La crisi climatica non verrà risolta
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Nel 2014 intervisto il climatologo Luca Mercalli a Venezia, durante un festival di corti e documentari dedicati alla sostenibilità ambientale. Ha fatto alcune lezioni nelle scuole e – mi racconta mentre cerchiamo un posto silenzioso dove registrare – nessuno dei ragazzi che ha incontrato sapeva nulla della conferenza sul clima di Lima che era in corso in quei giorni, o del vertice di Parigi già fissato per l’anno nuovo.
Chiediamo all’ufficio stampa dove possiamo metterci, ci indicano due poltroncine di pelle in un ampio, austero disimpegno al piano terra dell’illustre fondazione culturale che ospita il festival. L’intervista è per la radio e abbiamo qualche dubbio che sia una buona idea sederci lì, in un punto di passaggio, accanto all’ingresso della sala proiezioni. Ma quel pomeriggio ci sono pochi spettatori, o forse non ci sono proprio, la pellicola sta girando a vuoto.
Non è la prima volta che incontro Mercalli, così quando iniziamo a chiacchierare metto il pilota automatico, perché in quel periodo sui cambiamenti climatici sembra impossibile fare domande diverse da quelle che vengono ripetute di continuo, le cose da dire sembrano le stesse, sempre. Rispettiamo i nostri copioni, e con rigore e pazienza Mercalli risponde le solite cose. La conferenza dell’ONU sul clima sarà di nuovo un fallimento? Perché nessuno si interessa al riscaldamento globale? C’è un problema di educazione nelle scuole? Perché i giornali non parlano mai di cambiamenti climatici?
Dopo qualche giorno mandiamo in onda la puntata dedicata al festival, e il numero per gli SMS della diretta, che in quei mesi ha raccolto migliaia di insulti, domande e commenti degli ascoltatori durante le puntate dedicate agli OGM, ai vaccini, alla fecondazione assistita, quella mattina tace, come tace ogni volta che si parla di cambiamenti climatici. Gli unici due messaggi che arrivano sono di complimenti per la voce calda e intelligente della nota attrice che ha fatto da madrina della giuria. Nonostante lo sforzo e le ottime intenzioni, quella sarà l’ultima edizione del festival.
Tre anni dopo, nel 2017, Nicolò, che ho conosciuto lavorando al Tascabile, mi parla di un’idea che ha in mente: fare insieme una newsletter sui cambiamenti climatici, una cosa che non sia divulgativa a tutti costi, o pedante, evangelica, che non cerchi per forza di convertire i negazionisti e che non citi a tutti i costi gli scenari a + 1,5 °C, + 2,0 °C, + 2,5 °C, ma un posto dove possiamo citare romanzi o saggi filosofici, dove soprattutto ci costringiamo a scrivere e a pensare. Ne parliamo con chi può darci qualche consiglio, tra amici scrittori e giornalisti, e in molti ci incoraggiano, perché in certi ambienti à la page i dibattiti sull’Antropocene sono già da tempo frequentati e vivi, ma molti altri sono scettici, sfottono, perché il riscaldamento globale sembra comunque e ancora un argomento maledetto, noioso, di nicchia.
Quando oggi mi capita di dare per scontato il successo delle manifestazioni di Fridays For Future, perché alla fine ogni cosa eccezionale dopo un po’ appare ordinaria, oppure quando mi viene da alzare gli occhi al cielo se leggo qualche proposta di qualche giovane attivista che magari mi sembra ingenua o irrealizzabile, mi sforzo sempre di ricordare storie come queste, di quando sembrava impossibile, palloso o inutile parlare di clima. Ed era davvero solo poco tempo fa, e mi costringo a non perdere lo stupore per quello che Greta Thunberg ha innescato nel giro di qualche mese, il miracolo che era fallito a tutti, a centinaia di attivisti, scrittori, giornalisti, registi, ricercatori e politici, che per anni avevano tentato senza riuscirci di scuotere le nubi dell’indifferenza che li nascondevano dal resto della società. La settimana scorsa sei milioni di ragazzi e di ragazze sono scesi in piazza in occasione dello sciopero mondiale per il clima.
Le prime pagine di praticamente ogni quotidiano al mondo, anche in Italia, si sono abituate a ospitare foto delle manifestazioni e articoli sull’emergenza ambientale. Grazie a Greta Thunberg il pianeta ha superato, e l’ha fatto globalmente, le sabbie mobili in cui sembrava essere destinato a sprofondare, immobilizzato dalla mancanza di consapevolezza o di interesse per la questione climatica.
Oggi però, le mobilitazioni di Fridays For Future, le scritte sui cartelli portati per strada, i post instagram di Thunberg, sembrano diventati quasi una complicatissima macchia di Rorschach, o un’illusione ottica a infinite dimensioni: tutti guardano questo oggetto misterioso e molti non sanno cosa stanno osservando, ognuno ci vede una cosa diversa, ci rispecchia le proprie speranze, illusioni, vanità o paure.
Se non vale la pena commentare i post paternalistici, le battute sceme, gli articoli complottisti, negazionisti o beceri e ignoranti, è interessante invece sottolineare come negli ultimi giorni siano usciti anche molti pezzi ragionati, che però dimostrano lo stesso di non capire davvero il movimento, articoli che dicono sostanzialmente le cose sono molto complesse ragazzi, o attenti ai toni populistici, e si chiedono poi ma che cos’è che volete davvero?
Mi sembra insomma che siamo ricaduti in un nuovo pantano, almeno dal punto di vista comunicativo, dove pur riconoscendo il problema dei cambiamenti climatici, ci si chiede adesso cos’è che ci possiamo fare – non, o comunque non solo, nel senso che in molti sembrano intorpiditi da una resa fatalista all’apocalisse: quella che risuona in tanti articoli è più una domanda provocatoriamente rivolta, sotto forma di atterrito dispetto, proprio a chi osa manifestare: abbiamo capito che siete preoccupati, ma non capiamo bene quali sono le soluzioni che prospettate, se ne avete. Dov’è che volete andare?
Arrivati a questo punto, se ancora esistono articoli del genere – e basta cercarne e se ne trovano decine in ogni lingua del mondo – il problema forse non è più soltanto l’impreparazione dei giornalisti ma anche la confusione del messaggio delle manifestazioni che evidentemente è chiaro ancora solo a intermittenza. E in effetti Fridays For Future è per molti versi un movimento che vive di contraddizioni: sembra avere connaturata in sé una critica feroce al capitalismo, per esempio, ma allo stesso tempo fa di tutto per non creare divisioni politiche al suo interno, e vuole essere trasversale e apartitico. Le parole di Thunberg , all’ONU o a Davos, sono sempre state nette, spietate, radicali. Ha parlato di «favole dell’eterna crescita economica», di «giustizia climatica», di «lasciare i combustibili fossili sotto terra» e «focalizzarsi sull’uguaglianza». «Abbiamo bisogno di una nuova economia», ha detto ai rappresentanti delle istituzioni europee a Bruxelles. Eppure al congresso degli Stati Uniti ha spiegato qualche giorno fa che «non importa quanto politico possa essere lo sfondo di questa crisi, non dobbiamo permettere che continui a essere una questione partigiana. Il clima e la crisi ecologica vanno oltre la politica di partito. E il nostro principale nemico in questo momento non sono i nostri avversari politici. Il nostro principale nemico ora è la fisica» [intendendo con fisica la distruzione degli ecosistemi].
Che i nuovi movimenti ambientalisti rischino di venire schiacciati dall’ambizione dei loro obiettivi finendo ogni tanto per annacquare la forza del proprio messaggio è evidente anche dal fatto che le manifestazioni sembrano spesso ancora innocue a molti, adottabili da tutti, universali, ecumeniche (vaghe, direbbero i critici) al punto tale che, per esempio, a Justin Trudeau, che negli ultimi anni della sua presidenza ha puntato molto sulla costruzione di nuovi oleodotti e nuovi giacimenti di sabbie bituminose in Canada, non è sembrato paradossale decidere di scendere la settimana scorsa in piazza con Fff contro i combustibili fossili, contro i grandi e i potenti della Terra.
Qualche giorno dopo Thunberg ha bacchettato Trudeau perché «non sta facendo abbastanza» per eliminare i gas serra. Di Naomi Klein, scrittrice e attivista, connazionale di Trudeau, Thunberg ha detto invece: «il suo lavoro mi ha sempre commosso e guidato. È la grande cronista della nostra epoca di emergenza climatica, una fonte d’ispirazione per generazioni». E l’ultimo libro di Klein, oltre a citare uno dei discorsi più noti di Thunberg sin dal titolo (On Fire, richiamo reso ancora più diretto nella versione italiana: Il mondo in fiamme), è una raccolta di articoli che vuole fare da sponda intellettuale ai nuovi movimenti ambientalisti – Fff ma anche Extinction Rebellion, oltre ai gruppi storici più piccoli e agguerriti –, e da cerniera tra Thunberg e Alexandria Ocasio-Cortez.
Gran parte del libro è infatti dedicato alla discussione e al sostegno del Green New Deal statunitense, il piano di riforme economiche che prevede «un vasto rimaneggiamento industriale e infrastrutturale» da attuare in dieci anni per abbandonare i combustibili fossili e cercare di affrontare contemporaneamente cambiamento climatico e diseguaglianze sociali, creando nuovi posti di lavoro «verdi», salario minimo e assistenza sanitaria gratuita di qualità. Secondo Klein la decarbonizzazione della nostra società e la conseguente transizione energetica non potrà avvenire senza affrontare insomma contestualmente i problemi sociali causati dalle «macerie del fondamentalismo liberista», e superare la crisi ambientale significherà intraprendere un cambiamento profondo che porti a superare alla radice «tante idee idolatrate della cultura occidentale non più sostenibili».
Comunque andrà, usciremo da questa situazione con le ossa rotte. Il pessimismo della ragione (e i rapporti dell’IPCC) ci dicono che se anche iniziassimo oggi una transizione energetica capillare e sostenibile – e non la stiamo iniziando oggi e non la inizieremo domani – andremo comunque incontro a sconvolgimenti climatici non più evitabili. Snocciolare le conseguenze degli scenari più devastanti che dovremo affrontare se lasceremo tutto così com’è, è invece diventata ormai una filastrocca cupa ma svuotata dalla sua carica di terrore per tutte le volte che l’abbiamo ripetuta: siccità, alluvioni, incendi, instabilità politiche ed economiche, nuove guerre, nuove carestie, perdita irreversibile di biodiversità.
Se sono stati individualismo e avidità a portarci all’emergenza climatica, nei momenti di pessimismo più totale mi sorprendo a pensare che non c’è nessuna via d’uscita, che il problema non è neanche il capitalismo ma la stessa natura umana. In parte lo riconosce anche Klein nel libro:
«Il socialismo di stato dell’era sovietica è stato un disastro per il clima. Ha divorato risorse con lo stesso entusiasmo del capitalismo, e ha vomitato altrettanto freneticamente rifiuti (….) E anche se alcuni citano l’inebriante boom delle energie rinnovabili in Cina per sostenere che soltanto i regimi centralizzati possono fare il lavoro verde, l’economia comanda-e-controlla cinese continua a essere impostata sulla guerra totale alla natura attraverso megadighe immensamente distruttive, superautostrade e progetti energetici estrattivi, in particolare del carbone».
Allo stesso tempo, l’ottimismo della volontà supplica di non arrenderci. Non so se il Green New Deal e gli equivalenti europei che stanno nascendo siano la strada giusta, ma di sicuro vale la pena discuterne, e lo faremo, qui e altrove. Ho letto un articolo un mesetto fa, scritto da David Higgins su Ecologist, di cui mi sono annotato il finale, perché mi sembra che citi tutte le parole giuste:
«La crisi climatica non verrà risolta. Con uno sforzo enorme, tanta ingegnosità e fortuna, sarà forse possibile mitigarla e adattarsi ai suoi effetti peggiori. Non vedo che cosa – individualmente e collettivamente, localmente e globalmente, spaventati o speranzosi o arrabbiati o disperati o altro – abbiamo da perdere nel tentativo».