False speranze
Nel romanzo Miden di Veronica Raimo il peggior scenario possibile si è già materializzato, quindi gli viene fatto riferimento così, en passant: «il crollo», si dice, e tutti quanti sanno di cosa si sta parlando. Negli anni successivi alla pubblicazione di Lunar Park, invece, Bret Easton Ellis teorizzava la separazione culturale tra empire e post-empire, prima in senso vago per spiegare come stava cambiando, secondo lui, il concetto di immagine pubblica a partire dall’uscita di testa dell’attore Charlie Sheen, poi stabilendo che «l’impero» erano stati gli anni della supremazia economica e ideologica degli Stati Uniti, dalla Seconda Guerra Mondiale all’11 settembre: tra i vecchi valori condivisi la parte del leone toccava al dare l’impressione di non avere problemi. Mettersi la maschera, mostrarsi umili, grati per i successi ottenuti, in una recita concordata che premiava le buone maniere. Dopodiché, la maschera aveva cominciato a tremare: potevi solo strappartela, rigettare l’artificio invisibile della socievolezza – portare alla luce quella che Francis Bacon nelle conversazioni con David Sylvester definiva the brutality of fact, «la brutalità delle cose».
Volendo tentare un linguaggio adatto al tempo presente, dovremmo stabilire quando è andato tutto a troie e come chiamare la linea che separa il mondo antico (quello in cui eravamo disposti a credere che sarebbe andato tutto ok e il buon senso avrebbe prevalso) dall’incubo in cui siamo destinati a vivere, se tutto va per il meglio, ancora due o tre anni. Nel contesto di questo breve saggio, direi di parlare della fine. Ne parliamo un sacco tutti quanti tra di noi, diamole un nome. Si è cominciato nel post-Brexit (e post-Trump, e post-Salvini, e post-Bolsonaro), il rapporto sul clima ci ha dato la mazzata. Dobbiamo prepararci alla fine, in fondo un po’ siamo sollevati perché almeno adesso sotto gli occhi di tutti c’è la fine, eccetera. Fa molto Last Night, e qualcuno la trova eccitante quest’atmosfera di sbaraccamento, nasceranno nuovi amori nei prossimi trenta secondi. Ma non abbiamo un’iconografia da bollettino dei Testimoni di Geova per guidarci attraverso il paesaggio che ci aspetta. Al massimo abbiamo il delirio, la polvere. L’isolamento che ci siamo cercati.
Poteva andare diversamente.
Poco prima della fine, durante la campagna elettorale di Donald Trump e soprattutto dopo l’insediamento alla presidenza degli Stati Uniti, una contrazione in apparenza vitale la si poteva notare nella valanga di coming out relativi all’orientamento sessuale e nella spontaneità con cui questi accadevano. Era buffo. Torniamo con la memoria al 2016, circa, quando quasi ogni giorno nei trending topic di Twitter appariva un nome e cognome mai pervenuto: nasceva la domanda – e questo chi cazzo è? – a cui seguiva la risposta di Google – è il settimo nome sui titoli di testa di un telefilm procedurale della ABC che non si fila nessuno; è una modella famosa su Instagram. E perché stava facendo notizia globale? Niente, era femmina e aveva pubblicato uno scatto con la fidanzata. Aveva detto «sono bisessuale, siate liberi, maschi uguali a me». Il nuovo ordine era stato notificato con uno status e una fotografia. Minimo sforzo, massimo risultato.
La logica umana, dietro l’uscita impulsiva, per un po’, prometteva bene. Una persona spesso giovane, con un piccolo nome spendibile, dava l’addio ai futuri alti guadagni che si sarebbero concretizzati a patto di comportarsi bene, simulare la normalità; pensava, in sottotraccia, che il mondo stesse peggiorando a un punto tale che fosse un gesto politico dare il proprio contributo, anche solo per far sentire meno disperato un singolo adolescente in una cameretta di Cosenza. (La cameretta è sempre angusta, l’adolescente ha sempre un lenzuolo tirato sopra la testa e piange ripetendo «leave Britney alone!».) E sì, certo, vuoi mettere il sollievo del togliersi quel peso dal cuore, finalmente?
La presidenza Trump ha fatto saltare la maschera a molti. Ma questa fioritura di genuinità distruggeva il copione del coming out appena lo si era messo a punto in una maniera tale da non umiliare nessuno degli attori sociali in gioco.
Un balzo all’indietro. Correva l’anno 2015 e Caitlyn Jenner annunciava la sua esistenza a un mondo ignaro. Per arrivare al punto di non ritorno – la messa in onda di uno special televisivo – ci erano voluti mesi di trattative documentate: serviva una giornalista empatica, sinonimo di interviste a gente seria, la cornice rispettabile di un programma di approfondimento alle ore 21:00, la collaborazione di amici e parenti, l’intesa con il settimanale ad altissima diffusione che avrebbe dedicato a Caitlyn la sua prima copertina femminile, un lungo servizio affidato a Buzz Bissinger, celebre per i suoi reportage. Tanto lavoro. Tutta questa produzione serviva a Jenner per uscirne il più pulita possibile, stando in primo piano a raccontare la sua storia. Lei riteneva, con qualche ragione, di essere stata troppo criticata per l’aspetto fisico (vero, Bruce Jenner veniva sfottuto da anni, chiamato donnuomo e peggio); si considerava danneggiata dalla fuga di notizie personali (vero; «ehi, Bruce, stai cambiando sesso?»); voleva vivere la sua verità ma era diventata una persona pubblica nel 1976 e non aveva mai smesso di raccontare bugie. E ovviamente partiva in quarta dicendo che sarebbe diventata l’ambasciatrice mondiale della comunità transgender.
L’arrivo di una celebrità alla nicchia portava vantaggi (Jenner pedalava sotto i riflettori da decenni, era stata il maschio americano DOC) e alcuni svantaggi che si sperava di contenere (Jenner si dava ai diritti civili con l’ingenuità delle donne ricche e la pretesa di sapere tutto perché ci era passata pure lei). Le hanno fabbricato sopra un docu-reality, Io sono Cait, che nella seconda stagione diventava una rivolta degli schiavi, le attiviste reclutate per dare legittimità al programma in aperta rotta con la star. Che ora sgorga lacrime amare per il suo sostegno a Trump, in un coro di «ma dai, giura».
Lo stesso, per un coming out decente ci voleva un’ingegneria sociale e un dispiego di mezzi notevoli. Basta vedere quante fragilità ha presentato il rebranding di Rose McGowan, partito prima del caso Weinstein e del ruolo chiave che l’ex attrice ha giocato nell’inchiesta. McGowan aveva iniziato a fare baccano nell’estate 2015, quando con una serie di tweet sbeffeggiava gli standard di bellezza imposti alle attrici per un provino. La svolta conscious ha preso velocità, lei è stata messa sotto contratto nel 2016 per un libro memoriale, uscito nell’autunno 2017 con il titolo Brave, che ha avuto la fortuna e la sfiga di arrivare nei negozi a #MeToo appena scoppiato. McGowan usciva allo scoperto come «la vera se stessa», la principessina dormiente che apriva gli occhi dopo vent’anni di manipolazione. Il suo voleva essere un riposizionamento a 360 gradi: non più bambola ma artista/attivista in difesa delle donne maltrattate di tutto il mondo.
Ci sono stati dei problemi. Alcuni strutturali, evidenti a chi ha letto Brave (forse non l’avrete definito una via crucis di minchia, tutte a te?, ma al decimo racconto di maltrattamenti ad opera di orrendi ceffi bavosi seguito da «… e questo è un classico esempio del sistema patriarcale capitalista» vi potrebbe essere scappato il gesto del «meno» con la mano per aria), alcuni di percezione – libro e interviste trasudavano conti non chiusi, c’era una bella rabbia, ma non bastava. Il reality Citizen Rose, che doveva essere il manifestino trionfalista di una vita libera, è stato rimontato dal secondo episodio per andare dietro a una realtà innegabile: durante la promozione del memoriale McGowan non ha retto lo stress del dover rispondere sempre alle stesse domande – dicci nei dettagli cosa ti ha fatto il predatore – e di alcune contestazioni molto aggressive. (L’ha reso un reality migliore, meno composto? Ma sì.)
Il personale sa anche rendere ciechi a qualsiasi forma di disagio, marginalizzazione o ingiustizia non sia esattamente uguale alla propria. Eppure ci siamo cascati in tanti.
Forse McGowan la ricorderemo per essere stata l’ultima persona che voleva agganciarsi a un tessuto comune, una lotta, magari mettendosi in saccoccia un kit di alleati pronti all’uso, magari perché voleva essere la faccia pubblica di qualcosa in cui credeva. Lo scorso ottobre in una città del Nord-Est italiano ho partecipato a un dibattito con l’esponente del capitolo locale di Non Una Di Meno, la quale ha detto «Asia Argento ci ha usato, e noi abbiamo usato lei». Intendeva, immagino, la doppia fretta con cui Argento è saltata sul carro femminista e il movimento si è servito di una stella con potenti capacità di arrivare. Anche se tutto, in come ci è stato raccontato (e ri-raccontato, e ri-raccontato) il caso Argento, veniva riportato all’orizzonte degli eventi individuali: i ruoli (la subente vs il perpetratore), i tempi, i luoghi. La timeline. Era quando lei ha girato (x).
Un esempio meno controverso: Guglielmo Scilla ha ammesso l’omosessualità nel 2017 con un video di un minuto dove elencava le cose che gli piacevano («i libri, il rumore della pioggia, il cazzo»). Si è spiegato meglio nel 2018, per il coming out day, con un video molto più corposo in cui racconta quando l’ha capito e come l’ha vissuto («il mio percorso») mettendo in relazione la sua vita romantica a una timeline personale basata quasi soltanto sui successi ottenuti grazie a YouTube. Ci stava, che un intrattenitore di enorme popolarità utilizzasse la formula pubblico/privato. E sicuramente è un tratto umano, cercarsi lo spartiacque, dare risalto all’esperienza individuale. Ma volete negare che è pure la mossa più auto-ripiegata possibile?
La storia personale, se utilizzata bene, permette di creare legami tra uomini e donne che altrimenti si prendono di punta, tutti arroccati sul badare a sé, fare il loro – Jennifer Finney Boylan conseguiva una vittoria retorica quando diceva «è impossibile odiare qualcuno se conosci la sua storia». Ma il personale sa anche rendere ciechi a qualsiasi forma di disagio, marginalizzazione o ingiustizia non sia esattamente uguale alla propria. Eppure ci siamo cascati in tanti, ogni volta che abbiamo anteposto la nostra bella figura – o la nostra ansia di respirare meglio – al senso dell’appartenere a un collettivo in cui temevamo di non riconoscerci, o non volevamo stare per principio, perché ci premeva arrivare noi. È sbagliato dire noi – noi chi?, chiederanno i miei piccoli lettori – però sì, noi. Uno scheletrino nell’armadio ce l’abbiamo tutti. Fate l’inventario morale delle mani che non avete teso, di tutte le volte che avete simulato interesse verso una causa per metabolizzarne linguaggio e strumenti necessari a fare il vostro.
Ridotto a una fotografia strategica e una frase breve, il coming out permette di arrivare subito («è arrivato», «mi sei arrivato») ed elimina l’obbligo di contemplare il prossimo. Ho detto la verità, quindi me ne posso sbattere di tutti voi. (Mi ci metto dentro: un coming out sulla salute mentale l’ho fatto in dieci minuti, avendo scoperto, tardi, che un giorno di settembre era il World Suicide Prevention Day; ho promesso che ne avrei scritto a lungo e in forma accessibile, non l’ho fatto.) È l’ennesimo ripiegamento sul privato, ancora più insidioso di quello che sul finire degli anni Settanta aveva segato le gambe a una generazione di femministe (hai già dato, fai il tuo) e che a intervalli regolari stronca tutti i movimenti basati sull’aggregazione. Lo potrebbe provare l’utilizzo di hashtag depotenziati per suonare inattaccabili e positivi a tutti i costi (ricordate #lovewins? Su cosa dovevamo vincere?) oppure delle frasi ispirazionali degradanti (siate voi stessi, vivete la vostra verità senza limiti), con quell’invito a seguire la sincerità che sostituisce la presa di coscienza profonda, l’eventuale correggere il tiro – l’ammettere di essere passati dalla parte del torto. A un capitolo di Perché non sono femminista Jessa Crispin dà il titolo «Self-empowerment è soltanto un altro modo per dire narcisismo», si scaglia a ripetizione contro l’attivismo da hashtag, cooptato per vendere tovagliette: estendiamo il discorso a chiunque adoperi una lotta per impreziosirsi il profilo. (Ma ancora, a mondo finito? Non l’avete capito che dobbiamo adattarci alla sopravvivenza della specie, non inseguire l’unicità dell’affermazione?)
I danni collaterali di questo trionfo del pensiero debole li vediamo, immediati, nella sfera più pubblica: chi sceglie i vecchi metodi per rivelarsi (Marco Carta quando va in TV a dire «sono gay, ho un compagno») si piglia un cartoccio di insulti a prescindere e rischia di fare affermazioni impopolari presso la nicchia (Carta è contrario all’utero in affitto; orfano di padre, dice «mi sono sempre chiesto se nell’omosessualità ho cercato quello che non ho avuto»). Tra l’altro possiamo dire che i coming out individuali non hanno spostato nulla a parte forse la serenità del protagonista. Altrimenti dopo Tiziano Ferro, altro caso di elevata regia nella realizzazione (libro più interviste esclusive), l’Italia si sarebbe svegliata tollerante.
Allo stato attuale della fine, invece, ci troviamo in mezzo a una scissione insanabile tra una scheggetta di popolazione under 30 molto colta, molto consapevole, iperconnessa, bravissima con la micro-chirurgia punto su punto, quella che fa i thread di 100/200 commenti sull’utilizzo legittimo o meno del sostantivo «eteroflessibilità» in un articolo di Bossy, e una stragrande maggioranza ostile che non solo non vede alcuna differenza tra bisexual erasure e cani sposati con gatti ma nel dubbio ci odia tutti, femmine, froci, negri, giappi, professori, e se fino alla primavera stava aspettando il Purge Act per venirci a bruciare casa oggi sta diventando impaziente.
Per me è un altro risultato della militanza incorporea. Non si ottiene più nulla mettendo i cattivi sotto pressione sui social (anzi, i nuovi volti del populismo dicono «molti nemici molto onore»), il cavo che ci teneva, nel bene e nel male, legati alla terra si è tranciato senza essere sostituito da niente.
Negli ultimi 12 mesi, e sempre di più dopo le elezioni primaverili, all’orrore dello scoprirsi rinchiusi in una filter bubble è subentrata l’accettazione a testa bassa della realtà distopica, e persino il rivendicare con orgoglio l’appartenenza a qualche ultra-ultra-ultra minoranza di gente avanti. Passare il più tempo possibile da soli, non parlare con nessuno. Siamo alla customizzazione estrema dell’esperienza umana: se ti masturbi con il porno gratuito e ti rimuovi da ogni altro piano corporeo, sanità, impiego e accesso all’acqua potabile inclusa, continua così, stai andando benissimo.
Sul serio, provate a spiegare l’accanimento sui pronomi a una persona normale, è divertente. Guardate bene quale faccia fa, una persona anche civile, quando scopre che là fuori c’è gente che salterebbe su una mina pur di non rinunciare a definirsi con la terza plurale they. E intanto il mondo brucia.
La spinta a calare la maschera era cominciata prima. Forse dal 2011/2012. La si poteva intravedere nell’attore televisivo che aveva feed riassumibili in «sono stanco», l’ascesa di donne pubbliche giudicate rivoluzionarie perché alla bellezza univano il gusto della battuta di spirito e la poca pazienza per gli scemi (la modella Chrissy Teigen, eroina di Buzzfeed e moglie di John Legend) e lo sfondamento di quei personaggi da social che facevano le stesse cose ma peggio (il video che ha fatto notare Cardi B è quello in cui dice «sono una troia, voglio solo i soldi»).
Nelle stesse annate, però, c’era ancora la spinta verso il bene. Ci sono stati due coming out significativi da parte di due persone, un uomo e una donna, che sceglievano di parlare chiaro mettendo l’esperienza personale al servizio di una causa più grande di loro. Ellen Page nel 2014 confermava quanto si era sempre borbottato su di lei, ma lo faceva durante un evento pubblico organizzato da Human Rights Campaign, raccontava quanto le fosse costato il silenzio, e come fosse stato più facile, a tratti, accettare la bugia. E Wentworth Miller. L’anno prima, sempre con Human Rights Campaign, Miller sosteneva di non aver parlato per comodità, per il desiderio di farsi una carriera, e, crucialmente, perché preferiva considerarsi an individual, «un singolo», anteponendo quello che lo rendeva unico e particolare (l’omosessualità oltre alla razza mista e alla nascita nel Regno Unito) a qualsiasi vantaggio gli sarebbe derivato dal riconoscere una parte di sé in uno schema più grande. Ma accettando la comunità aveva trovato sollievo, accettazione, la possibilità di fare meno schifo da adulto: aveva bucato la bolla dell’io io io.
In entrambi i casi, riascoltandoli adesso: quanta dignità. Quanto orgoglio vero.
Parlare era la scelta morale e insieme quella più utile agli interessi sul lungo termine: mettersi sotto la tenda dei diritti civili e dell’impegno a favore dell’uguaglianza. Se per avere un richiamo al buon senso doveva arrivare lo sceneggiatore di Stoker eravamo già messi malissimo, però, cristo, avremmo potuto salvarci. Ci eravamo tanto vicini, tanto.
Non toccava agli artisti indicare la strada verso la terra dell’abbastanza. In assenza di classi politiche reattive, è toccato a loro. Lì stava la debolezza del metodo.
È difficile argomentare rispetto alla fine. Ci si appiglia alle minime scintille, al canarino che cinguetta di colpo. Non andrebbero accostati il coming out e la salute mentale, se il primo è la dichiarazione di diversità positiva e il secondo l’ammissione che qualcosa non va, ma nello sfacelo uno cerca di apprezzare lo sforzo di chi, anche a caldo, vuole parlare e non pretende di far finta di nulla, dopo.
Passato quasi sotto silenzio perché il personaggio non sembrava degno di cronaca, ex futura moglie esclusa, il comico Pete Davidson, il giovane di Saturday Night Live, è uscito allo scoperto con una cosa gigantesca quando ha raccontato quale diagnosi psichiatrica avesse ricevuto a fronte di scoppi di rabbia e momenti di assenza integrale – Davidson convive con il disturbo della personalità borderline, che lui ha definito «una forma depressiva». Pete, è un pelo più complicato di così, però questo in effetti non è il momento, sei tu il malato oggi, andiamo avanti. All’inizio Davidson ha seguito il vecchio nuovo copione – si è fatto invitare al podcast WTF with Marc Maron per garantirsi un interlocutore pacato, un luogo sicuro privo di contraddittorio (prima della fine Maron aveva raccolto centinaia di confessioni simili). Poi, però, Davidson ha ripreso l’argomento in un monologo di SNL a metà tra la pubblicità progresso e lo sketch puro. Poi il programma l’ha usato come il volto del cast che deve dire qualcosa quando la conversazione pubblica orbita intorno alla salute mentale.
Davidson trasporta nel lavoro quello che lo rende diverso e difficile, anche se non lo fa diventare la matrice originale dell’aver voluto fare il comico – no allo spettacolo sulla malattia, sì a «credo di parlare a nome di tutti i pazzi quando dico (grida)». La terapia e gli psicofarmaci si sono accomodati in un microcosmo dove c’erano già le fidanzate, le canne, l’hip hop, la madre. Sono pazzo, vengo da Staten Island, ho il tatuaggio del Trono di spade. Sono una persona, posso avere rapporti sentimentali con altre persone. Non si è calato nel ruolo del portavoce, quello no, ma ha dato, con un accenno di dignità. Eccoci qui.
In Italia viene in mente il lavoro che si è caricato sulle spalle Ghemon con l’uscita di Mezzanotte e dell’autobiografia Io sono – di fronte al silenzio sulla depressione il rapper intelligente decide di dire due cose, ci riesce, procede per la sua strada. Non mi risulta dica troppo spesso «sono malato di mente», ma si è fatto un anno di interviste: Ghemon ha dato. Lo scrittore Andrea Pomella ci ha provato, con i dovuti distinguo: se il longform uscito su doppiozero sta ancora girando grazie a reti sociali per una volta non mostruose (beh, si intitolava Storia della mia depressione), il libro che da lì ha preso forma e slancio, L’uomo che trema, è un’opera piuttosto netta nel rifiutare l’esemplarità delle vicende narrate. Pomella soffriva di depressione maggiore, riconosce alcuni punti di contatto tra la sua storia e un disturbo diffuso, ma tira la linea: fa il suo, artisticamente parlando.
Non toccava agli artisti indicare la strada verso la terra dell’abbastanza. In assenza di classi politiche reattive, è toccato a loro. Lì stava la debolezza del metodo. Quello non è stato perdonato.
L’odio per la differenza anche positiva non è un’ondata che si possa ascrivere al nuovo populismo di destra. Ci sono stati hater di lusso ben attenti a dichiararsi apartitici o fieri astenuti che facevano a pezzi chiunque considerassero smug, tronfio, bersagliando le persone famose impegnate in attività umanitarie. Sposare buone cause era sintomo di volersi vendere, ricerca di visibilità; parlare a titolo personale significava essere drama queens o attention whores, due pietre miliari dell’insulto sull’Internet vecchio stampo, quella dove, anche prima dello sdoganamento della follia, era meglio non farsi notare, tenere su la maschera del medio, vantare gusti banali spacciati per imperiali e sofisticati.
E qui, credo, sta la disperazione per molti di noi. Alla fine degli anni Zero abbiamo intravisto la realtà per come avrebbe potuto essere, nei primi anni Dieci abbiamo sperato ci fosse un margine di miglioramento, riservato a chi sarebbe venuto dopo: oggi viviamo nella realtà per quella che è, zero futuro in vista. La parte peggiore è che avremmo potuto farcela.