empatia e si mette molto sul piedistallo, l’artista nero di successo ma un po’ meglio di così, grazie mille: però è un critico della prima ora rispetto alla nuova versione mainstream della sua cultura di nascita, e porta avanti la posizione anche nella serie animata tratta dai Boondocks, con personaggi quali il falso duro Gangstalicious, episodi su questioni di nicchia (il negro moment) e pagine di cronaca (il processo per pedofilia a R.Kelly). Ma è un nero che non si sa quanto desideri parlare ai non neri, quanto li voglia come consumatori, i suoi bianchi sono delle macchiette, quindi, nonostante le quattro stagioni, se lo filano relativamente in pochi. Poi di colpo quando Suicide Squad nel 2016 piazza in una scena qualunque una battuta su BET per connotare senza dubbio l’identità razziale di Killer Croc la gente piglia e si offende: il vostro sdegno ha radici lontane a cui sarebbe ora di dare un nome. È il capitalismo quello che vi sentite formicolare sotto la pelle, non un’uscita infelice in un film.
Cribs inaugura l’età oscura del brand autoimposto come maniera di campare non solo economicamente: l’oggetto estraneo che dà un senso a quanto si sta cercando di esprimere.
Ma anche uno straccio di resistenza – in senso lato – esiste dai tardi anni Novanta. Chris Rock ha già raggiunto un successo quantificabile, tournée in grandi teatri, accordi con HBO, ruoli da protagonista, e farcisce i suoi monologhi di ragionamenti sul denaro e sulla classe sociale di partenza; in uno spettacolo del 2004, Never Scared, si sofferma sulla differenza tra «rich» e «wealth», essere ricchi e conoscere il benessere, individuando un problema dei neri suoi contemporanei nel fatto che «la ricchezza» è un elemento recente nel ciclo dello sviluppo, mentre «il benessere», trasmesso di generazione in generazione, è un traguardo lungi dall’essere tagliato – anche perché, dice lui, i neri non sanno gestire il denaro, ci comprano roba inutile o ci abbelliscono oggetti quotidiani. «Cazzo, Rick James è stato ricco!» E il pubblico, in stragrande maggioranza nero, ride. Aggiornamento arrivato nel 2008 con Kill the Messenger: Rock è orgoglioso proprietario di una casa costata «milioni di dollari» nel New Jersey, ma sottolinea come, per pagarsela, ha dovuto condurre la serata degli Oscar, e su centinaia di abitazioni solo quattro appartengono ai non bianchi. (A parziale smentita arriva una verifica catastale.) Il comico è un tipo rispettato, un vincente che invita a prestare attenzione, eppure non riuscirà a spostare niente e nessuno.
Cribs inaugura l’età oscura del brand autoimposto come maniera di campare non solo economicamente: l’oggetto estraneo che dà un senso a quanto si sta cercando di esprimere. È l’epoca in cui le canzoni in heavy rotation alla radio o in TV diventano interminabili liste di marchi – se ascoltate hip hop commerciale, tutti parlano di Apple Bottom, di Lamborghini Gallardo, di Gucci e di Prada, di Bacardi, di Patron (oh, l’ultima fa rima con un sacco di cose, vincere facile); e sì, ne vengono fuori due versi bellissimi (after the Belve’ then it’s probably Cris’, and after the original it’s probably this), e sì, certo, i Run-D.M.C. cantavano My Adidas nel 1986, ma quello nasceva dall’affetto verso un marchio non ancora familiarissimo negli Stati Uniti, la sponsorizzazione arrivò dopo che il brand si rese conto di quanto il gruppo poteva farlo vendere. Non il contrario. Anche se loro ci speravano.
La degenerazione televisiva parte in via ufficiale con la prima chiusura di Cribs e la nascita dello spin-off Teen Cribs (2009), dove i protagonisti sono adolescenti con i padri miliardari. In realtà Cribs getta i semi per vent’anni di immaginario che forse solo ora, grazie a un mondo in fiamme, sta mostrando qualche segno di cedimento: intrattenimento uguale gente ricca che spende male, secondo il doppio binario «loro stanno meglio di noi… però non si meritano nulla». Nasce da qui l’ondata del reality su veri ricchi o presunti tali (spesso presunti: gli estimatori del filone Real Housewives sono bravi a sciorinare tutti i casi in cui si sono visti conti in rosso, bancarotte fraudolente, suicidi per debiti), nasce da qui Paris Hilton, che è un monografico di Cribs su una ragazza bianca con una porta girevole di amici, alleati e dipendenti, tra cui la piccola Kim Kardashian, promossa da personaggio quasi perdente del circo a stella indiscussa di un pianeta tutto suo, e quanto poco bianche sono le tre sorelle K, armene da parte di padre, coperte di abbronzante, filler per labbra già marcate, curve potenziate da abiti stretti (minimo sforzo, massimo risultato = quindici stagioni di TV globale imperniate su una cosa un po’ nera senza l’impiccio del mostrare tre donne nere); da qui escono i volti dei reality che rubano la scena a tutti perché hanno ancora meno ritegno nell’ostentare, e non è dato capire se si stanno brandizzando da soli o se interpretano le indicazioni di un autore (ormai fuori scena, un esponente della corte Kardashian, Scott Disick, piaceva sia a chi guardava il programma con livore sia a chi lo trovava «sincero» nel presentarsi come un riccastro con manie di grandezza – c’è un episodio in cui si compra un titolo nobiliare e per giorni si rivolge agli altri chiamandoli peasants, bifolchi.)
Nascono nei primi anni Zero i canali tematici di lifestyle porn, dalla cucina ai viaggi in luoghi remoti: la teoria del giornale-bolla ha frantumato i periodici femminili nell’Italia degli anni Ottanta, il resto del mondo ci arriva dopo. Nascono i dating show a eliminazione dove lo scapolo o la scapolottina d’oro è sempre, sempre, un imprenditore, un erede immobiliare, un ex famoso che ancora macina diritti d’autore, ed è lui o lei che pesca nel mucchio dei corteggiatori condannati a tirarsi per i capelli, perché comanda chi ha i soldi, fine.
Nasce qui il culto dell’oggetto fuori misura elevato a ragione di esistere – vedi Pimp My Ride e tutti i suoi multipli: prendiamo (x) e lo modifichiamo in base a quello che il pubblico a casa avrà sempre meno vergogna a definire «un gusto da negri». Nel cast di Pimp My Ride i non bianchi battono i bianchi 9 a 1, lo presenta il rapper Xzibit con una solare ciurma di garagisti neri e ispanici, lo ricordate per il meme, yo dawg, I heard you like, e volete scommettere che le battutacce sul trattamento delle automobili in Gran Torino sono frutto di uno sceneggiatore che ha cambiato canale a metà pomeriggio? (La versione italiana condotta dai Gemelli Diversi customizza motorini che stando alla tradizione orale vengono rubati ai proprietari tempo due settimane.)
Nascono da qui le allucinazioni alla My Super Sweet 16, i ragazzini che sbroccano per il compleanno da sogno, con una mostruosità nella spesa e nell’allestimento che porta Charlie Brooker a definirlo «un grande video di reclutamento per Al Qaeda» in un episodio di Screenwipe. Tanto per ribadire l’ovvio: Sweet 16 è fortemente voluto dalla stessa produttrice di Cribs, Nina Diaz. Non ci sarà mai stato un disegno razziale volto a sbeffeggiare fingendo di dare luce ai più meritevoli in un segmento della popolazione umana, ma di sicuro c’è stato un disegno economico di sedazione a suon di merce e giudizio morale implicito. Viene da lontano, l’ondata di odio verso i privilegiati – nessuno poteva prevedere come sarebbe esploso, ma il risentimento verso chi ha di più, chi è diverso perché bravo, azzeccato, esotico, chi ce la sta facendo, è uno schiaffone con il braccio tirato all’indietro nella seconda metà degli anni Novanta.
Di Cribs, dal 2008 in avanti, si è parlato meno. Vanno in onda le repliche, viene riscoperto di continuo grazie allo streaming. Soltanto adesso, tra le macerie, ricominciano a venire fuori gli artisti; in compenso è stato raso al suolo il pubblico, perché non puoi stare vent’anni a dire «questo è il mondo» dall’alto di uno schermo senza devastare due generazioni di esseri umani. E quindi abbiamo gli haul videos, dove persone ci mostrano le loro ultime caterve di acquisti, vestiti o libri purché siano tanti. (Tranquilli che persino l’inno anti-materialismo, Thrift Shop di Macklemore, è uno haul sotto mentite spoglie, il magazzino dell’usato è il nuovo centro commerciale.) Abbiamo i social basati sulla condivisione di immagini – e le immagini hanno tutto il potere – utilizzati come vetrina per rotoli di banconote e risotti impiattati. Esiste uno show tematico, Rich Kids of Instagram, ma esistono gli hashtag e sapete usarli. E comunque Instagram è l’unico social a non essere stato del tutto travolto dall’odio, perché produrre o selezionare la fotografia che veicola il messaggio presuppone uno sforzo maggiore rispetto alla pura formulazione di un pensiero attraverso parole. Abbiamo la bambina sboccata che dice «io ho i soldi e voi no», forse un mezzo fake voluto da un parente, ma ce l’abbiamo, Lil Tay. Abbiamo la customizzazione lacerante dell’esperienza individuale. Ha vinto Joseph Kahn. Il mondo è suo; noi ci viviamo e basta.
L’episodio di Cribs con protagonista Redman anticipava il mondo lavorativo e visuale in cui oggi proviamo a vivere in molti.
E intanto, però, il pop rinasce con gli artisti che ne amano la natura ingannevole, layers ovunque, e le affermazioni significative vengono da persone con le spalle clamorosamente larghe, forti dell’esperienza in televisione (Ariana Grande) o degli studi di teatro e performance mai tenuti nascosti (Lady Gaga, Nicki Minaj), mentre l’hip hop si impone come unico genere che ancora muove denaro, tra le vendite, il co-branding e i live, ma rinasce creativamente come forma di scrittura autoriale dove la fama arriva quando ci si mette in scena per dare il minor fastidio possibile risultando in qualche modo reali (Drake è un ex attore bambino canadese con un tatuaggio di Aaliyah e un repertorio da cantante confidenziale che in due pezzi su tre sta parlando di amore perduto e nel video di Hotline Bling sa di non saper ballare bene), oppure quando si sceglie l’oggettificazione e si esercita pieno controllo sui mezzi di produzione ripetendo a mitraglia «te lo faccio venire duro ma poi te lo stacco a morsi» (Minaj, di nuovo, queen Nicki dominant), e le affermazioni significative – sul piano critico e comunitario, almeno, ma capaci di catturare quanto resta del pubblico – appartengono ai diaristi che abbracciano il disagio, l’isolamento e la povertà come cifra stilistica da trasformare nel muro portante di un’estetica completa, interiore, sociale, politica. Non ce la fa nessuno. Ce la posso fare, ma sono terrorizzato. Non so nemmeno se voglio farcela. Arriva Kendrick Lamar, arriva Frank Ocean, arriva, per poco, XXXTentacion. Arriva la trap, nel bene e nel male.
L’episodio di Cribs con protagonista Redman anticipava il mondo lavorativo e visuale in cui oggi proviamo a vivere in molti. Ci barcameniamo tra fedeltà alle origini e creazione di una superficie non troppo infedele, scattiamo foto consapevolmente brutte, e il cugino che dorme sul pavimento non è un disonore: ci si adatta. L’episodio con Mariah Carey, invece, è un test di Rorschach in cui siamo padroni di leggere qualunque cosa – io ci vedo, in disordine, un cattivo dosaggio di farmaci antipsicotici, una solitudine raggelante, una bambina che si è rinchiusa in una prigione di caramelle, un coro di assistenti, guardaspalle e facilitatori che non si capisce quanto sopportino l’alienazione totale della protagonista e quanto la incoraggino per quieto vivere o sadismo sotterraneo. Storia orale di quanto spacco, con sottotitoli. Welcome to my crib.