Pink Washing vs. Genderpolizei
Se non lo sapete, Madre! è un film femminista. Almeno così la mette Jennifer Lawrence, che del film è la protagonista principale e che a Variety ha dichiarato: «Perché un film sia femminista, non è necessario che le protagoniste siano tutte donne e tutte aggressive». E ancora: «persino prima che il mondo sapesse cosa il femminismo fosse, già c’erano romanzi che mostravano come la forza delle donne venisse prosciugata dal mondo che le circondava». Per capirci, il modello a cui Lawrence fa riferimento è Jane Eyre e il romanzo vittoriano.
Così dunque il nuovo, discusso film di Darren Aronofsky. Negli ultimi anni però, nel caso non ve ne foste accorti, di pellicole femministe ne sono uscite tante – almeno secondo la critica. Tra queste, per restare solo a qualche titolo, basti citare Frozen, Elle, Mad Max: Fury Road, L’inganno e, naturalmente, Suffragette. E poi c’è l’ultimo Wonder Woman diretto da Patty Jenkins: film femminista anche quello, certo. Forse non molto vittoriano, ma alla fine che importa?
Quanto personalmente mi siano o meno piaciuti Madre! o Wonder Woman, conta poco (sul secondo, avremo comunque modo di dilungarci più in là). Quello che qui interessa, è come interpretare l’aggettivo «femminista» per come recentemente impiegato dalla critica, in questo caso cinematografica. Vogliamo dire che Wonder Woman è un film femminista? Benissimo, ma innanzitutto chiediamoci: di quale femminismo stiamo parlando? E poi: a quali categorie ricorrere per stabilirne il supposto «tasso femminista»? Ma soprattutto: ha senso applicare etichette del genere a un’industria che tutto fagocita e tutto consuma come quella cinematografica? Non avrebbe più senso decostruire i prodotti di questa stessa industria, per capire innanzitutto che tipo di femminilità e che tipo di femminismo vengono al momento proposti dal mercato e adottati da una cultura pop sempre più omologata e accomodante?
Quello che intanto è certo è che, persino nell’epigonale dibattito italiano, l’annosa questione delle politiche di genere è non solo ufficialmente approdata nel mainstream della critica, ma sembra addirittura ineludibile quando sullo schermo compare un soggetto dotato di caratteri sessuali primari e secondari identificabili come femminili (a maggior ragione se lo è anche quello dietro alla macchina da presa). È un film femminista? Stando a un certo tipo di critica, non si può più uscire dalla sala senza essersi preparati una risposta, un’opinione al riguardo. È un film «empowering», sì o no? Motivare la propria risposta. A leggere certi interventi, sembra quasi un tema delle medie: sposa una tesi e dimostrala. E via a discussioni infinite sui social tra fazioni opposte, alla ricerca del film che incarni tout court il nuovo spirito della donna emancipata.
Valutare un film in base a un suo generico «contenuto femminista» è una trappola in cui cadono anche i migliori (I plead guilty, Your honour!): la mia impressione però, è che è alla prova dei fatti sia un passatempo futile, naif e pure un po’ irresponsabile sia dal punto di vista analitico che politico. Il fatto è che questo «gioco dell’estate» rende totalizzante l’orizzonte dell’ultima diatriba politica apparentemente rimastaci: e cioè proprio quella sul genere. Non si tratta di una battaglia dal posizionamento facile, sia chiaro: dividersi in liberal-progressisti e conservatori, pare difficile in un momento storico in cui uno degli esponenti di spicco della destra populista tedesca è una donna lesbica, in cui rossobruni alla Diego Fusaro possono sostenere che «l’ideologia gender» è prodotto e stampella del turbocapitalismo, e in cui non sembra una fantasia eccessivamente situazionista immaginarsi una ridiscesa in campo di Berlusconi che si fa portavoce delle sex workers.
Certo, il fatto che – nonostante la confusione ideologica che regna attorno ai temi «del gender» e del cosiddetto femminismo della terza ondata – il dibattito si sia fatto così acceso, può essere salutato con entusiasmo. Ma può anche essere letto come un palliativo dell’assenza di un confronto politico capace di concentrarsi sui temi che avrebbero potenzialmente un effetto concreto sull’autodeterminazione di genere. Attenzione, non si vuole sostenere che occuparsi di questioni «sovrastrutturali» (come i prodotti culturali o il linguaggio) sia futile, né che occuparsene implichi perdere di vista la bigger picture – non solo perché energie e risorse per affossare il patriarcato sono inesauribili, ma anche perché, in tempi tanto bui, qualsiasi contributo è ben accetto. Il problema nasce quando queste questioni vanno a saturare interamente un dibattito che, una volta privato di un posizionamento in termini sia politici che economici, perde la sua connotazione come tale: che è poi esattamente quello che è successo con tanto «femminismo pop» dilagante. Le forme e i modi in cui si svolge oggi questo dibattito che pure si crede engagé, sembrano obbedire proprio alle esigenze di un sistema che isola i suoi appartenenti riducendoli a nient’altro che una voce, un’opinione tra le tante. Ma, ovviamente, originalissima.
La disputa sul gender, e in particolare quella sul femminismo, e ancora più specificatamente quella applicata a prodotti culturali leggibili in questi termini, in questo senso non fa eccezione: la segmentazione di quello che sarebbe anacronistico definire «movimento» rende impossibile un’unanimità sui simboli di quella che sarebbe altrettanto anacronistico definire «battaglia». Perché di femminismi ormai ne esistono tanti, e nel suddetto calderone finiscono pensieri, voci e istanze non solo distanti tra loro ma addirittura opposti. Per esempio: un’icona a caso del «femminismo della differenza», con la sua insistenza sulle irriducibili differenze tra uomo e donna, sarebbe quasi sicuramente intollerabile per il transfemminismo queer, che quelle differenze punta a superarle. E anche all’interno di queste fazioni, l’individualismo e il protagonismo attuale fanno sì che la malintesa necessità di vedersi «rappresentati» in un’opera di finzione come può essere un film, rendano impossibile non solo un parere condiviso ma anche una discussione produttiva e civile. Perché, a fronte dell’individualismo estremo della nostra epoca, o forse proprio per questo, sembra sia diventato impossibile guardare un film se non ci si può riconoscere, identificare, sentirsi rappresentati.
Per fare un esempio celebre, Thelma e Louise, emblema per alcuni della sorellanza contro il patriarcato, fece già ai tempi inalberare parecchie lesbiche che avrebbero caldeggiato una love story tra le due un po’ meno closeted. D’altra parte, se in un film vediamo una protagonista malvagia, violenta, o una femme fatale, potremmo interpretarla come un segnale inequivocabile della misoginia del suo autore; mentre se a venir rappresentate sono donne vittime che subiscono la violenza maschile… pure: sarebbero la dimostrazione del godimento sadico del regista. Questo, ça va sans dire, indipendentemente dalla forma e dai modi della rappresentazione.
Si tratti di un dramma o di un thriller, per non parlare dell’horror, qualsiasi film che superi il test di Bechdel e che contempli almeno una donna tra i protagonisti si muove su un terreno scivoloso ed eticamente compromesso, pare. Se ci rivolgiamo alla commedia o al cinema d’autore, donne meno emotivamente inette dei loro compagni vengono tacciate di complesso della «manic pixie dream girl», cioè di rappresentare nel plot l’agente funzionale al protagonista (maschile) per ritrovare l’ispirazione o il senso della vita. Donne autodeterminate e non più relegate al ruolo di comprimarie ci vanno bene, ma attenzione a non farle troppo cool o verranno tacciate di rappresentare un modello di perfezione inarrivabile per le giovani e ingenue spettatrici. Rappresentare una donna (magari trans e di colore) realizzata e soddisfatta, vorrebbe dire ignorare le discriminazioni che tante altre donne nella stessa condizione vivono, mentre focalizzarsi su questa discriminazione potrebbe comportare il rischio di feticizzare la sua condizione di subalternità o di scadere nel miserabilismo.
In altri termini, la conseguenza paradossale di questa rinnovata attenzione ai temi della discriminazione femminile è che sembra sia diventato impossibile rappresentare una donna senza offendere qualcuno o escludere qualcun altro (o meglio, altra. No, meglio ancora: altr*). È chiaro che, in questo atteggiamento da genderpolizei, c’è qualcosa non va. Anche perché è un approccio che non fa bene né al cinema, né soprattutto alla stessa causa femminista.
La critica (termine al cui interno infilo tanto la semiestinta classe di professionisti delle grandi testate sia tutta la serie di prosumer di cui fa parte qualsiasi persona che abbia mai speso due parole su un film in una chat di Facebook) sembra oscillare senza soluzione di continuità tra mansioni da ufficio stampa (non retribuito) per film considerati ideologicamente «idonei», e un atteggiamento censorio che comprende uno spettro che va dallo sdegno a un oscurantismo degno delle crociate antiporno di Andrea Dworkin. Prendiamo un titolo controverso come Elle di Paul Verhoeven, presentato lo scorso anno a Cannes; vista la trama, è quello che si dice un caso eclatante: tra le tante cose che succedono in questo film complesso e assai godibile, un’Isabelle Huppert più impassibile del solito finisce per infatuarsi del suo stupratore. La gamma delle risposte critiche varia da chi grida al condono se non alla celebrazione della rape culture, a chi nell’aplomb di Huppert che non si lascia condizionare dal trauma legge una sottile forma di vendetta di genere e di ribaltamento del suo ruolo di vittima. Una vendetta a sua volta meno sanguinaria di quelle dei vecchi film rape & revenge tacciati a loro volta di misoginia, e più consona al «femminile». Ma occhio a non farne un discorso psicoanalitico su come funziona il desiderio femminile, perché allora ci tacceranno di essenzialismo, oppure di suggerire alle donne che non dovrebbero più denunciare i loro aguzzini ma andare avanti con la loro vita e tirare fuori le palle.
Di nuovo, il tema sembra essere quello della normatività, o meglio della prescrittività. Questo film va bene o non va bene? Il problema nasce quando si vuole far derivare una prescrizione da una descrizione (è la legge di Hume) e a maggior ragione quando si vuole far derivare una prescrizione da un’opera di fiction: che è una fantasia, una rielaborazione, e non una descrizione. La rappresentazione di una donna diventa un discorso che riguarda tutte le donne, e il personaggio femmina continua a essere definito dal suo genere anche da quelli che sembrano avere a cuore la sua liberazione. Questa universalizzazione automatica è forse la forma più estrema di quel labeling o branding che dir si voglia (un film che parla di una donna o che è diretto da una donna si rivolge automaticamente a un pubblico di donne e automaticamente parla della Condizione Femminile), a cui il nostro stesso cervello ormai è abituato: la necessità di leggere in chiave femminista ogni testo che ne contempli la presenza ne è una prova.
L’impossibilità della neutralità per il femminile viene di nuovo riconfermata, e allo stesso tempo (e non per caso) la lettura prescrittiva viene applicata anche all’opera cinematografica tutta, erigendo nuovi tabù visivi. Lo testimoniano le accuse di sessismo rivolte dalla stampa anglofona a Mektoub my love: Canto Uno di Abdellatif Kechiche, uno dei film migliori di quest’anno a Venezia; in questa recensione, l’autore conclude che «va bene usare un personaggio vouyeur per soddisfare il proprio voyeurismo, ma se lo fai non puoi discostarti dal suo punto di vista soggettivo». Stabilire simili criteri a priori, anche con le migliori intenzioni e sulla base di ambizioni paritarie, appiattisce l’opera sul suo messaggio, e la polemica sui ruoli di genere su posizioni riduttive che non si incontreranno mai.
Ma c’è anche un motivo meno raffinato che lascia intendere come questo tipo di lettura non vada oltre le chiacchiere da bar e un generico «gusto personale» che peraltro appare sempre più uniformato, anestetizzato e basato su criteri di identificazione e rassicurazione, sulla scia della logica perversa dei safe space e dei trigger warning di stampo angloamericano; e questo motivo è che, prosaicamente, al mercato non gliene frega un cazzo.
La nuova ondata di rivendicazioni femministe è stata cooptata con straordinaria agilità da un mercato ansioso di stare al passo con i suoi consumatori.
In soldoni, il dibattito sul «messaggio femminista» del film di turno ha senz’altro fatto sì che – pur tra polemiche e dibattiti interni – il pubblico diventasse più sensibile a certe tematiche, e questo senza dubbio è un bene. Solo che queste tematiche sono state naturalmente cavalcate da un mercato smanioso come al solito di appropriarsi di quegli ultimi interstizi rimasti di umanità; e per «umanità» non intendo cose come le fantomatiche «fasce ancora targettizzabili», ché le donne e i gay al cinema ci vanno da mo’ e anche parecchio di più dell’uomo etero medio. Intendo proprio quello che ci resta di umano in un mondo governato dal profitto.
Così, il discorso è stato pervertito, appiattito e confezionato ad arte secondo le logiche del corporate feminism. Un processo che, pur nella sua apparente e benigna democratizzazione e accessibilità, ha il macroscopico problema di occultare una verità banale ma sempre meno evidente: e cioè che l’ideologia di mercato non è compatibile con l’emancipazione delle minoranze. Questo va riconosciuto senza complottismi di sorta, e senza voler tacciare di cattiva coscienza chi si impegna a lavorare dall’interno dell’industria culturale proponendo prodotti che ambiscano quantomeno a educare il pubblico su concetti purtroppo non ancora abbastanza ovvi («feminism is the radical notion that women are people», pare abbia detto Marie Shear; ma lo dicono anche tante t-shirt in vendita su amazon a 21,49 euro).
Non occorre tirare fuori Adorno per comprendere che anche il messaggio più rivoluzionario può diventare una merce, o tornare alla differenza tra «prodotto culturale» e «opera d’arte». Nell’epoca dello strapotere del mercato – un’epoca in cui non solo le cose hanno sempre un prezzo, ma in cui nessuno sa dove e a chi lo sta pagando: è il caso ad esempio dello streaming, o di Google – la nuova ondata di rivendicazioni femministe è stata cooptata con straordinaria agilità da un mercato ansioso di stare al passo con i suoi consumatori, e ogni tipo di discorso, apologetico o detrattore, alimenta tutta una nuova fetta di consumi sempre più redditizi.
A fronte di questo tipo di marketing, chiunque ambisca a fare informazione e riflessione attorno a un prodotto e non solo clickbait, farebbe forse meglio a smettere i panni di certe innocue parodie da «comitato etico» a cui la critica ci ha recentemente abituato. Ribadiamolo ancora una volta: questo ovviamente non equivale a dire che si debba rinunciare alla riflessione sul genere. Ma quello che si può sensatamente fare, in nome di un sano femminismo supportato dalla propria capacità di leggere un testo filmico, è semmai – come suggerivo in apertura – domandarsi che tipo di femminilità proponga il film. E da lì, cercare davvero di riflettere sull’odierno zeitgeist riguardo a questi temi.
Torniamo a un caso di scuola come Wonder Woman, ultimo fulgido esempio di pink washing applicato. In questo caso, ha senso piegarsi alla magra consolazione del debunking, oramai ultima spiaggia per chi ambisce ancora a fare del giornalismo (anche culturale) degno di questo nome. Stiamo in effetti parlando di un film che puntava precisamente a: 1) coinvolgere il pubblico ampissimo e prevalentemente maschile dei blockbuster sui supereroi, e 2) intercettare un bacino d’utenza nuovo e lontano per questo tipo di prodotti, vale a dire il pubblico femminile.
Ora: la Diana Prince del film di Patty Jenkins (già regista di Monster) è molto diversa non solo dall’eroina dei fumetti creata dallo psicologo poliamoroso William Moulton Marston nel 1941, ma anche dalla protagonista dell’omonima serie TV prodotta in America negli anni Settanta. In quel caso, le forme generose di Lynda Carter (già Miss Mondo 1972) ricordavano effettivamente quelle dell’originaria pin up disegnata da H.G. Peter per la DC Comics. Al contrario, la Gal Gadot scelta da Jenkins come protagonista del film, ha un fisico più androgino, meno sviluppato, più da ragazzina sportiva che non da matrona: spalle larghe, gambe secche, bacino stretto. La nuova Wonder Woman, svestita dell’aura da dominatrix che aveva nella connotazione datale dal suo creatore patito di bondage, è più un’amazzone che non una virago come quelle disegnate da Crumb ed elogiate da Nöel Burch.
Angela McRobbie, nel suo ormai classico The Aftermath of Feminism (2008), parla del compromesso richiesto alle donne in cambio dell’emancipazione, un’emancipazione concessa alle ragazze dotate di «una sessualità giovane, latente e in procinto di esplodere», non minacciosa né predatoria. Diana/Wonder Woman è in questo senso un esempio perfetto. Cresciuta nell’isola di Lesbo (pardon, Themyscira), è inconsapevole del proprio sex appeal sugli uomini: un fattore imprescindibile per ambire a essere eroine positive, lontane dall’uso scaltro e calcolatore del proprio fascino di una temibile femme fatale. Diana ci viene non a caso presentata in primo luogo come un’ingenua: scaraventata nell’Inghilterra della Grande Guerra, si aggira sprovveduta per le vie di Londra. Vergine, illibata, rigorosamente eterosessuale, si dona anima e corpo al primo maschio che incontra, proprio come in un cartoon Disney (e infatti la scena del salvataggio sulla spiaggia sembra citare inquadratura per inquadratura La sirenetta, mentre tutta la parte sull’isola ricorda moltissimo il recente Oceania). Del resto, crede nell’Amore e la sua missione è sconfiggere Ares, dio della guerra. Riecheggiano temi materni, la vecchia retorica secondo cui «se le donne governassero il mondo non ci sarebbero le guerre», quella stessa retorica che vuole Angela Merkel o Margaret Thatcher «donne troppo mascolinizzate», non «vere donne». Quanto è femmina questa Wonder Woman? E quanto il suo esserlo o meno renderebbe il film un manifesto femminista? Non sa/non risponde. Siamo tornati all’impasse iniziale.
È un punto di vista da cui non si esce. Proviamo allora ad adottarne un altro: nella sua missione pacifista, accomplished a suon di cazzotti, Diana si contrappone all’altra icona DC Comics, ovvero Superman. Wonder Woman propone un altro ordine rispetto a quello bellicoso e patriarcale, ed è disposta a imporlo a un’umanità di cui comunque ha compreso tutti i limiti, la corruzione e l’indegnità. Se Superman incarna l’American Way of Life e il suo ideale della giustizia, Wonder Woman annienta il suo antagonista (che sostiene che la specie umana non merita di essere salvata) al grido anticapitalista secondo cui, literally, «non è una questione di merito: è questione di quello in cui si crede». Ebbene sì: i fanatici della meritocrazia infame sono avvertiti!
Ecco, più che in un generico e lezioso «Amore», Wonder Woman crede in un modello sociale che tiene conto dell’interesse individuale ma che al contempo aspira a trascenderlo. Professa l’armonia e la pace, ma per ottenere l’una e l’altra non ha timore di ricorrere alla violenza ove necessario. E allora: se più che un’eroina femminista Wonder Woman fosse un’eroina marxista?