Ciao maschio
Dalla «Guida pratica al bel faccino» a una «Scala di valutazione 1–10». Dai consigli pratici sul fisico («Allenate anche i glutei») a quelli sul look («Scarpe da ginnastica rigorosamente con felpe e t-shirt, non con vestiti eleganti»), fino a raccomandazioni basate sul buon senso: «Per una pelle in salute di buon colore, mangiate molta frutta e verdura, ed uscite di casa!», «La dismorfofobia. Quando è tutto nella vostra testa». I titoli di un qualsiasi «femminile» italiano del, poniamo, 1995 – prima dell’avvento del femminismo della terza ondata, e in piena era berlusconiana? No: gli esempi sono tutti presi da entries del forum dei brutti, una delle più grandi community online italiane di quelli che si ritrovano sotto l’etichetta di «incel» (involuntary celibate, involontariamente casto), su cui torneremo tra poco. Per ora basti notare come questi pochi esempi colgano un primo dato: forse mai prima d’ora il corpo maschile eterosessuale era stato sottoposto a tale severo auto-scrutinio.
Auto-oggettivazione
Come osserva Chiara Volpato in Psicosociologia del maschilismo, il modello eteronormativo e patriarcale tradizionale non ha esaurito la sua influenza nonostante decenni di femminismo, e continua a sostenere il nucleo profondo dell’immagine conservatrice, che si definisce in opposizione al femminile e poggia sulle vecchie norme dell’inibizione dei sentimenti, del culto della forza e dell’omofobia. Tuttavia, le ultime evoluzioni del capitalismo hanno dato vita a modelli maschili differenti – e non necessariamente positivi o progressisti nelle loro conseguenze per i rapporti di genere. Si prenda il metrosexual, nato negli anni Settanta, simbolo del nuovo maschio urbano post-industriale che cede la tradizionale prerogativa maschile di soggetto guardante per abbracciare la condizione di oggetto che si espone allo sguardo, proprio e altrui. Il prototipo del metrosexual è un giovane esponente delle culture metropolitane, single, con un’elevata propensione al consumo, che pone l’accento sull’autopresentazione e sulla cura di sé. «I media sono i principali promotori di tale immagine, che combina muscoli e successo allo scopo, nemmeno tanto velato, di rendere i lettori vulnerabili al consumismo. (…) La pubblicità promuove modelli fisici difficili da raggiungere, a cui va imputato il calo progressivo della soddisfazione degli uomini per il proprio corpo», riporta l’autrice. Vari studi hanno mostrato come la discrepanza tra la muscolatura posseduta e l’ideale del corpo sia responsabile negli ultimi anni dell’aumento dei disordini alimentari, dell’ossessione per la potenza muscolare e dell’abuso di steroidi anabolizzanti.
Certo, l’ossessione per la bellezza e lo sviluppo per la figura maschile ci riportano ai bodybuilders, ai cosiddetti beefcake degli anni Cinquanta, o indietro fino alla Grecia classica. In quei casi però si trattava della sua glorificazione. Qui si tratta invece di qualcosa di diverso, molto più vicino al disprezzo per il proprio corpo inculcato e interiorizzato dalle donne almeno a partire dalla modernità. Un modello che ha iniziato a interessare sempre di più anche gli uomini. Nei forum e nei siti degli incel si nota la presenza di contenuti diffusi da cosiddetti «Mike Mewers», studiosi delle pubblicazioni dell’ortodontista britannico Mike Mew sulle plastiche alla mandibola in grado di accentuarne la linea. «Abbondano le guide e tutorial per praticarsele da soli con trapani che inchiodano i denti a dei ferri, botte da dare in certe parti della mandibola a cadenza regolare con un martelletto apposta – pare che colpendolo l’osso si inspessisca» riporta Valeria Montebello su Linkiesta. Nonché video di lamentele di chi ha tentato e si è fatto, prevedibilmente, del male. Alternative meno truci sono ad esempio spingere la lingua contro il palato per lunghi periodi di tempo, o masticare gomma dura. Dalla mandibola ai polsi, un altro elemento centrale per «misurare» la propria virilità – e l’elemento della «misurazione scientifica» e meramente quantitativa è centrale, come vedremo, e come già accadeva in uno dei primi campi colonizzati dal marketing, quello dell’allungamento del pene (ma si può pensare anche lale scarpe con tacco invisibile per barare sull’altezza).
Sia che si appartenga alla community «redpill» (e cioè si seguano istruzioni volte al cosiddetto «lookmaxing», cioè a massimizzare il proprio aspetto) che a quella «blackpill» (e si abbia quindi abbandonato ogni speranza di risultare appetibili sessualmente), l’autoscrutinio è inevitabile, e ci parla di una radicale e preoccupante auto-oggettivazione che, come osservato ancora da Volpato, comporta una serie di pesanti conseguenze, che incidono sul benessere psico-fisico: scatena stati d’animo negativi, intralcia le prestazioni cognitive, contribuisce alla diffusione degli stati depressivi, delle disfunzioni sessuali, dei disordini alimentari. Sono cose che il femminismo ribadisce da decenni, se non da almeno un secolo, concentrandosi però soprattutto su quelle che sono le conseguenze negative per le donne. Ma cosa succede quando lo stesso avviene per gli uomini?
Chi sono gli incel?
Siamo partiti da una provocazione, quella di trattare gli incel come un’estensione al maschile di pratiche di auto-oggettivazione tipicamente femminili. È una provocazione forte, perché la misoginia degli incel, e il loro contrapporsi al femminile fino a volerlo annientare, sono diventati tristemente famosi a causa dell’attentato di Alek Minassian, il venticinquenne che ha ucciso 10 persone (ferendone altre 13) il 23 aprile 2018 a Toronto, sulla scia del suo (come di tanti) idolo nonché predecessore Elliott Rodger, che uccise 6 persone a Santa Barbara nel 2014 dopo aver lasciato un videomessaggio diventato subito virale su YouTube in cui «spiegava» i motivi del suo gesto, o più che altro del suo rancore. Rodger, commenta ancora Montebello, con il suo video e il suo memoir, si configura così agli occhi dei suoi seguaci, come «vittima suprema, ma anche vendicatore supremo». Una definizione su cui torneremo, ma chi sono questi seguaci?
Come spiega Zoe Williams sul Guardian, il termine viene originariamente coniato da una donna, nota come Alana, che gestiva un gruppo di supporto online per persone single. «Sembra di essere lo scienziato che realizzò per primo la fissione nucleare e poi scopre che viene usata come arma in guerra», pare abbia commentato di recente di fronte all’appropriazione del termine. Nata principalmente su Reddit e 4Chan, la comunità incel è parte della cosiddetta «manosphere», ma da questa si distingue per i tratti molto più violenti, rassegnati e nichilisti. Chiunque riesca ad avere una vita sessuale è oggetto di invidia e odio da parte degli incel, e le categorie verso cui si concentra (con intensità variabile) il loro odio sono i Chad (gli uomini attraenti), le donne, in primis le Stacy (o Becky), cioè uno stereotipo di donna attraente e superficiale, interessata ai maschi solo in virtù del loro quoziente LMS (Looks Money Status). In molti casi senza che questo comporti alcun biasimo: si tratterebbe di una semplice constatazione, basata sulla biologia, il darwinismo sociale e le supposte regole dell’attrazione – sebbene sia piuttosto esplicativo un paragone pronunciato da un incel anonimo in un’inchiesta televisiva che osserva «Anche i pedofili, non scelgono loro di essere attratti dai bambini. Però tu li disprezzi».
Oggetto di strali sono anche i Normies, e cioè i non appartenenti alla comunità non solo incel ma prima di tutto geek, quelli che non comprendono il loro lessico da illuminati digitali e sociali, in un misto di rancore verso l’esclusione e di orgoglio elitario. L’infinità di variabili nell’atteggiamento riguardo ai gruppi da cui si sentono esclusi è solo uno dei fattori evidenziabili in un quadro che non offre ancora solide basi per una precisa analisi demografica che permetta di mapparne età, provenienza, etnia, classe sociale. Ma del resto non è un’indagine «oggettiva» del problema quello che ci proponiamo qui. Anzi, sono due gli approcci da cui si vuole prendere le distanze.
Non possiamo comprendere l’ideologia incel se non partiamo dal presupposto che la loro incoerenza è anche la loro forza. Gli incel seguono l’articolazione irrazionale dell’inconscio, e vanno letti come una delle tante forme in cui si esprime il rimosso della società.
Il primo è quello dell’indagine antropologica, che con una ricchezza di dettagli e una prossimità al fenomeno eccessive, rischia di allontanare dalla sua comprensione, facendoli apparire come una setta di psicotici. Qualcosa di incomprensibile ed esterno, quando invece la loro ideologia parte da una condizione esistente e formalizzata, grazie all’elaborazione collettiva, in narrazione capace di giustificare e radicalizzare i suoi seguaci, e ha molto da dirci sullo stato attuale delle cose in materia di genere, come dimostra ad esempio un pezzo esecrabile e involontariamente comico pubblicato di recente da Rolling Stone Italia, in cui l’autore esprime con termini assolutamente consoni alla vulgata della stampa nazionale il suo rancore verso le donne per la sua condizione di single quarantacinquenne.
L’altra strada che si vuole evitare è quella del debunking razionalista, che parte spesso dall’indignazione/strumentalizzazione giornalistica per giungere a conclusioni tutto sommato rassicuranti. È il caso ad esempio del libro di Mike Wendling Alt Right. From 4chan to the Withe House, che sostiene che il fenomeno sia destinato ad implodere a causa della mancanza di una base coerente e della sua contraddittorietà. Tesi su cui si può decisamente dissentire e che si può sostenere solo se si intende l’ideologia secondo la narrazione che i media statunitensi intessono, almeno dall’11 settembre in poi, sul terrorismo. Secondo questa narrazione, il terrorismo sarebbe una cellula organizzata ed esterna, opposta, a livello di Weltanschauung, al suo bersaglio. Peccato che non solo il terrorismo che ha colpito l’occidente di recente non risponda affatto a queste tre caratteristiche (nemmeno quello islamico), e che la forza di un’ideologia stia proprio e soprattutto nella sua capacità di proliferare e infiltrarsi in vari modi nel pensare e nell’agire di una serie di attori molto distanti tra loro – non solo a livello geografico, ma anche per tutto il loro background fatto di condizioni sociali, classe, etnia, genere etc. Lo stesso approccio razionalista si ritrova nel libro Kill All Normies di Angela Nagle, che nel pezzo sopracitato di Williams si stupisce dell’incoerenza degli incel, ossessionati dalla propria solitudine al punto di deprecarla e invocarla allo stesso tempo, o del loro appigliarsi a valori tradizionali e poi invece aspirare a una promiscuità sessuale che gli è preclusa (uno stupore che sembra ignorare che il modello patriarcale arcaico non ha mai previsto né preteso la monogamia maschile, tollerando quando non apertamente incoraggiando l’infedeltà del capofamiglia).
Giustamente, commenta Williams, «A un livello elementare, meno senso ha la loro impostazione, più ne ha. Coerenza, consistenza, ragione – questi sono strumenti che utilizziamo per comprendere, negoziare, includere e ascoltare il prossimo. In una visione del mondo autoritaria, sono regole che tendenzialmente si preferisce ignorare. Questo rende molto difficile confrontarvisi, a livello intellettuale e soprattutto pratico: non si può discutere con uno schema basato sul rifiuto dei tuoi argomenti. Ma l’alternativa più ovvia (ridicolizzarli) non è necessariamente efficace, né etica». Non possiamo comprendere l’ideologia incel se non partiamo dal presupposto che la loro incoerenza è anche la loro forza. Gli incel seguono l’articolazione irrazionale dell’inconscio, e vanno letti come una delle tante forme in cui si esprime (o ritorna alla luce, incoraggiato dalle tragiche condizioni socioeconomiche degli ultimi anni) il rimosso della società. Per questo vogliamo tentare qui qualcosa di diverso, ovvero prendere in qualche modo «sul serio» i loro presupposti e vedere dove ci portano. Considereremo quindi il fenomeno nella sua manifestazione esplicita, superficiale. È qui del resto, insegna la psicanalisi lacaniana, che risiede l’ideologia: nell’apparenza.
Autonarrazione e carenze affettive
Un primo elemento che abbiamo riscontrato in apertura tra quelli che balzano agli occhi approcciandosi alla comunità incel è quello dell’ossessione per l’aspetto fisico. Ce n’è un altro che è altrettanto evidente e che, secondo i più vieti criteri del binarismo di genere, si potrebbe definire altrettanto «femminile». È una narrazione di sé, del proprio vissuto, raccontata in prima persona e con modalità quasi diaristica. Nascono così i greentext di 4chan, racconti schematici di situazioni vissute, da cui si sviluppa poi una narrazione sempre più dettagliata. Ne è un esempio Adinur DB, utente facebook che incoraggia i suoi seguaci a non fidarsi dei PUA (acronimo per Pick Up Artists, cioè coloro che diffondono strategie di seduzione per maschi che non possono contare solo sul look) o dei «Redpillati» (dalla Redpill di cui sopra), ad abbandonare la speranza di trovare una compagna o anche solo del sesso, e a rivolgere le proprie energie ad altri settori della vita, affidandosi alla masturbazione «selettiva» (slegata da stimoli esterni e volta solo alla soddisfazione fisica) come sfogo e forma di controllo della pulsione sessuale, portatrice per costoro solo di dolore e delusione.
Adinur DB, come tanti altri, racconta con dovizia di particolari e una forma di sensibilità straordinariamente autoconsapevole la propria vita di solitudine, descrive le donne da cui è stato attratto e di cui si è innamorato, le sue sensazioni di umiliazione e disperazione di fronte al loro rifiuto, ricevendo manifestazioni di affetto e supporto dai suoi seguaci, che si identificano e ritrovano in lui e le sue parole. Anche qui, mai prima d’ora gli uomini avevano parlato così diffusamente di sé, e ancora meno di relazioni, desiderio, «sentimenti». Nel libro di David Foster Wallace Brevi interviste con uomini schifosi, il racconto intitolato La persona depressa ha come io narrante una donna. Nemmeno nell’esercizio letterario in cui l’autore statunitense esplorava la galassia di solitudine e abiezione maschili, l’autore riusciva a immaginare un uomo capace di tanta (malintesa, ossessiva, miope, fondamentalmente violenta, anche in quel caso) autoanalisi. Oggi sarebbe costretto a ricredersi.
Che ciò che gli incel bramino non sia esclusivamente sesso e possesso delle donne, bensì una qualche forma di intimità (per la quale chiaramente sarebbero del tutto impreparati) lo rivela il trattamento di compassione mista a disprezzo che riservano ai cosiddetti paycel, cioè quegli incel non vergini (o kissless/hugless virgins, come si definiscono quelli che non hanno mai ricevuto nemmeno un bacio o un abbraccio) perché hanno fatto ricorso alla prostituzione. La prostituzione, come spiega Volpato, «è basata su un rapporto asimmetrico, uno scambio diseguale, che ammette il solo desiderio maschile, e nel quale il denaro esercita un ruolo riparatore: rassicura l’uomo rispetto all’assenza di desiderio femminile, trasformando il suo bisogno in consumo libero e permettendogli di lasciarsi andare». La prostituzione permette la fuga dai pericoli e dai costi delle relazioni affettive, crea una situazione di puro scambio, che cancella l’ansia da prestazione e da confronto. Per questo non stupisce che, come spiega Volpato, la prostituzione affianchi nell’ombra il mondo delle «normali» relazioni affettive.
Ben diverso è per gli incel, che si sentono in gran parte ormai terrorizzati dal rapporto con la donna. A ulteriore riprova, sono gli stessi paycel a dichiarare che la prostituzione non è una scappatoia, e che meritano ugualmente di essere inclusi nella comunità: non è l’esperienza del sesso a fare la differenza, bensì quella di essere desiderati. Scrive Solnit sul Guardian: «Gli incel sembrano pensare che il problema sia l’assenza di sesso, quando in realtà ciò che gli manca è l’empatia e la compassione e l’immaginazione che accompagna la capacità di farlo. Questo è qualcosa che i soldi e il capitalismo non insegnano, possono farlo le persone che ami».
Molti degli incel sembrerebbero sottoscrivere questa affermazione. Una speranza di emancipazione dal ruolo di maschio predatore? Sì e no. Un utente della pagina di AdinurDB ammette la sua corresponsabilità nella sua incapacità di approcciare l’altro sesso, ma prende a modello proprio quella mascolinità meno «complessata», capace di prendersi una donna infischiandosene di ottenere un suo riconoscimento: «Io quando non scopo è perche mi faccio i complessi. Ero stato alfapercepito [Gli incel distinguono tra uomini alfa e beta (o omega/zeta nei casi più disperati): a seconda di come vengono percepiti dalle donne n.d.a.] da una 8,5 e non ho saputo reggere il confronto per colpa di poca lucidita [sic] e complessi mentali. Risultato? Orribilmente appeso, quindi è una xosa [sic e così via] che conta. Tutti i brutti chestanno con ragazze non se ne fottono di essere umiliati, contrattaccano e fanno sentire inferiore la donna soprattutto con l approccio fisico, che è l unico modo per arrivare al bacio». Del resto, se torniamo alla questione dell’auto-oggettivazione, è chiaro che c’è un grosso dislivello tra il modo in cui una donna può auto-oggettivarsi per aderire al modello culturale tradizionale di femminilità, fatto di docilità e sottomissione al ruolo di preda, a quello a cui può farlo un uomo, sostanzialmente rendendosi più attraente in quanto più sicuro di sé, volitivo, predatore e violento.
Misoginia
Volendo azzardare un paragone tra comunità online, la comunità incel presenta molti tratti simili a quella pro ana, ovvero quella rivolta e creata da ragazze e donne affette da anoressia e bulimia, come fattomi osservare da una persona che di queste si occupa. In entrambi i casi, il supporto iniziale lascia spesso il passo, tramite identificazione reciproca, alla radicalizzazione. Il punto in cui però divergono le due modalità riflette il binarismo di genere: le conseguenze più tragiche sono autolesive per le anoressiche, eterolesive e violente per gli incel.
Sebbene questa violenza (come testimoniano i due atti terroristici citati sopra) si esprima poi in modo relativamente indifferenziato, è evidente che il tasso elevato di misoginia della comunità sia una costante. Le donne vengono definite «Femoids», un termine che ne riflette la visione di subumani, come la sua traduzione italiana «domnule» utilizzata sul sito il redpillatore. Questo odio o fobia è legato alla percepita incapacità di rapportarsi a loro, ma anche a una forma più profonda di rifiuto del femminile. È una forma lampante di quello che si definisce sessismo ostile, definito da Glick e Fiske in «An ambivalent sexism. Hostile and benevolent sexism as complementary justification for gender inequality», come una visione culturale dei rapporti di genere dove le donne sono percepite ricercare il controllo sugli uomini attraverso la sessualità e l’ideologia femminista, e che si basa sull’affermazione della «naturale» inferiorità della donna.
A fronte dell’autonarrazione particolarmente attenta alla complessità della psiche e della sensibilità maschili, c’è una percezione della donna come assolutamente bidimensionale, valutata sulla base di punteggi estetici, considerata costituzionalmente o biologicamente a caccia di geni forti. Ridotta al ruolo di utero, ancora una volta. Non viene insomma accordato alle donne il riconoscimento che da queste si pretende. La condizione di incel non è accettata con passività o puro self-blaming, ma anche con un senso di entitlement ignoto al genere femminile, appreso in secoli di dominio patriarcale e capitalistico, osserva giustamente ancora Solnit. La misoginia, del resto, sebbene spesso si leghi al vissuto individuale e alla patologia, è anche un humus culturale legato a circostanze materiali, ed è rivelatore che nel caso degli incel l’ideologia sia manifesta, mentre di solito è ciò che ci circonda e in cui siamo immersi al punto da non poterla identificare. È sintomatico di un cambiamento in corso. Dire «sono misogino», oggi, si carica di un carattere programmatico. Eppure, l’elemento della donna «a caccia» di geni forti e sani per la sua prole ha qualcosa di inedito, e che nuovamente va a scompaginare la rigida narrazione tradizionale, binaria e eteronormativa, che non permette di liquidare semplicemente il fenomeno come lo derubrica Jia Tolentino sul New Yorker dicendo che «quello che vogliono gli incel non è sesso, è assoluta supremazia maschile».
Minorità percepita
La misoginia manifesta e programmata degli incel rivela uno dei suoi rimossi sociali, la paura della donna, non vista solo come preda o subordinata, ma anche come avversario, un competitore all’interno di un sistema capitalistico/consumista basato sull’ingiunzione a godere. Nel corso dei secoli, spiega sempre Volpato, «le donne sono state oggetto, alternativamente, di disprezzo e paternalismo. Hanno suscitato poca invidia perché il pregiudizio invidioso è riservato ai gruppi ritenuti competenti e pericolosi e le donne, in genere, non erano giudicate tali. Oggi, però, alcuni sottogruppi di donne sono visti come capaci di sfidare la supremazia maschile; è il caso delle donne in carriera e delle femministe, che sono così diventate oggetto del pregiudizio di invidia».
Alcuni video diffusi nella comunità incel mostrano scene tratte da talk show e programmi televisivi in cui l’atteggiamento apertamente flirty delle conduttrici verrebbe letto come molestia sessuale se avvenisse a ruoli di genere invertiti, mentre gli uomini che diffondono questi video guardano all’uomo «molestato» dalla conduttrice con invidia, quella che riservano anche alle donne. L’invidia nasce proprio dalla supposta possibilità per le donne di ottenere più facilmente sesso, indipendentemente dal loro status estetico, sociale o economico.
La condizione di oggetto sessuale è qualcosa, come dicevamo, a cui questi uomini sembrano ambire, e che gli è preclusa. Il fatto che questa preclusione, in alcuni contesti confermata dalle statistiche, sia legata alle pesanti sanzioni che ancora oggi le donne sessualmente emancipate incontrano in molti ambienti (il che basterebbe a spiegare la sproporzione tra le donne – poche – e gli uomini – molti – attivi sulle dating apps, o in cerca di sesso senza impegno), all’educazione repressiva e non legata alla conquista sessuale – come nel caso degli uomini– che ricevono durante il loro sviluppo (che spiega spesso la maggiore rassegnazione a una vita priva di sesso) sembra non trovare spazio nella visione dei generi degli incel, mentre emerge spesso tra le righe la consapevolezza di come l’invidia per le donne sia legata anche a un cambiamento recente riguardo al mondo del lavoro post-fordista, in cui alcune caratteristiche tradizionalmente «femminili» vengono sempre più valorizzate.
Questa inedita «competizione» verso le donne risponde a una lettura del conflitto sociale corroborata da quella che Slavoj Žižek descrive come autopercezione vittimista: «oggi la celebrazione delle «minoranze» e dei «marginali» è la posizione maggioritaria predominante, tanto che persino l’Alt Right che si lamenta del terrore provocato dal politicamente corretto, si presenta come protettrice di una minoranza in pericolo». Non stupisce quindi che la comunità incel prenda a prestito il linguaggio dei liberal o addirittura degli attivisti (chiamati sprezzantemente «social justice warriors») americani: «La società tratta i maschi single come spazzatura, e questo deve finire. Le persone al potere, le donne, possono cambiare questa situazione, ma non lo fanno. Le loro mani sono sporche di sangue». Questa nozione del soggetto come vittima irresponsabile, trasforma ogni incontro con l’altro in una potenziale minaccia. Detta altrimenti, il soggetto in questione si costituisce come tale proprio in quanto costantemente vittima potenziale, costantemente minacciato, inerentemente «a rischio» nel rapporto con l’Altro – e cioè, in questo caso, con la donna.
Tutto lascerebbe pensare che gli incel, così fieri di sbandierare la propria fragilità, non facciano parte della mascolinità egemone, caratterizzata dall’idea del maschio competitivo, orientato al successo.
Ma se l’emancipazione della donna è percepita come una minaccia, la presenza di un altro elemento dimostra quanto l’autopercezione vittimistica sia ricercata e costruita a tavolino. È l’elemento «determinista» dell’ideologia incel, in particolare blackpill: l’appiglio a teorie biologiste di stampo lombrosiano. Da un lato, l’appiglio alla «scienza» sembra ristabilire il carattere maschile della comunità. Si tenta di oggettivare una prassi che a prima vista sembra di forte e inedita soggettivazione, come notavamo precedentemente. Dall’altro lato però la funzione primaria di questa credenza è l’assoluzione dai propri fallimenti, un meccanismo giustificatorio che rimanda al mittente tutti i consigli che i pari gli danno per tirarli fuori da quella situazione.
L’ineludibilità della condizione è il centro da cui poi si sviluppano tutte le teorie, da quelle più violente e antisociali, a quelle più pacifiche come quella di Adinur DB che, al di là di un sessismo assiomatico basato sulle sue convinzioni biologistiche, invita gli Incel ad abbandonare qualsiasi sogno di realizzazione interpersonale. Si tratta di un’autoassoluzione molto diversa dalla strada intrapresa dal femminismo, che ha quasi sempre evitato la trappola del determinismo di genere e del riduzionismo biologico, individuando le ragioni della subordinazione nel sociale. È fondamentale notare però come, in questo caso, la presunta scienza venga utilizzata non per giustificare il dominio maschile, come accade nel caso dei MRA (Men Right’s Activists) tradizionali, bensì la sua supposta minorità.
Sarebbe necessario aprire qui una parentesi sui Men’s Studies (anche chiamati Masculinity Studies) per comprendere in quale stadio della gerarchia delle mascolinità si debbano posizionare gli incels. Tutto lascerebbe pensare che gli incel, così fieri di sbandierare la propria fragilità, non facciano parte della mascolinità egemone, caratterizzata, secondo Tosh ( il riferimento è al saggio «Come dovrebbero affrontare la mascolinità gli storici?», in Genere. La costruzione sociale del maschile e del femminile), dall’idea del maschio competitivo, orientato al successo, cinico, anaffettivo ed eterosessuale. L’investimento della comunità in pratiche di autodenigrazione (un membro attivo su AdinurDB ha come immagine di copertina su Facebook un’insegna che recita «Cesso pubblico»), autocommiserazione, nonché una componente neanche troppo velata di omosessualità latente che emerge sia nei rapporti affettivi e quasi morbosi che si instaurano tra i membri della comunità, sia nell’ammirazione erotica verso i Chad, parlano di un’altro tipo di mascolinità. Per inciso, anche la presunta affinità o sovrapponibilità con i white suprematists andrebbe approfondita, specie perché negli Stati Uniti molti membri della comunità ascrivono alla loro condizione il proprio essere mixed race. Questo articolo di Roberto Paura per Il Tascabile, sebbene non completamente condivisibile, ha il pregio di sottolineare i tratti in comune con il terrorismo islamico. Tornando invece alla questione della mascolinità, tanto la soggettivazione quanto l’auto-oggettivazione (che si collegano al determinismo scientista) consentono loro di cristallizzarsi nel godimento perverso del masochista. Il «2dp» (due di picche, ovvero il rifiuto ricevuto da una donna) è la cosa più temuta – dunque più desiderata.
Sadismo e virilità
C’è un elemento che però sembra sfuggire a questo quadro, ed è quello del sadismo. Come osserva ancora Williams, «nella sfera dei PUA la seduzione si trasforma in guerra dei sessi: […] il suo principio fondamentale è che il modo per convincere una donna a venire a letto con te (e a comportarsi bene) devi farla sentire insicura. Quando questo, sorprendentemente, non funziona, gli incel si inabissano nella black pill: il gioco è truccato dall’inizio. […] Questo porta a un escalation di fantasie violente, visto che dal momento che il gioco non funziona, l’unico modo per fare sesso con una donna è usando la forza. Gli uomini attraenti sono una concausa in questa fantasia violenta, ed è interessante come un forum possa andare avanti a parlare di stupri di massa per giorni, ma viene chiuso quando qualcuno inizia a parlare di castrare il proprio coinquilino».
Il dettaglio del coinquilino castrato è effettivamente interessante, ma non solo, come crede Williams, perché rivela un double standard in termini di censura, quanto perché svela un investimento sadico omosessuale. Gli incel, ancora una volta preziosi nel rivelare i paradossi inconsci dell’ideologia patriarcale, ci pongono di fronte a uno dei più grandi paradossi della maschilità: tanto più la mascolinità si esaspera, tanto meno eterosessuale essa diventa. Ma la citazione di Williams ci parla anche di un altro paradosso, ancora meno compatibile con un concetto standard di mascolinità egemone. Autodenigrazuone e dato scientista sembrano parlare di virile stoicismo, un’accettazione del proprio destino che impone di «take it like a man». Questa imposizione, però, è eterodiretta: prendere la cosa «come un uomo» necessita di un’azione violenta verso lo status quo. Azione violenta apertamente e necessariamente sadica di cui sopra, come dimostrano i tanti forum in cui si parla del piacere derivante dal seguire donne sconosciute per strada solo per assaporarne il crescente terrore.
Qui ci viene in aiuto la psicanalisi lacaniana, che consente di individuare un ulteriore e paradossale ribaltamento presente nel sadismo. Il ruolo fallico associato culturalemente al maschio, osserva Jane Gallop nel suo saggio su psicoanalisi e femminismo The Daughter’s Seduction, «demands impassivity». Il piacere derivante dalla crudeltà, svelando il desiderio «del pene» (cioè prettamente maschile, e non più del fallo), ne svela anche la fragilità: si domanda, di nuovo, un riconoscimento, una reazione nell’altro, cosa di cui il fallo propriamente inteso non dovrebbe curarsi. Il ruolo fallico è in qualche modo una posizione inabitabile per il soggetto concreto: da qui il paradosso culturale per il quale nella stessa figura della mascolinità egemone vengono a collidere sia l’immagine dell’uomo «che non deve chiedere mai» (eventualmente oggetto del desiderio, mai sfiorato dalle disavventure identitarie di chi si trova nella condizione di desiderare) e quella del maschio predatore (unico soggetto a cui è socialmente consentito desiderare, e prendersi ciò che gli spetterebbe senza una necessità di mutuo riconoscimento). Una posizione totalmente schizoide, che da un lato necessita, richiede il desiderio femminile e dall’altro lo nega, barra, esclude. Il fallimento degli incel nell’aderire a questa immagine rende questa contraddizione evidentemente manifesta.
Gli uomini insicuri della propria mascolinità identificano come soggetti privilegiati quelli che sono storicamente stati (e continuano a essere) appartenenti a gruppi minoritari, subordinati e discriminati.
A rendere manifesto questo paradosso fondamentale è stata la possibilità, data dall’internet, della creazione di una comunità, che come sempre avviene in rete, è sia trasversale e potenzialmente universale a livello geografico, anagrafico e sociale, sia chiusa. «Gli Incel sono sempre di più, una comunità chiusa, con le loro regole e i loro programmi d’azione. Negli anni si sono talmente radicalizzati che non esiste quasi più confronto con la realtà, non ci vogliono nemmeno più provare ad abbordare una donna – parlano solo fra loro. A parte l’impossibile piramide della bellezza da scalare e alcuni termini che si possono imparare, i mantra Incel sono impossibili da capire per un estraneo perché fanno parte di un sistema ideologico complesso e sigillato» osserva Montebello. Come dimostra il libro di Nagle, il delinearsi e il «radicalizzarsi» dei fronti politici negli Stati Uniti è legato all’implementarsi dell’utilizzo della rete, seguendo per altro piattaforme diverse (Tumblr come culla della quarta ondata femminista e del pensiero liberal, fatto di trigger warnings e safe space, e 4chan come piattaforma geek e anonima da cui si è sviluppata l’alt-right e la frangia più estrema della manosphere).
Il carattere «carbonaro» di 4chan, che non tiene traccia degli interventi postati, è fondamentale per comprendere quale sia stata la chiave di volta per l’ingresso nel mainstream di questa sottocultura. L’anonimato e la libertà concessa da questa tecnologia ha permesso all’inconscio sociale di palesarsi con una virulenza senza precedenti e allo stesso tempo di legittimare queste prese di posizione grazie alla scoperta rassicurante di non essere soli. La sofferenza individuale, la patologia, si trasformano così rapidamente in qualcosa di più ampio politicamente: bastano un po’ di like e di seguito perché una condizione subìta si trasformi in desiderata. La comunità incel diventa così una nicchia rassicurante e accogliente basata sul male bonding, e soprattutto sull’unico appiglio che sembra rimanere stabile in un contesto globale che da un lato ha abbattuto ogni forma di sostegno sociale ed economico e dall’altro ha accolto le richieste delle minoranze con sempre maggior favore (apparente): l’identità (di genere, in questo caso specifico).
Ma il favore accordato alle minoranze, ripeto, è apparente. L’interesse crescente dei media verso la discriminazione di donne e omosessuali, verso i casi di cronaca come lo stalking e il femminicidio, hanno creato uno scollamento tra la condizione di genere effettiva e quella percepita. Gli uomini insicuri della propria mascolinità identificano come soggetti privilegiati quelli che sono storicamente stati (e continuano a essere) appartenenti a gruppi minoritari, subordinati e discriminati. Tra «paese reale» e media generalisti, la rete e in particolare la manosphere (e ancora più in particolare la community incel) sembra porsi come autentica vox media, nel senso di perfetta immagine dialettica che, prendendo sul serio soltanto la rappresentazione mediatica della realtà, la invera e diventa così più reale del reale, riproducendone tutte le contraddizioni.
Una versione differente di questo articolo uscirà a fine 2018 nel volume curato da Monica Luongo e Giuliana Misserville Tempo breve e virtualità del presente, Iacobelli editore, per gentile concessione delle autrici.