Young Adult Utopia
Ricordo il momento in cui, da giovane studente, sentii per la prima volta il termine «distopia». All’epoca, tanti anni fa, era una parola insolita con cui stupire gli amici durante le conversazioni:
«Lo sai che il contrario di un’utopia si chiama distopia?»
«Veramente? Che interessante, Pietro!»
Basta tornare al 2018 per confrontarsi con una realtà radicalmente diversa, in cui «distopia» e «distopico» sono buzzword che riempiono le discussioni attorno a serie televisive, saghe letterarie, report climatici e analisi geopolitiche; mentre utopia, sua sorella un tempo così popolare e cool, è ora dimenticata, a tratti derisa, duramente messa alla prova dal contatto con una realtà plumbea e irrespirabile.
Millennials. Il mondo nuovo (Mondadori) è un libro di fantascienza che racconta un pianeta popolato da ragazzini. Nel libro, il 3 maggio 2019 tutti gli esseri umani dai diciassette anni e mezzo d’età si sono bloccati: non sono morti ma giacciono in una sorta di coma, mentre il mondo che avevano costruito si sbriciola, ormai inutile e assurdo. Il romanzo, e qui torniamo all’utopia, inizia quattro anni dopo l’Evento e racconta un mondo nuovo che corre su due piani: quello vicino, locale, fatto di piccole comunità in cui ognuno ha un compito; e quello lontano, globale, caratterizzato dal Syn, una rete che è andata a sostituire il nostro World Wide Web. Il mondo nuovo è difficile, a tratti feroce, ma funziona; pur essendo traumatizzato dai miliardi di Bloccati che sono rimasti sulla Terra, si è abituato all’idea di conviverci ed è abbastanza sereno.
Si può essere post-apocalittici e ottimisti senza risultare schizofrenici (o stupidi)? Millennials cerca di surfare quest’onda stretta e selvaggia, e ci riesce: del resto il Blocco è un fenomeno apocalittico in quanto catastrofica fine di un mondo e inizio di un domani incerto, assurdo e senza regole; ma è anche ottimista perché, come vedremo, i suoi autori non credono all’inevitabilità del male e della violenza. Niente homo homini lupus, insomma, per La Buoncostume – un poker di autori, registi e attori composto da Carlo Bassetti, Simone Laudiero, Fabrizio Luisi e Pier Mauro Tamburini – che lavora da tempo con la tv e il web. Alcuni di loro li conosco ormai da tempo e quando Pier Mauro, un anno e mezzo fa, mi ha parlò del progetto Millennials, mi son subito chiesto: «Come diavolo si scrive un libro a otto mani?». E poi: «Ma chi glielo fa fare?». In un grigissimo pomeriggio milanese di fine ottobre, sono andato a intervistarli. E sono partito proprio da qui.
E insomma, un libro a otto mani. Chi ve lo ha fatto fare?
Pier Mauro: Cinque anni fa stavamo cercando delle idee di film. Per delle commedie, a dire la verità, ma come ci capita spesso siamo finiti a parlare di fantascienza.
Simone: Vari produttori cominciavano a cercare proposte nel post-apocalittico, così abbiamo cominciato a lavorare all’idea per un film…
Fabrizio: Che poi è diventata l’idea per una serie tv.
Pier Mauro: Ci abbiamo lavorato per una giornata, e poi l’abbiamo immediatamente accantonata perché non era realizzabile, troppo costosa. Poi, mi sembra due anni dopo, abbiamo cominciato a pensare di trasformarla in un libro. Scrivevamo solo roba comica breve quindi come serie tv sarebbe stata improponibile da parte nostra – invece un libro costa così poco… (ride).
Simone: Avevamo una sinossi di otto pagine, accompagnata da uno schema capitolo per capitolo di venti pagine e i primi undici capitoli scritti per esteso, come esempio dello stile che volevamo utilizzare. Era il marzo del 2017.
Passiamo al come: una volta stabilita la storia e la trama, la scrittura toccava a Simone, che di libri ne ha già scritti parecchi. Come vi siete organizzati, con Google Docs, schemi?
Simone: Moltissimi schemi, sì, ma sono tutti pieni di spoiler quindi meglio non farli vedere! Quando mi trovavo a scrivere, questa è la cosa importante, sapevo già quello che dovevo fare: facevamo prima lunghissime riunioni in cui stabilivamo praticamente tutto.
Fabrizio: Tutti insieme abbiamo lavorato al world building, la costruzione del mondo; il plot; la costruzione dei personaggi e il design delle scene principali.
Pier Mauro: Abbiamo consegnato il libro in quattro parti. A ogni giro Simone doveva scrivere in modo rapidissimo rispetto alle normali tempistiche di uno scrittore. Perché doveva scriverle, passarle a noi, ricevere i nostri feedback, sistemarli…
Simone: Durante la stesura devi pensare a personaggi, temi, luoghi, dialoghi, voce, stile… Il fatto che molte cose fossero già stabilite creava una certa deresponsabilizzazione che mi permetteva di andare più veloce. Sapevo che una certa scena si ambientava nel lago d’Iseo e, anche se sul momento non mi convinceva, sapevo che Fabri l’aveva pensata così, la scrivevo così e alla fine mi prendeva.
Il mondo nuovo non sarebbe possibile senza il Syn, la grande rete globale che tiene uniti tutti i superstiti: come l’avete immaginato?
Fabrizio: È un mix di tante cose, come la democraticità totale di Reddit, ma la cosa che ci interessava era non renderla una piattaforma proprietaria: è open source, cioè un gruppo può sviluppare un’app per il Syn e poi il sistema la assorbe.
Pier Mauro: La prima ispirazione è stata l’internet decentralizzato, progetti crypto come Ethereum. Si parla quindi di una rete diversa da quella che conosciamo, un sistema in grado di evolvere, espandersi e autoverificarsi. Per quanto riguarda la disponibilità di tecnologia come tablet e smartphone, l’idea è che, rimanendo vivo il 14% della popolazione, c’è abbondanza di risorse e prodotti. I gadget non mancano.
Il concetto di rete è comunque alla base del romanzo: lo ritroviamo nel Syn ma anche… per evitare spoiler diremo non-solo-lì. Orizzontalità, decentralizzazione: parlatemene citando solo titoli della collana Not, grazie.
Pier Mauro: Ah perfetto… beh l’orizzontalità è lì da sempre, ma senza spoilerare diciamo che c’è una coincidenza pazzesca con l’ultimo di Bifo che parla della speranza di un’umanità orizzontale e connessa attraverso l’empatia… Per quanto riguarda il world building utopico, sicuramente Inventare il futuro è stato essenziale, sia per elementi come il rifiuto del lavoro e la ricerca del piacere, sia per il gesto in sé così fuori moda di tentare di immaginare futuri migliori… quindi se vuoi ci puoi buttare dentro pure Mark Fisher.
Lo si sente anche in un punto, quando un personaggio dice: «tutte le armi più devastanti, le risorse che dopo il blocco non erano più servite…»
Fabrizio: Beh per quanto riguarda le armi atomiche, per esempio, sono anche molto difficili da manipolare e i ragazzi non hanno le capacità, per quel che ne sappiamo, di entrare in un luogo e lanciare un missile dopo aver inserito una password. Ci sono talmente tanti livelli di sicurezza che tutto quel mondo lì rimane impenetrabile; e occupato come sei nella sopravvivenza quotidiana, anche chi vuole provare ad avere l’atomica si rende presto conto che basta un semiautomatico e sei il re del quartiere.
Pier Mauro: L’idea è che i ragazzi vogliano stare bene insieme. Ci sono le bande di razziatori, ma pure quelle stanno pian piano scomparendo perché alla lunga si rivelano sistemi deboli. Alla fine l’unione fa la forza.
Fabrizio: L’intenzione utopica sta proprio su questo: la distopia si basa sul fatto che, appena allenti un po’ le maglie, emerge la vera natura dell’uomo, predatoria e aggressiva. Secondo noi no! È il sistema economico che è predatorio, l’essere umano invece vuole stare in pace, vivere, stare con i suoi amici. Volevamo mettere in scena un mondo in cui la parte violenta non fosse l’esito primo e più naturale: è una parte, una delle tante. L’ultimo Purge, per esempio, mostra la genesi della purga e spiega che all’inizio gli organizzatori si aspettavano che tutti si ammazzassero a vicenda, e invece la gente festeggiava in strada. Per innescare l’evento il governo è costretto a mandare squadre di mercenari a fare violenze. È quella roba lì: se lasci libera la gente il primo pensiero non è «ora uccido quello lì»; è «raggiungo le persone a cui voglio bene e mangiamo e stiamo sotto un tetto». C’è poi da sottolineare la differenza tra Italia e America rispetto la violenza e le armi…
Simone: Nel libro i personaggi usano la parola «americano» per dire uno «trigger-happy», inutilmente violento e armato. E poi c’è un momento in cui Olga dice: «Non voglio ripensare ai video che sono arrivati dall’America» e ci immaginiamo cosa possa essere successo dopo il Blocco in una società in cui le armi sono così diffuse. Anche in quel caso, comunque, dopo il casino iniziale, qualcuno avrà trovato una strada di maggior buon senso.
Nel nuovo mondo le strutture politiche e sociali si sono dissolte perché sono scomparsi gli interessi che le tenevano in piedi. E senza gli interessi non sono più utili a niente e a nessuno.
Parlando di americani, in Millennials gli stati-nazione sembrano scomparsi. Non si parla molto di «Italia».
Simone: La parola «Italia» e «italiano» l’abbiamo tolta ovunque, se non sbaglio. Sì, l’abbiamo tolta.
Fabrizio: C’è la scomparsa totale degli stati nazionali. Il senso è che nel nuovo mondo le strutture politiche e sociali si sono dissolte perché sono scomparsi gli interessi che le tenevano in piedi. E senza gli interessi non sono più utili a niente e a nessuno. Le strutture che rimangono in piedi sono le comunità, i luoghi in cui tocchi con mano il tuo mondo e lo influenzi; e poi il pianeta, e quindi il Syn.
Pier Mauro: Alla fine in ogni post-apocalittico ci sono le bande e le piccole comunità. La nostra differenza è il Syn, la messa in rete di queste comunità.
La struttura che sparisce all’improvviso lasciando spazio al mondo nuovo la si vede anche nella sessualità, liquida e non binaria. Il cambiamento è quindi totale, senza gli adulti, le loro norme e i loro tabù.
Pier Mauro: La sessualità è completamente libera. Non c’è pregiudizio di genere né razziale.
Simone: Tutte queste cose, come diceva Fabrizio, perdono d’importanza, e lo stesso avviene con le religioni, che dopo un evento così assurdo e paranormale, vengono scardinate. Non dico che siano sparite le religioni tradizionali, ma hanno fatto un significativo passo indietro e non condizionano in modo così determinante le vite dei ragazzi. Ogni volta che accenniamo a una religione, in Millennials, è una religione dei bloccati.
Fabrizio: Tutte queste strutture, una volta dissolte, si tradiscono come artificiali e oppressive. Mentre noi siamo immersi in una società che ce le fa sembrare come naturali e inevitabili.
La fantascienza è un mondo parecchio americano (per quanto anche l’Italia abbia una splendida tradizione di genere): che differenze avete trovato tra l’approcio tradizionale e uno all’italiana?
Simone: La familiarità con la violenza è senz’altro un tratto importante. Nei prodotti americani prima o poi tutti sparano e tutti lo sanno fare e noi ormai ce lo beviamo, è fiction e va bene così. In Italia è strano vederci che prendiamo un mitra e spariamo ovunque. Se non altro dopo un po’ capiremmo che non siamo capaci di usarlo, lo poggeremmo a terra e cominceremmo a fare a pugni.
Fabrizio: Il mito americano del West è tutto loro ed è ancora presente. A loro piace l’apocalisse perché implica un ritorno al mito del Far West, in cui non c’è più lo Stato a dirmi cosa devo fare, non ci sono le tasse da pagare… Ci sono io, il mio cavallo, e il mio fucile… Provano un godimento segreto in queste apocalissi individualizzanti. Noi abbiamo avuto l’Impero Romano, una storia violenta, certo, ma in una cornice di civiltà.
Simone: Qui non siamo frontiera da qualche migliaio d’anni. Quando ho cominciato a scrivere i capitoli di prova, per default parlavo di vaste pianure solitarie, «si vedeva un comignolo in lontananza»… Poi, dato che non sono proprio di Bergamo, sono andato a fare dei sopralluoghi, a vedere dal vivo, e ho scoperto che tra Milano e Bergamo più di cento metri senza un capannone non li trovi. Quindi tutta la scena cambia. In una giornata di cammino Olga attraversa diversi paesini, non è mai davvero circondata dalla natura come nei post-apocalittici americani.
Arriviamo così alla geografia, visto che il nord Italia – la Lombardia – la fa da padrone. Ad esempio, Trezzo e la sua centrale idroelettrica svolge un ruolo importante nella storia.
Fabrizio: La conoscevamo, io c’ero stato più volte ma per me era un oggetto da archeologia industriale, un buon set: infatti viene spesso usata per i cortometraggi.
Simone: Poi con una ricerca da survivalist, da prepper, l’abbiamo individuata come luogo strategico dopo il crollo delle infrastrutture.
Pier Mauro: Ci siamo stati per un sopralluogo con Simone.
Simone: Anche perché ha una struttura orografica matta, se vista su Google Maps non la si capisce. È tutta sali e scendi, sembra l’arena di un videogioco e ci ha conquistato… Infatti s’è presa pezzi interi di libro.
A questo punto l’inevitabile domanda sul titolo, con la quale torno all’argomento iniziale: come avete scelto un titolo che andasse bene a voi quattro e all’editore?
Pier Mauro: Millennials era il titolo della serie che volevamo proporre quattro anni fa. Una volta passati al formato libro, avevamo dato per scontato che sarebbe cambiato, ma poi è rimasto lì…
Simone: Coi titoli provvisori c’è sempre il pericolo che «si attacchino».
Pier Mauro: A me Millennials piaceva perché è solido e di un’arroganza infinita: non solo prende una parola modaiola ma la usa col significato sbagliato!
Simone: Sì sappiamo bene che i millennials non sono la generazione del libro, eh, c’è un’ambiguità voluta nel termine…
Pier Mauro: Comunque eravamo indecisi, a qualcuno piaceva di più a qualcuno di meno, ma a Mondadori piaceva e hanno proposto di aggiungere il sottotitolo «Il mondo nuovo».
Fabrizio: Ok, però Pier sta minimizzando: in realtà abbiamo fatto un brain storming allucinante, mesi e mesi di discussioni, quindi quando Mondadori ci ha detto di tenerlo per noi è stata una cosa enorme.
A quali altri titoli avevate pensato?
Pier Mauro: Tutte le stelle sono più vicine, Pollen, Il rumore degli anni, La primavera del Syn, e cento altri che adesso non ci ricordiamo…
Simone: È strano perché nei primissimi capitoli c’era una frase tipica da post-apocalittico che era tipo: «Le stelle si erano avvicinate tutte come occhi di animali curiosi…», e a Pier era piaciuta molto. Poi è uscita questa canzone di Kendrick Lamar che dice «All the stars are closer», un personaggio chiave si chiama Stella… E a quel punto Tutte le stelle sono più vicine sembrava il tipico titolo spontaneo.
Pier Mauro: Per me è cambiato tutto nel momento in cui è apparso il sottotitolo «Il mondo nuovo». Da lì mi sono convinto definitivamente.
Fabrizio: A me invece non è mai piaciuto come titolo. Mai. «Il mondo nuovo» lo migliora, cioè, me lo rende accettabile. Senza di quello proprio no. Preferivo Tutte le stelle sono più vicine o titoli più lirici, Millennials mi sembrava un titolo da saggio divulgativo.
Tornando sempre alle otto mani: avete litigato? E su cosa?
Pier Mauro: Ah beh, su tutto, tutto il libro. Pezzi del libro nascono proprio così, dallo scontro.
Simone: Un esempio macroscopico era la mia naturale resistenza all’utopia. Loro mi dicevano «è un utopico» ma io, quando mi mettevo a scrivere, tendevo a non esserlo: l’utopia è una scelta chiara, una direzione per cui, come diceva Fabri prima, la gente sceglie che prima di ammazzarsi per le risorse c’è un altro modo. Ma a me veniva spontaneo scrivere personaggi molto più violenti in un mondo molto più cane mangia cane. È quel modo di essere ingenuamente cinici sforzandosi di non essere ingenui, no? Mi trovavo con un personaggio femminile che doveva attraversare da solo cinquanta chilometri di campagna e pensavo «deve avere un fucile carico», mentre alla fine siamo giunti a una protagonista che viaggia da sola col fucile scarico. Perché se la sa cavare e perché il suo tatuaggio di medico, nonostante tutto, la protegge quasi sempre. Ed è una scelta: mostrare un mondo in cui alla fine il buon senso e il bisogno di cooperare hanno le meglio. A poco a poco ho capito che la via americana al post-apocalittico è estremamente ideologizzata, per niente realistica. Generalizzo, posso? Gli americani si sballano con l’individualismo e per loro l’unica soluzione che funziona davvero è lo sceriffo di The Walking Dead che rimette tutto a posto a fucilate perché ha la forza di farlo. Tutto il resto, la chiacchiera, la composizione, la condivisione, sono solo modi di ritardare il problema, far suppurare la ferita. Ho generalizzato.
A questo punto vorrei parlare di Milano e del suo ruolo…
Simone: Ah, ecco un altro litigio che abbiamo avuto: [SPOILER ALERT] il Bosco Verticale! Voi non lo volevate, dicevate che è il male e non volevate metterlo sul piedistallo. C’ho messo un botto di tempo a convincervi promettendovi che lo avremmo visto sfondato, incendiato, distrutto…
Il Bosco Verticale è il male?
Pier Mauro: Beh, è ambiguo… A me però sembra di ricordare che mi hai convinto subito, perché comunque mi piace sia così… Finora tra chi ha letto il libro in anteprima c’è chi era felice perché il Bosco era simbolo del Male e altri che si son lamentati perché è il luogo del Bene. Per me il Bosco Verticale è entrambe le cose e il libro a suo modo lo riflette dandogli un valore ambivalente.
Fabrizio: Volevamo però evitare una scena tipo scontro finale alle cascate del Niagara, volevamo scegliere un luogo iconico ma non bellissimo. Volevamo che mantenesse una certa ambiguità.
Anche perché a quel punto la natura avrebbe preso controllo della città e il Bosco Verticale non sarebbe l’unico edificio pieno di piante…
Simone: Anzi, le piante del Bosco sarebbero morte e cascanti.
Pier Mauro: È una natura morta. [FINE SPOILER ALERT]
Le città comunque sono questo luogo selvaggio e malefico, terra di bloccati e pericoli vari.
Simone: Non sono luoghi autosufficienti. Una volta svuotati i supermercati, per piantare una piantina serve un martello pneumatico. E una volta che tutti se ne sono andati, diventano posti di bloccati e animali selvaggi che se li mangiano. Per esempio, Fabri e Pier fino all’ultimo hanno insistito per avere un incontro in città con uno svitato, uno che è rimasto per tutto quel tempo lì, e sarebbe stato bello ma purtroppo non c’era più spazio. Il libro è densissimo e questo è l’esempio perfetto di una cosa per cui non c’era più spazio.
È una scelta: mostrare un mondo in cui alla fine il buon senso e il bisogno di cooperare hanno le meglio.
Nel nuovo mondo non sembrano esserci (ancora) gli effetti del riscaldamento globale. Forse perché parla di un futuro troppo vicino?
Pier Mauro: In realtà il riscaldamento globale c’è.
Fabrizio: Ma è poco visibile.
Pier Mauro: Il libro copre in tutto circa due settimane e se guardi ci sono sbalzi di temperatura abbastanza assurdi. La neve alla fine non l’abbiamo messa, giusto?
Simone: No, però comincia che fa freddo, poi fa caldo, poi piove, grandina, poi caldo ancora…
Fabrizio: Se metti in fila tutti i fenomeni atmosferici nell’arco temporale in cui si sviluppa la storia, realizzi che il tempo è completamente fuori controllo.
Pier: abbiamo anche chiesto un consiglio agli amici di MEDUSA. Conta che siamo tra fine aprile e inizio maggio, è una primavera impazzita.
È vero, bisogna tenere conto di quanto poco duri in realtà la vicenda. Questo cambia tutto.
Simone: È l’effetto del modo in cui i capitoli si alternano perché molto spesso sono contemporanei. Sono quasi 60 capitoli per una storia che dura circa 20 giorni. C’è un uso del trapassato che fa sì che temporalmente l’inizio di un capitolo si sovrappone ai capitoli precedenti, poi si passa al passato remoto e la timeline, diciamo, ricomincia a scorrere.
Ultima domanda (o quasi): vecchi di merda, sì o no?
Simone: Sì, e siamo noi.
E infine una domanda piena di SPOILER per chi ha già letto il libro: parliamo di Bob, il bambino «bloccato» fatto nascere da Olga. Da dove viene? Chi è? Il fatto che abbia due genitrici è un fatto voluto?
Pier Mauro: Bob è nato in modo abbastanza cinico…
Fabrizio: Come dispositivo narrativo.
Simone: I bloccati, essendo tutti collegati a livello globale, sono una rottura di cazzo incredibile, dal punto di vista drammaturgico. Perché puoi anche picchiarne uno ma se quelle botte le spalmi su cinque miliardi di individui, non esistono più. E quindi ci faceva comodo avere un epicentro, un nervo scoperto, un primus inter pares, che permettesse di interagire anche sul piano fisico con i bloccati.
Fabrizio: Ma Bob era anche un gioco sul genere, che prevede l’eletto, il prescelto, il ponte tra due mondi, «il DNA del bambino servirà a…». È anche un gioco con il lettore appassionato di fantascienza, per cui proiettiamo subito sul bambino una serie di cliché narrativi…
Simone: Senza Bob il momento dell’ira dei bloccati sarebbe stato random, la goccia che fa traboccare il vaso sarebbe stata davvero una goccia, magari uno schiaffo in Giappone. Un evento irraccontabile. Questo gioco di cui parlava Fabri col lettore è dove entra il personaggio di Stella, quanto torna e dice che i Bloccati hanno un cuore, un centro che se ammazzi quello ammazzi tutti. Che è il modo in cui ne escono tutti, dai droidi de La Minaccia Fantasma a Indipendence Day passando per tutte le menti collettive, tutte cose fatte da americani che non riescono a non essere individualisti e mettono sempre un primus inter pares, appunto, uno switch che ti permette di spegnere tutto. Per questo tutti credono a Stella quando suggerisce il suo piano.