Gatti, rane e criptoartisti
Quando nel Luglio del 2013 incontrai Andreas Schildbach, il primo developer a sviluppare il Bitcoin Wallet per mobile, un Bitcoin valeva circa 80 euro. Eravamo a sedere a un tavolino di un bar, il Room 77, che era da poco salito agli onori della cronaca perché il proprietario, Joerg Platzer, era stato intervistato dalla BBC per il folle gesto di accettare Bitcoin come forma di pagamento diretta. Non contento, Joerg era riuscito a convincere molti negozi della via, Graefestraße, a fare lo stesso, e per questo motivo la zona era stata soprannominata dai pochi nerd che ne erano a conoscenza, e dai proprietari di quegli stessi locali, Bitcoin Kiez. Mentre intervistavo Andreas (per un documentario che stavo girando), intorno a noi un gruppetto di developers e cripto anarchici chiacchierava e beveva, ma Andreas era così concentrato nel suo racconto e io di riflesso così impegnata nel cercare di capire cosa stava dicendo che le voci intorno a noi erano scomparse.
Quello che solo ora riesco pienamente a capire, e che Andreas stava allora cercando di comunicarmi, era che nell’utilizzo della tecnologia blockchain per lui gli scambi monetari erano un fenomeno del tutto secondario. Da giocatore e collezionista di Magic: the Gathering, una passione che con il tempo aveva lasciato il passo ad altre passioni più adulte, che erano il bondage, il drag e la programmazione al servizio della comunità open source, Andreas si era sempre domandato come avrebbe potuto digitalizzare il collezionismo. La blockchain era la risposta. Con la tecnologia blockchain finalmente i collezionisti di Magic di tutto il mondo avrebbero potuto scambiare la versione unica e digitalizzata di una carta.
Questa affermazione mi tornò alla mente e risultò più chiara quando tre anni dopo, nel 2016, mi imbattei nel progetto Rare Pepe Wallet.
La «febbre» dei Pepe Rari, ovvero la pratica di collezionare versioni insolite e poco diffuse del meme Pepe the Frog, era esplosa ben prima che Pepe salisse a sua volta agli onori o forse in questo caso ai disonori della cronaca, sotto forma di mascotte, dio e magico protettore dell’apparato mediatico neonazista (la cosiddetta alt-right), quando Donald Trump nell’ottobre del 2015 aveva ben pensato di ritwittare una caricatura di se stesso nelle sembianze di Pepe, taggando e strizzando l’occhio ai baluardi del blogging dell’estrema destra americana.
Come tanti prodotti artistici e memetici dell’Internet 3.0, i Pepe Rari erano nati nel 2014 nell’ombra dei thread di 4chan, DeviantArt, Tumblr, Reddit e forse ancor prima erano stati scambiati da chissà quali utenti in chat private e impossibili da tracciare, per motivi sicuramente lontani dalla propaganda politica, ma a loro volta privati e impossibili da tracciare. Risale all’ottobre del 2014 una delle prime conversazioni su 4chan relative al difendere i propri Pepe Rari applicando sull’immagine un watermark. Nella conversazione si allude a «un mercato», che è però il mercato dei meme quindi un mercato che risponde alla valuta dei like, della viralità e visibilità, e che dal 2016 in poi verrà ufficializzato dal subreddit r/MemeEconomy. Nella stessa conversazione si parla anche di arte; uno degli utenti infatti sostiene che il watermark rovini il valore artistico del Pepe Raro, coprendo in parte l’immagine. Sei mesi dopo, il 1° Aprile 2015 una collezione di .jpg di Pepe Rari («over 1200 rare pepes») viene messa all’asta su Ebay e raggiunge il valore di 99.166 dollari prima di essere rimossa dal sito pochi giorni dopo.
Al di là del troll d’aprile, è evidente che nel 2015 vendere dei .jpg su Ebay non era permesso dalle politiche della compagnia, per una semplice ma basilare questione del mercato dell’arte: per essere vendibile, l’oggetto artistico deve essere non solo «raro» ma anche «scarso» ovvero difficilmente replicabile.
A risolvere il problema della non replicabilità dell’arte dei Pepe Rari ecco dunque giungere in aiuto la tecnologia blockchain. Con mia somma meraviglia il sito Rare Pepe Wallet aveva iniziato dal 2016 a vendere Pepe Rari incorniciati in una grafica che era la diretta citazione alle carte di Magic: The Gathering. Come racconta Joe Looney, co-fondatore di Rare Pepe Wallet, il sogno del collezionista digitale era finalmente diventato realtà grazie ai Non-fungible token (NFT). Diversamente da una generica somma in criptovaluta, ad esempio un Bitcoin che, pur lasciando traccia dei suoi spostamenti sulla blockchain rimane perfettamente intercambiabile come una normale moneta o banconota, un gettone NFT è unico: non può essere scambiato con un altro gettone di valore equivalente, né cancellato. Questo lo rende adatto per rappresentare l’autenticità di un’opera digitale. L’NFT rappresenta a tutti gli effetti il corrispettivo digitale di una verifica notarile che un bene è raro, o addirittura unico come appunto un’opera d’arte, eliminando il notaio. Quando si acquista un Rare Pepe su Rare Pepe Wallet, quello che si acquista è una certa quantità di NFT, in questo caso brandizzati come Rare Pepe cash. La blockchain garantisce, ad esempio, che ci siano esattamente 4202 NFT associati all’immagine Nyan Pepe – per semplificare io immagino dei gettoni che sostengono la carta di Nyan Pepe e la spostano da un proprietario all’altro – e altri 7050 NFT associati a Warhol Pepe, o a Kardashian Pepe, o a Homer Pepe, che nel Gennaio del 2018 fu venduto all’asta per ben 350.000 Pepe Cash, allora corrispondenti a 38.500 dollari.
Mi piace pensare alla notizia della vendita di Homer Pepe come a uno spartiacque, un momento dal forte valore simbolico e iperstizionale. C’è tutto: l’epica figura di Homer Simpson, icona pop al pari dei Beatles e Madonna, ritratto nelle verdi sembianze del meme più mainstream che per ora la storia dell’Internet abbia mai conosciuto, su una carta d’oro, come d’oro era il «simbolo di espansione» indice di rarità in Magic: The Gathering, carte il cui valore monetario ha toccato vette senza precedenti nella storia del collezionismo delle carte da gioco.
Una macchina da clickbait, un coacervo di viralità all’ennesima potenza, e uno scambio monetario in cui nessuno di coloro che ha contribuito ad arrivare a questa esagerata accumulazione di valore riceve il minimo guadagno, da Matt Furie, disegnatore del primo Pepe, o Matt Groening, disegnatore del primo Homer, o Richard Garfield, il matematico, inventore e game designer che nel 1993 aveva dato vita a Magic: The Gathering, fino alle migliaia di memers che hanno fatto nascere il fenomeno dei Rare Pepe, o alle centinaia di developers che come Andreas Schildbach hanno contribuito a sviluppare le tante applicazioni per blockchain, per poi renderle open source. Un impiego di forze, quello della comunità dei creativi, e in generale degli utenti, che come vedremo è però fondamentale a creare un consenso di valore, o più semplicemente alimentare l’hype, e farci dimenticare che quella carta digitale è unica e irripetibile, soltanto perché è stata decretata come tale, all’interno del «gioco» delle cripto, dai giocatori stessi, ovvero gli investitori.
I primi a replicare un’impresa simile a quella di Rare Pepe Wallet furono i canadesi dello studio Dapper Labs, con un gioco di collezionismo e compravendita di gatti virtuali, i CryptoKitties. Un CopyCat di Rare Pepe e un altro grande successo, tale da congestionare il network della criptovaluta Ethereum, su cui gli NFTs dei gattini erano ospitati. A seguire immagino che molte altre realtà, appartenenti al mondo delle «crypto» abbiano provato a mettere in piedi qualcosa di simile. Imprenditori che cercavano di attingere alle bolle più vicine, investitori che tentavano di capire che cos’è l’arte digitale, curatori di arte digitale che tentavano di capire cos’era la blockchain, momenti strani per tutti. Giusto un mese dopo che Homer Pepe veniva battuto all’asta, fui contattata da un curatore di arte digitale, Bob Bicknell-Knight, che era stato a sua volta cercato da un pop-up Digital Art Marketplace, l’Iconic Show.
Iconic si presentava come il primo Digital Art Marketplace basato su blockchain, vantava sponsor di un certo livello, oggi spariti dal sito, che è ancora attivo. Dai canali social, si poteva capire che la parte fisica del Digital Art Marketplace aveva luogo in Russia. Quest’esperienza per me si limitò a uno scambio di email con la loro social media manager, e alla spedizione da parte mia di «un’opera digitale», un’immagine .jpg abbastanza orrenda di un occhio presa da Internet e rielaborata con un processo di artistic style transfer usando TensorFlow, uno script di deep learning preconfezionato. Dopo pochi mesi e passato il picco dei 20k dollari raggiunto dai Bitcoin in quel periodo, Iconic ricadde nel nulla. L’hype era sceso e con l’hype forse anche gli investitori avevano deciso di rivolgersi altrove.
Nel mio piccolo universo, un network di artisti, curatori e creativi che ho avuto la possibilità di conoscere per via del mio lavoro con Clusterduck, il collettivo multidisciplinare con cui mi occupo di studiare i processi e gli attori dietro alla creazione di contenuti digitali e alla loro diffusione su Internet, Iconic era comparso e scomparso come un corpo estraneo, una strana meteora che per caso era piovuta su di noi e con altrettanta velocità e casualità era poi scomparsa. Quell’anno per il Clusterduck era stato il primo anno di attività nel mondo dell’arte digitale, sebbene alcune di noi avessero già operato in questa realtà singolarmente. Come collettivo avevamo curato il padiglione Berlinese di Wrong Biennale, cercando di portare nel discorso proprio la relazione tra hype, iperstizioni e arte digitale. Dal nostro punto di vista l’arte digitale in questione era inscindibile dalla comunità e dai contesti in cui l’avevamo vista nascere e sopravviveva da anni nel bello e nel cattivo tempo. Ambiti e network vicini a Hito Steyerl, Eva e Franco Mattes, Camille Henrot, DIS Collective, Katja Novitskova, Carla Gannis, Jodi, Olia Lialina, Aram Bartholl, Domenico Quaranta, Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, solo per fare alcuni nomi, o riviste come Rhizome, E-flux, Neural, AQBN erano il contesto al quale la nuova generazione di artisti digitali poteva riferirsi. Come afferma Erica Lagalisse, a proposito del suo studio su massoneria e complottismi, anche noi ci trovavamo all’interno di «un progetto di ricerca (auto)etnografica», essendo contemporaneamente sia ricercatori che provavano a osservare il fenomeno dell’arte digitale dall’esterno, sia creatori o curatori di arte digitale che operavano dall’interno di una delle sue bolle. Guardavamo a creators, artisti e curatori che riconoscevamo come parte di questo mondo dai contorni confusi, Tom Galle, David OReilly, Ines Alpha, Molly Soda, Fantastic 3d Creation, Violeta Forest, Miyö Van Stenis, Paul Soulellis, Nicolas Maigret, Ruby Gloom, Mara Oscar Cassiani, Guido Segni, Philipp Teister. Mentre canali Instagram e riviste come Feltzine, Postvision, Antimateria, SiliconValet erano i luoghi vicini alla nostra bolla in cui, insieme a molti altri aggregatori, la nuova arte digitale ancora in via di definizione, saltando da termini ombrello ad altri termini ombrello (#vaporwave, #postinternet, #3dart, #glitchart, #cyberghetto, #aesthetic, #generativeart, #webglart, #internetart, #gameart, #memeart) veniva curata e ospitata, in un’altalena continua tra riconoscimento, accuse di dilettantismo e punte di viralità da capogiro, come racconta Valentina Tanni in Memestetica, da poco uscito per Nero Edizioni.
Da poche settimane gli NFTs sono tornati a trovarci, questa volta in pompa magna, salendo anche loro agli onori della cronaca. Si parla di cripto arte e dei nuovi Digital Art Marketplace, tra i quali spiccano Superrare, Nifty Gateway, MakersPlace, Zora, Seditionart, Foundation, piattaforme esclusive che accostano alle loro aste pubbliche e private tramite NFT hostati sulla blockchain di Ethereum editoriali, classifiche, selezioni, contributi curatoriali e un utilizzo attivo e costante di Twitter e Instagram, che negli ultimi mesi ha permesso loro di allargare il network, penetrando in molte delle bolle di cui sopra, compresa la nostra, in cerca di valore e consenso. Mentre l’hype degli NFT insieme ai Bitcoin sta – di nuovo – volando alle stelle, la febbre dell’arte digitale si diffonde nei luoghi più impensati. Tre giorni fa sono stata contattata da un giornalista di Milano Finanza, Marcello Bussi, che cercava di raccapezzarsi, e mi chiedeva come secondo me il mondo delle criptovalute andrà a influenzare il mercato dell’arte: c’era forse il rischio che i nuovi Digital Art Marketplace sostituissero le gallerie e le case d’aste tradizionali? Gli ho risposto che avrebbe vinto il più veloce.
Mentre scrivo è appena terminata l’asta della gif originale del Nyan Cat, venduto per 300 ETH, equivalente al momento della vendita a 587.000 dollari. Nel frattempo, in questa stessa settimana, una delle maggiori case d’aste tradizionale, Christie’s, che sul mercato attualmente è seconda solo a Sotheby’s, ha annunciato che metterà in vendita un NFT di Beeple, Everydays: The First 5000 Days, diventando la prima casa d’aste a lanciarsi nella compravendita di opere d’arte digitali. Christie’s comunica che Everydays: The First 5000 Days sarà venduto con allegata in blockchain una firma digitale dell’artista e tutti i «dettagli vitali» legati all’opera come l’ora della creazione, le dimensioni dell’edizione e un registro di eventuali vendite precedenti.
Un altro evento spartiacque che oggi genera nuovi titoli clickbait, giornalisti e blogger che invocano lo Stonk degli NFT: nella stessa settimana in cui le cripto fanno il loro ingresso nel mercato dell’arte tradizionale, la gif del gatto più famoso dell’Internet vola letteralmente verso la luna, superando qualsiasi altra somma spesa per ora sul giovane mercato degli NFT. Questa volta il ricavato della vendita andrà a Christopher Torres, allora @prguitarman, che a dieci anni esatti da oggi pubblicò la gif originale di Nyan Cat sul suo sito LOL-Comics, mentre il Digital Art Marketplace che ha ospitato l’asta, Foundation, tratterrà il 10% del ricavo. Lindsay Howard, community leader di Foundation, ha parlato di questo e di altri acquisti che i collezionisti compiono sulla sua piattaforma come un momento di diretto contatto con l’artista: «si ha l’impressione di supportare direttamente l’artista, e questo è molto eccitante per i compratori». Chissà se parte di quel ricavato arriverà anche a Sara, l’utente YouTube @saraj00n, che combinando Nyan Cat con il pezzo «nyanyanyanyanyanyanya!» rese effettivamente proprio quel gatto il gatto più virale dell’Internet. Sicuramente non arriverà a Daniwell, il producer che creò il pezzo, a sua volta utilizzando il Vocaloid di Hatsune Miku, o ai milioni di utenti che hanno contribuito a rendere il Nyan Cat quello che è oggi, tra cui cito la quasi altrettanto virale versione di Nyan Cat realizzata per onorare le gesta del gruppo hacker LulzSec. E chissà se questo tipo di informazioni potrebbero mai essere incluse nei «dettagli vitali» dei futuri meme che verranno ipoteticamente battuti all’asta da Christie’s, Sotheby’s, Phillips o China Guardian. Per ora Christie’s si è limitato alla vendita di un lavoro che è esclusivamente e senza ombra di dubbio creato da un singolo autore: Beepie.
Quest’estate mi sono ritrovata a tracciare l’origine di antichi meme e ritrovati digitali, per un progetto trasmediale ancora in costruzione che porto avanti con Clusterduck, che rientra anch’esso sotto il termine ombrello dell’arte digitale, e che, pur assomigliando in modo perturbante a Everydays: The First 5000 Days, ha a che fare molto più con il contesto e le modalità collettive in cui nacque Nyan Cat. Per questo motivo, con Clusterduck durante questi mesi abbiamo avuto modo di interrogarci a lungo sul valore che i meme, come in qualche misura una qualsiasi opera digitale, potrebbero avere una volta estrapolati dal loro contesto. Al pari delle opere di performance partecipativa, o di alcune forme di new media art, i meme esistono in un dato periodo per un dato motivo storico, talvolta politico, spesso subculturale, e si diffondono su supporti per natura effimeri come le chat, i thread e i commenti in gruppi privati. Per questo un meme non dovrebbe essere considerato un’unità autonoma di informazione che si propaga in rete seguendo un modello di diffusione «spaziale» e «virale», e di conseguenza non dovrebbe essere venduto come tale.
Come mi ha scritto Wade Wallerstein, curatore d’arte digitale e fondatore di Silicon Valet, a cui un paio di giorni fa avevo chiesto di commentare la situazione dal suo punto di vista, nessuno dei nuovi Digital Art Marketplace per ora si prende cura di inserire il contesto dell’opera d’arte nell’iscrizione in blockchain che dovrebbe certificare il valore dell’opera (dove è stata mostrata, chi ne ha scritto e così via), altri «dettagli vitali» omessi. Inoltre, osserva Wade, la maggior parte delle piattaforme citate sopra non espongono opere d’arte a tutti gli effetti, ma soltanto versioni ridotte dell’opera iniziale, riducendo il lavoro dell’artista a quella che non è nient’altro che una carta collezionabile digitale. È come se l’opera digitale, per esigenze tecniche fosse diventata anch’essa una carta di Magic: The Gathering.
Io stessa, incuriosita dalla rottura della bolla che queste piattaforme stanno provocando, mi sono ritrovata qualche sera fa a guardare di chi erano effettivamente le opere battute all’asta. Al di là del caso eclatante di Nyan Cat, molte delle opere digitali vendute in questi giorni – a prezzi che vanno dagli 11 ai 2000 dollari, fino ai 10.000 dollari – provengono da artisti o creators di tutti i tipi, dal designer o visual artist emergente alla 3D artist già un po’ affermata, per aver lavorato a video musicali, o aver partecipato a show di digital art, o essere stata pubblicata su riviste come Juxtapoz, o nei casi più straordinari per una feature su Adult Swim. Dalle informazioni fornite sul profilo talvolta è impossibile capire se l’artista ha già esposto da qualche parte o se sta fingendo di essere qualcosa che non è, e in quel caso mi domando se dietro la maschera fornita dall’approvazione, l’hype e il consenso della comunità appena nata del Digital Art Marketplace in questione non si celi l’ennesimo corpo estraneo, turista, troll, cercatore d’oro. Poi immagino i curatori o chi in questo momento si sta occupando della selezione dei nuovi creators in lista d’attesa. Non deve essere un lavoro facile. La cartina tornasole è però spesso fornita dal link al profilo Instagram o Twitter degli artisti, dove ci si può orientare leggendo la bio o facendo riferimento a bolle più familiari. Esplorando con attenzione mi è persino capitato di trovare creators provenienti dalla mia bolla che erano riuscite a vendere qualcosa e di pensare «buon per te, sorella». Che il mondo dell’arte digitale sia composto in gran parte di creativi condannati a fare due lavori, quello artistico o creativo non pagato e che però richiede un lavoro di autopromozione costante e quello del corporate, dei brand, dei lavori sottopagati come liberi professionisti, o nella migliore delle ipotesi, come dicevo, dei video musicali e delle visuals ai concerti, non è certo un segreto, e in questo scenario come ci insegna Dr. Pira, «essere pagati per fare cose a caso» è un obiettivo del tutto auspicabile.
Continuando la mia perlustrazione nei Digital Art Marketplace noto che alcune delle opere esposte sono diretti riferimenti a Elon Musk, e non a caso. Insieme a Chamath Palihapitiya, chief executive di Social Capital e in precedenza dirigente di Facebook, Elon Musk ha largamente pubblicizzato i suoi investimenti in NFT, ricevendo gesti di estrema gratitudine da parte dell’attuale comunità cripto, dovuta ovviamente anche al recente acquisto da parte di Tesla del corrispettivo in Bitcoin a 1,5 miliardi di dollari, e ai suoi seguitissimi Tweet. Questo ci porta a un’altra questione da esplorare, ovvero: chi sono i maggiori collezionisti? Parlandone con Valentina Tanni, e come ci faceva notare Salvatore Iaconesi in un dialogo tenuto in chat, si tratta probabilmente di persone che hanno improvvisamente accumulato grandi somme di denaro in criptovalute e che oggi si trovano a sperimentare nuove possibili forme di mercato. Scrollando tra le opere attualmente in vendita è impossibile non notare dichiarate allusioni al criptoanarchismo anarcocapitalista, secondo il quale attraverso le cripto non solo il mondo dell’arte, ma anche quello della finanza potrebbe finalmente liberarsi dal giogo dei gatekeeper, dei galleristi, dei notai, a favore di un potere distribuito e decentralizzato, e per questo acquistare un francobollo digitale che ritrae l’iconico volto di Vitalik Buterin – co-fondatore di Ethereum – accanto a un alieno o in missione nello spazio circondato da unicorni e gattini è un gesto che per un crypto rich assume, come mi suggerisce Valentina Tanni, un alto grado di performatività simbolica. Del resto, le enormi quantità di denaro che in questo momento si trovano non nelle banche o investite in titoli azionari ma nelle cripto, e che da pochi mesi hanno superato il trilione, facendo l’insieme delle cripto la quinta valuta più usata al mondo, devono andare a finire da qualche parte, ovvero devono essere investite, e quindi ecco il mercato dell’arte digitale finalmente prendere il volo.
Alle questioni artistiche e politiche si aggiungono problemi di tipo ambientale. Come racconta Joanie Lemercier, le conseguenze disastrose che la blockchain ha sull’ambiente per l’ingente di quantitativo di energia elettrica e acqua che i server necessitano per minare nuovi blocchi di transazioni verificate, hanno portato alcuni artisti a ritirare le loro opere dai Digital Art Marketplace, dopo la sconvolgente e a quanto pare inaspettata scoperta da parte della stessa Joanie che l’asta di sei delle sue opere digitali aveva richiesto un dispendio energetico al pari di quello che in due anni era occorso per alimentare la luce elettrica e i computer del suo stesso Art Gallery Studio.
All’alba di quella che potrebbe essere una nuova era nel mondo del collezionismo d’arte, Joanie come molti altri artisti e curatori chiede onestà e trasparenza nei processi alla base dei nuovi Digital Art Marketplace. Si dice che lo scaling immediato di Ethereum risolverà il problema energetico degli NFT hostati su Ethereum. Si dice che la cripto arte potrebbe finalmente portare l’arte digitale da uno stadio subculturale a uno culturale.
Io, insieme alla mia piccola bolla, rimango convinta che non siano possibili Digital Art Marketplace etici sotto il capitalismo.
Nota: In questo articolo un po’ per gioco un po’ per amore dell’attribuzione ho voluto chiamare con nome e cognome, come di solito non si fa, tutte le persone con cui mi sono ritrovata a scambiare idee sulla questione. Oltre a loro ringrazio Franziska Von Guten, Noel Nicolaus, Aria Mag e Tomato Cappelletti, che dal 2016 mi accompagnano nel lavoro del Collettivo Clusterduck, ringrazio anche per i consigli sul tema cripto e Crypto Marketplace Giacomo Vannucchi, Gregorio Magini, Umberto Bosco e la persona che nel 2013 mi fece conoscere quei Bitcoin che non ho mai acquistato (*sigh*): Giulio Ammendola.