Contro il narcocapitalismo
Ancora prima del suo insediamento, Matteo Salvini faceva degli psicofarmaci l’indicatore del male degli italiani, snocciolando la fantomatica cifra del 20% della popolazione che li assumerebbe. Una nazione intrappolata tra precarietà e insicurezza, incapace di fare l’unica cosa che gli viene richiesto: lavorare e figliare. La delega alle droghe del ministro omotransfobo-ma-non-solo Fontana, i proclami infondati sulla «esplosione di aggressioni» dei «pazienti psichiatrici» e l’annuncio dell’operazione «Scuole Sicure» non fanno altro che confermare un copione banale, facilmente prevedibile fin dall’inizio: primo, le sostanze psicotrope (legali o meno) utilizzate da parte degli «imprenditori morali» come diversivo, rendendo i consumatori di sostanze stupefacenti e chi soffre di un disturbo mentale un capro espiatorio, un’altra amenità da combattere, proprio come gli immigrati; secondo, intrappolare le esperienze sensibili dei soggetti nel macabro realismo di una guerra tra poveri, per farci vivere un capolinea sociale, economico ed emotivo senza alcuna via di scampo.
Come sfuggire a questa asfissiante riproposizione di un discorso semplicistico sulle sostanze che divide il campo tra bene e male, tra difensori degli interessi della popolazione e soggetti da correggere? Dalla scorsa primavera ho iniziato un lungo e intenso rapporto epistolare con Laurent de Sutter, autore di scritti che spaziano dalla Metafisica della puttana alla Teoria del Kamikaze. Nel suo ultimo libro, Narcocapitalismo (in uscita anche in Italia grazie ai tipi di Ombre Corte) il tentativo è proprio quello di articolare un’interpretazione innovativa sulla posizione ricoperta dalle sostanze stupefacenti – legali o meno – all’interno del capitalismo contemporaneo. Una lettura che non si abbandona ad una visione salvifica e demodé delle droghe, ed è allo stesso tempo capace di disarticolare le banali argomentazioni dei difensori della moralità di cui sopra, mostrando un campo di forze molto più complesso, in cui si intrecciano la storia dell’anestesia, la politica dell’eccitazione e la polizia dell’essere.
Se questo non bastasse, discutere con una figura dallo spessore di Laurent diventa anche l’occasione per presentare un modo diverso di vivere la pratica politica e intellettuale, in cui la forma da far assumere ai propri pensieri è articolata in un’ontologia materialista, attenta alle forze e agli oggetti che influenzano il nostro stare al mondo, molto più di quelli che lui chiama «giganteschi pupazzi concettuali». Solo in questo modo sembra possibile attuare uno smarcamento dalle tradizionali formulazioni della filosofia come della politica occidentale, per iniziare a «riorientare differentemente quella che Nick Srnicek e Alex Williams hanno definito la piattaforma materiale del capitalismo contemporaneo».
Ogni capitalismo è un narcocapitalismo. Il titolo del tuo ultimo libro mette subito in chiaro come il nostro sistema socioeconomico dipende fortemente dalle sostanze stupefacenti come dai farmaci, nonostante la sua facciata puritana, esemplificata dalla war on drugs e dai ricorrenti panici morali. Perché le droghe (legali o meno) sono così rilevanti per la sopravvivenza del capitalismo?
Tanto per cominciare, vorrei precisare che ho un grosso problema con la maggior parte dei cosiddetti approcci «critici» che vorrebbero spiegare il mondo contemporaneo. Il loro limite, a mio parere, è di concentrarsi quasi esclusivamente su un determinato insieme di predicati (la finanza, il dominio e così via) senza tenere conto delle condizioni materiali di quanto ci accade. A influenzare le nostre vite non è la finanza o il dominio, ma qualunque oggetto, persona, status, prodotto, parola e persino idea che ha un impatto su di noi, sia esso positivo o negativo. Nei miei libri, l’attenzione è sempre stata rivolta al potenziale affettivo di queste cose, piuttosto che a una sorta di visione astratta e panoramica sullo stato attuale degli affari politici ed economici.
L’adozione di questo approccio materialista cosa ha comportato in Narcocapitalismo?
Nel libro cerco di illustrare uno degli elementi di questa ecologia, concentrandomi sui dispositivi chimici che ci permettono di (o ci forzano a) dormire, lavorare, amare, riprodurci e divertirci. E pure di farcela, quando il giorno dopo ci risvegliamo con i postumi. Questo mi serve per dimostrare come l’esistenza all’interno del capitalismo contemporaneo abbia assunto una forma letteralmente narcotica, vale a dire basata sullo sfruttamento della storia della narcosi con l’unico obiettivo di riorganizzare le coordinate del nostro essere. La storia della narcosi, dalla scoperta dell’anestesia fino alle più recenti party drugs, ha avuto un effetto molto preciso: concentrarci sul nostro presunto essere e renderlo così importante ai nostri occhi da farci credere di dipendere da esso. Mentre, come hanno insistito incessantemente i filosofi della cosiddetta French Theory, l’essere non è altro che un nome metafisico del controllo e della polizia interiore. Quindi, per metterla in maniera diversa, attraverso la descrizione del regime narcotico che dà forma al soggetto contemporaneo, il mio libro è un piccolo tentativo di formulare un aspetto spesso trascurato della metafisica materiale della vita sotto il capitalismo.
La nascita di una nuova era: l’era dell’anestesia. Nel libro costruisci questa ecologia chimico-materiale attraverso un percorso che collega bevande analcoliche, illuminazione notturna, tempo libero, controllo delle nascite e comportamento delle folle. In questo tragitto sveli una fitta «trama post-disciplinare», il cui obiettivo è quello di soffocare ogni tipo di eccitazione. Perché la nostra società pone così tanta attenzione nel frenare qualcosa di apparentemente così ovvio e innocuo come l’eccitazione?
Trama post-disciplinare: mi piace! Penso che tu abbia messo a fuoco una dimensione importante (almeno per me) del mio lavoro, il tentativo deliberato di trovare nuovi modi di ragionare, forme oblique di pensiero che non seguono le coordinate riprodotte e imposte dal mondo accademico. Il fatto che assuma la forma di una trama e non di un’affermazione o di una rivendicazione è proprio il risultato di un simile approccio: le idee funzionano come tutto il resto, hanno bisogno di un’ecologia per sopravvivere e fiorire. Creare una rete di cortocircuiti fatta di aneddoti mi è servito per mettere in scena l’effetto che ci si può aspettare dal loro stesso dispiegarsi: eccitare. Perché voler eccitare? Semplicemente perché l’eccitazione, come hai sottolineato, è proprio ciò che, a quanto pare, la nostra società non vuole. Un rifiuto che diventa lampante, primo, grazie alla scoperta di Charles Thompson Jackson e William Green Morton sugli effetti dell’inalazione dei vapori di etere dietilico e il conseguente impegno per eliminare dal corpo ogni forma di impulso e renderlo «operabile». Ed è confermato, secondo, da come tutte le principali discipline dell’epoca (stiamo parlando della seconda metà dell’Ottocento) abbiano sviluppato e applicato al proprio campo un assunto anti-eccitazione, individuale o collettiva che sia. Penso ad esempio alla psicologia o alla sociologia, entrambe agli albori, e come si sono relazionate con i soggetti affetti da disturbi mentali o con il nuovo fenomeno della folla urbana.
Non mi è ancora del tutto chiaro perché l’eccitazione abbia attratto così tanta attenzione da parte di medici, psicologi e sociologi.
L’etimologia latina può aiutarci. «Eccitazione» significa «essere condotti fuori di sé», essere «ex-citato» significa «essere chiamati fuori di sé», citato manco si trattasse di un giudice che ti invita a comparire in tribunale. Per curare questo stato di anormalità si invitava a contenere l’essere entro i confini chiusi e sicuri del sé. Tutto ciò è evidente negli scritti di Emil Kraepelin, l’inventore della categoria di «psicosi maniaco-depressiva». Lo psichiatra prussiano ha postulato la necessità di alleviare i momenti maniacali di irresein – l’errare dell’essere, il suo smarrimento – per riportare il soggetto a una condizione di normalità, riconducibile al momento depressivo della psicosi. Potrebbe sembrare un aneddoto lontano, proveniente dalla preistoria della psicologia, ma è un dato di fatto che gli insegnamenti di Kraepelin abbiano influenzato molta della psicologia del XX secolo, fino alle stesse definizioni del famigerato Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, pubblicato per la prima volta cinquant’anni dopo la svolta operata dallo psicologo prussiano e basato su quella che fu descritta come una «ipotesi neo-kraepeliana» sulla malattia mentale.
La teoria non serve a spiegare il mondo, ma a peggiorarlo. Ho sempre interpretato questa frase come un richiamo all’esagerazione, a concetti potenti, ad affermazioni pretenziose.
Da queste risposte introduttive è evidente l’importanza che hanno gli aspetti formali nel tuo processo di scrittura, devo ammettere che non mi sorprende. Per McKenzie Wark la forza di libri come More Brilliant Than the Sun e Testo Tossico risiede anche nella capacità degli autori Kodwo Eshun e Paul B. Preciado di «mettere pressione al linguaggio con neologismi e costruzioni composte, al fine di fare spazio al futuro all’interno del presente». Anche tu fai un uso senza scrupoli del linguaggio, il tuo stile di scrittura è molto cerebrale ma anche erotico, impiegando slogan (come quelli citati e inventati all’inizio di ogni sezione di questa intervista) o concetti filosofici da un’aura molto concreta («montagne russe ontologiche», «polizia dell’essere», «riprogrammazione psicopolitica»). Non credo però tu sia interessato al futuro… Verso quale direzione tendi?
Sono molto felice che tu l’abbia notato. Significa che non ho fallito in questo senso e che il mio traduttore, Barnaby Norman, è riuscito a renderlo anche in inglese [e Gianfranco Morosato nella versione italiana, ndr]. Questo è davvero un aspetto molto importante di quello che sto cercando di fare. Come ho accennato prima, quello che un libro dice deve in qualche modo essere riflesso da come il libro lo racconta, come se non fosse possibile comprendere un’idea, un’affermazione o un concetto senza l’intreccio della dimensione sensibile con quella puramente teorica. Mi spingerei fino al punto di dichiarare (in termini che potrebbero benissimo ricordare Roland Barthes e anche l’ultimo Foucault) che se la teoria non si manifesta sotto forma di una nuova erotica del concetto, allora è inutile. Guarda tutti i grandi pensatori degli ultimi decenni: tu hai menzionato Preciado ed Eshun, ma la lista potrebbe continuare all’infinito e ognuno di loro ha dato una nuova forma sensibile ai pensieri, anche se questa creazione sembra semplice, low-key. Noi continuiamo a convivere con l’ideale modernista secondo cui la novità dovrebbe essere rumorosa ed esplosiva; però quando leggi la para-erudizione di Agamben, la morbida ironia di Sloterdijk, l’interminabile monologo interiore di Žižek o la reinvenzione della trasparenza professorale di Badiou, allora capisci come ci possono essere altri modi di pensare. Questo non significa che non mi piacciono i fuochi d’artificio come quelli di Preciado o di Eloy Fernandez Porta (ti consiglio di dargli una possibilità se non lo conosci, il ragazzo è feroce), dico semplicemente che rappresentano una delle possibili scelte all’interno di una vasta gamma di possibilità, di cui l’unica inutile è l’obbedienza alla prosa accademica.
Quindi quale erotica del concetto vuoi materializzare nei tuoi scritti?
Io cerco di costruire una sorta di arte povera della teoria, o meglio una sorta di teoria povera in cui aneddoti e descrizioni servono per argomentare e dimostrare, lasciandomi con un solo dovere: trarre delle conclusioni che non hanno l’intento di riassumere, ma di suscitare ulteriori discussioni. Ognuna delle mie «conclusioni» o «affermazioni» dovrebbe essere considerata come un progetto in fase sperimentale, un «cosa succede se» a cui ognuno è libero di rispondere qualunque cosa pensi o semplicemente sollevare un sopracciglio, farsi una bevuta e… che cazzo ne so. Oggi, in un momento in cui il divario tra mondo accademico e media, tra il mondo appartato della ricerca e quello rumoroso del dibattito pubblico si allarga sempre di più, abbiamo bisogno di strumenti per colmare questo distacco e offrire ciò che la teoria ha sempre offerto a coloro che erano interessati, vale dire proprio l’eccitazione. È Jean Baudrillard ad avermelo fatto capire, affermando che la teoria non serve a spiegare il mondo, ma a peggiorarlo. Ho sempre interpretato questa frase come un richiamo all’esagerazione, a concetti potenti, ad affermazioni pretenziose e così via, non perché sono più «veri», ma perché sono in grado di produrre qualcosa che gli approcci sfumati, equilibrati e prudenti non farebbero.
Anti-Rihannismo. Tornando all’anestesia sociale, non è funzionale di per sé, ma mi sembra più la conseguenza di quella che Byung-Chul Han ha chiamato «società della prestazione». Nel libro spieghi come l’obiettivo del narcocapitalismo sia l’efficacia anestetica: liberarci da tutto ciò che ci impedisce di «lavorare, lavorare e ancora lavorare». Perché il lavoro è ancora così rilevante? Ero convinto che vivessimo in una società basata sul consumo e non sulla produzione!
Ogni società è basata sul consumo! Emanuele Coccia nel suo meraviglioso The Life of Plants ha evidenziato molto bene come non ci sia vita senza il consumo di un’altra vita, dalla forma più elementare a quella più complessa. La questione quindi non è tanto quella del consumo in sé, ma del modo in cui il consumo è inquadrato. E nella nostra società attuale, è inquadrato proprio come fosse un lavoro. Non c’è nulla di più faticoso del consumo quotidiano, niente di così estenuante, nulla che ci riduce con tanta facilità ad essere quello che siamo. È una terribile tautologia che aveva già perfettamente delineato decenni fa George Romero in La notte dei morti viventi. Personalmente non ho niente contro il lavoro, quello che non mi va bene è la sua trasformazione in una logica unilaterale per la produzione di plusvalore, in cui ogni punto della nostra esistenza è un’opportunità di crescita e guadagno per chi è in grado di approfittarne. Per usare un altro riferimento pop, pensa a The Matrix e alla «vendemmia» delle energie umana fatta dalle macchine attraverso l’induzione in un mondo virtuale consensuale simile alla vita; qualunque cosa si possa pensare dell’accuratezza di questo confronto, io non penso che qualcuno voglia davvero quel tipo di vita.
Il limite dell’esplorazione psicopolitica narcocapitalista. Dopo quello che hai detto ci sono due punti che secondo me è essenziale toccare, anche se ho paura di essere troppo naïf. Primo, chi è cattivo in questa nuova politica della vita? Chi sono l’Architetto e l’Agente Smith?
Be’, non c’è nessun Grande Altro malvagio che veglia sulle nostre azioni e ci costringe a «lavorare, lavorare, lavorare». Il Grande Altro in questione non è nessun altro (o nient’altro) che noi, quando crediamo che ci sia un Grande Altro malvagio e prendiamo una pillola per calmare la depressione causata da questa stessa idea. L’idea che qualcuno o qualcosa, da qualche parte, sia colpevole per la nostra infelicità è proprio la fonte del problema: nessuno è colpevole o innocente, semplicemente c’è un gigantesco dispositivo di azioni intrecciate nate dalla necessità di rispondere a problemi specifici e locali, su cui nessuno ha il controllo. Anche noi non siamo colpevoli, diversamente da quanto i libri di auto-aiuto vogliano farci credere.
La seconda domanda, invece, è come opporsi a questa estenuante sottrazione delle nostre energie vitali messe al servizio del capitale?
Il vero pericolo sarebbe quello di cadere nella mera denuncia di questa situazione e di chiudersi nel sogno ad occhi aperti di una società in cui tutto è pacificato, dove questo sfruttamento è superata, come il ricordo lontano di un incubo. Ho paura che Byung-Chul Han sia proprio uno di questi sognatori ad occhi aperti, nel suo essere uno di quei pensatori che trova nella critica all’alienazione un perverso godimento personale. Senza notare però che è precisamente ciò che ci si aspetta da lui: dare alle stampe quel tipo di prodotto tanto apprezzato da una certa categoria di consumatori. Un altro di questi è Hartmut Rosa, la cui critica alla «accelerazione» lascia una sola possibilità agli abitanti alienati e reificati delle grandi città ricche dell’occidente: rallentare, diventare una lumaca e tornare a mangiare l’insalata coltivata con le proprie mani, in qualche arcadia verde dove sarà possibile riscoprire se stessi. Amico, ti stai sbagliando. Tutto ciò è precisamente la struttura di pensiero su cui si basa il narcocapitalismo. Ciò di cui abbiamo bisogno non è rallentare o del tasto ESC, ma al contrario si deve comprendere a fondo e si deve riorientare ciò che Nick Srnicek e Alex Williams hanno definito come la piattaforma materiale del capitalismo contemporaneo. Riguardo alle tesi che propongo in Narcocapitalismo, questo obiettivo può essere perseguito solo facendo un passo indietro rispetto all’idea di tornare al nostro vero sé.
L’anestesia non è il nostro destino. Hai citato Srnicek e Williams, gli autori di Inventare il futuro e del Manifesto accelerazionista. Proprio riguardo l’accelerazionismo, si tratta di un dibattito che segui da tempo, dato che nel 2016 editavi per il mercato francese Accélération!, un volume collettaneo con scritti tra gli altri di Nick Land e Mark Fisher, gli stessi Alex Williams e Nick Srnicek e Laboria Cuboniks. Mi sembra difficile non notare un’armonia tra la tua eccitazione psicofisica e la «loro» accelerazione sistemica. Ti sei fatto ispirare da questo pseudo-movimento?
Devo essere onesto al riguardo, Accélération! deve molto ad #Accelerate di Armen Avanessian e Robin McKay, è una selezione di testi tratti da quel libro più alcune aggiunte significative. Fin dall’inizio sono stato totalmente affascinato dal lavoro di Nick e Alex, per una ragione molto semplice: la loro richiesta per un riorientamento della piattaforma materiale del capitalismo risuonava perfettamente con quanto stavo facendo durante il mio dottorato con Isabelle Stengers e Bruno Latour. I mantra vuoti della sinistra accademica mi hanno stancato, non riesco più a sopportare questa prosa piena di risentimento, proveniente da persone incapaci di accettare la propria posizione di soggetti privilegiati, a tal punto da finire per odiare ed essere odiati dal resto del mondo (e poi non capiscono perché non ricevono finanziamenti). Mi ha fatto bene leggere questi due giovani studiosi con delle preoccupazioni, finalmente, pragmatiche. Ed è questo il motivo per cui ho deciso di pubblicare le opere di Alex e Nick non solo in francese, ma anche in inglese nella mia collana Theory Redux (un riferimento un po’ sciocco a Francis Ford Coppola, ovviamente) di Polity, in cui ho avuto la possibilità di presentare sia Platform Capitalism di Nick Srnicek sia Xenofeminism di Helen Hester [di prossima pubblicazione per la collana Not di NERO, ndr]. Queste diverse figure collegate al cosiddetto accelerazionismo incarnano, in qualche modo, una parte di ciò che voglio fare anch’io sotto il profilo degli obiettivi politici, dei metodi narrativi e delle pretese pragmatiche. In più sono persone molto simpatiche. Quindi per rispondere alla tua domanda: sì, mi sono fatto ispirare da loro come da Bruno e Isabelle. Prima l’infrastruttura materiale!
La sola politica è la politica dell’eccitazione. In precedenza non ho usato il termine slogan per caso, gli studenti che hanno protestato in Francia questa primavera avrebbero trovato nel tuo libro parecchie frasi per imbrattare i muri, se questo fosse un mondo ideale. Cinquant’anni dopo il Sessantotto non è più il tempo di «proibito proibire» come non serve più a molto «mettere l’immaginazione al potere», ma è il momento in cui «la sola politica è la politica dell’eccitazione». Cosa si cela dietro questa frase?
Se assumiamo che la politica non è altro che la gestione degli affetti collettivi (come avrebbe potuto dire un weird Spinoza), allora la questione del tipo di politica che vogliamo diventa la questione del tipo di regime di affetti che desideriamo. Ricordiamoci che per Spinoza un affetto è ciò che è causato dall’incontro di qualcosa con qualcos’altro, qualunque sia la loro natura: esseri umani, animali, piante, rocce, idee, sentimenti, pillole, divinità e così via. Quindi, quando parliamo di gestione degli affetti collettivi, ci riferiamo a qualcosa relativo alla dimensione materiale. In tale contesto, riorganizzare la nostra percezione del mondo per riorientare la sua piattaforma materiale diventa un compito complesso che passa attraverso la progettazione dei nostri affetti. In particolare vorrei porre l’attenzione sulla questione dell’intensità necessaria per produrre le conseguenze sperate. La storia dell’anestesia con il suo rifiuto per l’eccitazione è iniziata nello stesso periodo storico in cui è stata inventata l’elettricità e, con essa, l’ideale della vita intensa, come mostrato in maniera esemplare da Tristan Garcia. Se ciò che si temeva dall’eccitazione era la sua intensità, allora la soluzione era ridurre l’intensità esistenziale a zero.
Come se ci fosse un bottone per spegnere l’elettricità di una persona…
Esatto! Nota però come questa fantasia di una politica a intensità zero è vecchia quanto il pensiero occidentale: è una vera e propria ossessione di tutti i razionalisti della storia, da Platone e Aristotele fino alle più recenti incarnazioni del pensiero politico liberale e analitico. Diciamoci la verità, una vera noia! Non sono in grado di comprendere come la stessa ragione sia una forma di affetto, misurabile in termini di intensità. Per concludere in merito alla politica dell’eccitazione, essa riguarda ovviamente l’elemento più temuto dell’eccitazione: il fatto che manda fuori di sé, rischiando di contaminare gli altri, proprio perché come l’elettricità viaggia su un filo, l’intensità viaggia da una persona all’altra (o da una sostanza a una persona). In questi spostamenti qualcosa è sempre perso, ma se la politica in questione è logisticamente affidabile, allora lo spreco può essere mantenuto al minimo.
Intervistarti è un po’ come surfare tra concetti, autori ed epifanie. Fino a questo punto forse ero riuscito a reggermi in piedi, ma ora… questo riferimento alla logistica, da dove viene fuori?
Ancora una volta torniamo a Nick e Alex, loro lo hanno spiegato egregiamente: tutto si basa sulla logistica e su ciò che viene trasmesso lungo le sue linee, i suoi tubi, i suoi fili e le sue condutture. Coloro che continuano a vaneggiare di rivoluzioni spontanee e di insurrezioni istantanee sono destinati a fallire, fino a quando non capiranno che, primo, la logistica è il regalo più grande e utile che ci ha fatto il capitalismo e, secondo, i sistemi di logistica non si ribellano. Di conseguenza il nostro obiettivo deve essere propagare l’eccitazione attraverso i media, l’industria farmaceutica, la comunicazione, i fornitori di energia, eccetera. Dobbiamo incanalare la nostra eccitazione sul petrolio, sulla gestione dei rifiuti, sulle catene di approvvigionamento e così via, ma questo sarà possibile solo quando avremo capito che la nostra depressione non è il nostro destino ineluttabile, come non è colpa di qualche stronzo in abiliti eleganti che dirige il mondo dal suo ufficio. Lavorando con Bruno Latour e leggendo il suo Parigi, città invisibile ho iniziato lentamente a capire quanto sia importante la complessità materiale dei processi di continuità e mantenimento, piuttosto che l’energia apparentemente dirompente che potremmo esprimere per rendere gli stessi processi disfunzionali.
La filosofia è stata principalmente uno strumento per giustificare ciò che non può essere detto o non può essere fatto. Quello che io desidero è qualcosa di molto diverso: sto cercando una narrazione speculativa che apra delle possibilità che andranno esplorate.
We weren’t here to code the hosts. We were here to decode the guests. Per avviarci alla conclusione di questa intervista vorrei tornare a uno dei pilastri della tua architettura teorica. Qual è il problema con quello che prima hai chiamato il nostro «presunto essere»?
Il mio problema con il concetto di «essere» è doppio. Primo, è un concetto filosofico e sappiamo bene come la filosofia sia stata fin dall’inizio uno strumento per la «polizia del pensiero». Certo, ci sono state delle eccezioni, ma la grande maggioranza dei filosofi non si è dato altro scopo che affermare l’impossibilità di una cosa o di un’altra. Dall’odio di Platone per la democrazia all’affermazione di Kant che non possiamo sapere cosa c’è oltre allo spazio e al tempo, dal maldestro tentativo di Cicerone di definire la legge a quello di Habermas di determinare il discorso pubblico (e potrei andare avanti per un bel po’), la filosofia è stata principalmente uno strumento per giustificare ciò che non può essere detto o non può essere fatto. Quello che io desidero è qualcosa di molto diverso: sto cercando una narrazione speculativa che apra delle possibilità che andranno esplorate da chiunque si voglia unire. Il secondo problema con il concetto di «essere» è che richiede una serie di condizioni da soddisfare e la più importante è la coesione. C’è una sorta di qualità compatta dell’essere, quella che prima indicavo quando parlavo di «concentrarci sul nostro presunto essere», proprio come se si trattasse di un concentrato di pomodoro: l’essenza distillata di se stessi, in cui trovare il proprio verso sapore, senza gli altri elementi inutili come l’acqua e tutto il reso. Per quanto mi riguarda, e in relazione a quanto appena detto sulla filosofia, sono più interessato alla dissipazione che alla concentrazione. Se l’«essere» ha un significato, per me è quello della sua estensione, di tutto ciò che può raggiungere e in cambio può influenzarlo. Intendo dire che dobbiamo ricercare un concetto di «essere» orientato verso ciò che non siamo e che possiamo diventare, piuttosto che ciò che dovremmo presumibilmente «essere». Noi non siamo nulla, ma ciò che non siamo dobbiamo andarlo a cercare.
Le nostre stesse soggettività sono il campo di battaglia. Questa è una citazione dell’artista fake Claire Fontaine, tratta da un suo scritto sull’eredità politica della femminista italiana Carla Lonzi. La stessa Lonzi ha ispirato il collettivo Tiqqun – da cui poi è nato il Comitato Invisibile – nell’invito a «un’altra logica di guerra, dove la posta in gioco non è nel rendersi inattaccabili da un avversario esterno, ma di lottare contro il nemico interiore». Mi sembra ci siano dei punti di contatto con quanto hai appena detto, vi state muovendo verso una direzione simile: una critica alla soggettività attraverso la devastazione del sé. Qualcosa molto diverso da quanto abbiamo visto in passato nel terreno del pensiero critico, tipo il collettivismo anti-individualista o l’attacco all’identità.
Ho la sensazione che il Comitato Invisibile [anche la loro opera omnia è di prossima pubblicazione per Not, ndr] abbia dato troppo credito al potere «in comando» e ai giganteschi pupazzi concettuali come «dominio», «capitalismo» e «supremazia», mentre non ha mai insistito abbastanza sull’impotenza di quello stesso potere. Con questo voglio dire che non c’è un campo di battaglia, ma piuttosto un regime di percezione in base al quale crediamo esista un campo di battaglia, inteso come spazio specifico, dove i problemi della nostra esistenza possono essere bloccati e isolati, per diventare l’oggetto delle nostre lamentele, delle nostre lacrime e dei nostri dolori. In questo mi sento molto vicino a Jacques Rancière: ciò che conta è la riorganizzazione del sensibile, tra ciò che è visibile o percepibile e ciò che non lo è (o, più precisamente, tra cosa è ritenuto visibile o percepibile e cosa non lo è). La rivoluzione ha già avuto luogo, ma dobbiamo ancora rendercene conto e agire di conseguenza; dal mio punto di vista questo significa riorientare la metafisica materiale del narcocapitalismo e reinventare gli usi dei narcotici che abbiamo ereditato da esso. Non è quello che ha fatto Preciado con il testosterone? In una certa misura non era anche quello che Timothy Leary e altri pensavano di fare con LSD (anche se il loro fallimento fu enorme)? È così difficile immaginare che la chimica e la farmacia del capitalismo possano permettere di costruire altri scenari oltre a quelli di The Wolf of Wall Street? Per riuscirci non c’è bisogno di imbracciare le armi o di creare una nuova TAZ: la TAZ siamo noi ed è sempre stato così. I primi sociologi e criminologi lo sapevano bene e proprio per questo motivo volevano combattere l’eccitazione, perché poteva condurre a sperimentare verso direzioni e risultati inaspettati.
You don’t decide for my chemical. Nel libro assumi una posizione decisamente negativa sulle sostanze psicotrope, specialmente quando parli del clubbing, ma ora sembri lasciare spazio ad altre interpretazioni. Le droghe hanno ancora qualche potenziale affettivo da usare per disfare la trama post-disciplinare contemporanea?
Nonostante abbia sperimentato parecchie droghe in vita mia, devo ammettere che non sono mai stato molto interessato al loro potenziale. Anche se molte delle droghe contemporanee sono una merda, incastrate in una rete criminale che ha causato la distruzione di interi paesi e di mezzo continente, questo non significa che non ci siano delle possibilità ancora da scoprire. Ho appena menzionato Leary: era convinto che l’LSD potesse ampliare il regno della mente e aveva ragione a pensarlo, almeno a livello ipotetico. Il fatto che si sia rivelato un disastro è solo un dettaglio contingente. Tuttavia, non si può dire lo stesso di altre droghe, come ad esempio la cocaina. Il suo più grande merito è di essere stata il primo anestetico locale disponibile per gli oculisti. Anche se Freud era convinto che ci avrebbe aiutato a lavorare e, persino, a socializzare, dopo due anni di sperimentazione con la cocaina del colosso farmaceutico Merck si è reso conto di un piccolo problema di fondo. Naturalmente, presto un altro laboratorio farmaceutico, quello della Bayer, trovò una soluzione alla dipendenza da cocaina: l’eroina. Un altro bell’errore. Tornando all’LSD, in effetti era in grado di fare qualcosa di significativo: alterava il cervello fino ad aprire delle nuove e strane dimensioni (dalle quali alcuni non sono mai più tornati). La questione, quindi, rimane aperta: è possibile riprendere da dove alcuni di questi sperimentatori si sono fermati? La risposta per me è sì, ovviamente. Però si deve fare attenzione a non riprodurre la prassi oggi dominante, fare dei farmaci e delle droghe degli anestetici che ci riportano al nostro esausto «essere». Come riuscirci? Davvero non lo so, ma sono sicuro che probabilmente non accadrà in un oscuro scantinato DIY, ma in qualche laboratorio pesantemente finanziato. Visto? Si torna alla logistica!
Un far west ancora da esplorare: alla ricerca di nuovi orizzonti esistenziali. Il depresso e il sonnambulo sono i due modelli antropologici del narcocapitalismo, per concludere questa intervista potresti proporre un modello alternativo al distacco sensoriale ed emotivo del primo e all’efficacia anestetica del secondo?
Questa è davvero una buona domanda ed è anche molto difficile! Onestamente non saprei darti una risposta. Non sono uno di quelli che ama ripetere la storia dello scrivano raccontata da Melville, tanto amato da Agamben e Deleuze. Non penso che affermare «preferirei di no» possa condurre da qualche parte, tranne che ad una stupida morte in prigione o manicomio per chi lo ripete, proprio come nel racconto di Melville. Sono convinto che non abbiamo alcuna scusa per «preferire di no» e che questa scelta è quella tipica del depresso soddisfatto: preferirei non farlo, quindi mi prendo le mie pillole per tenere sotto controllo il mio appagamento fuori dalla norma. Non opto nemmeno per la figura romantica dell’hacker solitario che sabota il «sistema» grazie alle sue onnipotenti abilità informatiche o per quella del survivalista neo-rurale che cerca di riconnettersi ad un modo di vivere più autentico (per riprodurre la divisione di lavoro, le differenze di genere e le altre sottigliezze del mondo da cui vorrebbero fuggire). Ogni tentativo di vivere una vita più pura, più pura di quella degli altri – senza accorgersi di come si è in realtà intrappolati nella rete del capitalismo – non solo è destinato a fallire, ma se lo merita anche, tanto è il disprezzo per chi non compie quella stessa scelta esistenziale. La nostra vita è e rimarrà impura, porterà alla distruzione e al consumo di altre vite, avrà un impatto sull’ambiente, avrà un costo per noi e per gli altri e via dicendo; ma soprattutto non c’è alcun «essere» al quale poter tornare per riconciliarci con il mondo o con il nostro vero sé. La festa è finita perché non è mai iniziata. È tutto qui: vivi la tua vita, vai al lavoro, guadagna il tuo stipendio, compra un po’ di cazzate, paga il mutuo, fai figli, mangia, caga, leggi un po’, ubriacati e buona fortuna con i postumi, ammalati, invecchia e muori.
Wow… era dal finale di Synecdoche, New York che non mi godevo questa devastante sensazione di serena rassegnazione esistenziale. E anche qui mi sembra di non potermi aspettare nessun lieto fine.
Be’ no, diciamo che il problema è un altro: quali sono le condizioni che permettono un tipo di vita come quella che ho appena descritto? Quali coordinate di questo corso di vita posso modificare? E con quali mezzi? Questo per dire che purtroppo non ho un modello antropologico da offrire, poiché l’unico modello opportuno è la rovina di qualsiasi forma di modello. Almeno che non interpretiamo il concetto di «modello» nel senso giapponese di mohan, vale a dire: «cosa farai dopo?». Nell’arte giapponese del giardinaggio, i giardini visti come dei capolavori non devono per essere imitati, seguendo una qualche «regola» (kisoku) astratta, ma servono come ispirazione per creare un altro capolavoro, per definizione diverso da quello da cui si è partiti. Se devo davvero offrire un modello antropologico, allora è quello del giardiniere giapponese: colui che «lavora, lavora, lavora» non con l’obiettivo di ripetere ciò che è già stato fatto, visto o pensato, ma che perfeziona la propria tecnica solo per poterla trasgredire quando arriva il momento di creare.
Ringrazio Gianfranco Morosato per il supporto nella traduzione dell’intervista.