Airbnbfication!
Tra le opere di finzione che, negli anni più recenti, hanno tentato di fornire un punto di vista critico su uno dei tratti endemici della «città neoliberista» (la sua disuguaglianza sistemica), Shameless ha il merito di restituire un ritratto abbastanza fedele dello stato dell’arte in cui versa buona parte delle realtà urbane che attraversiamo quotidianamente. La parabola white trash dei Gallagher, scandita da fame, indigenza, permeabilità alle malattie psichiche e accumulazione di debiti, non costituisce di per sé un fattore di novità: il tema della famiglia disfunzionale alle prese con le degenerazioni del tardo capitalismo e l’erosione delle politiche distributive di welfare è un topos caro alla serialità americana, soprattutto per quanto concerne il genere comedy. Già Malcom in the middle, seppur collocato in una dimensione di classe leggermente più prominente (la famiglia Wilkerson, protagonista della sitcom ideata da Linwood Boomer, afferisce limpidamente alla working class, mentre la collocazione sociale dei Gallagher di Shameless è da ascrivere a uno status inferiore, quasi assimilabile ai paradigmi tipici del lumpenproletariat di marxiana memoria), ci aveva abituati a viscerali – e, alle volte, terribili – scandagli sull’indifferenza delle istituzioni americane nei confronti di chi abita i piani più bassi della piramide sociale, sintetizzando al meglio la valenza di quel Life is unfair con cui si chiude Boss of me dei They might be giants, la sigla di apertura dello show; decisamente più interessante è, invece, il modo in cui la serie tv Showtime indaga il rapporto tra indigenza e esplorazione dello spazio urbano.
La precarietà propria delle periferie che circoscrivono la Chicago messa in mostra da Shameless consente di osservare l’intelaiatura classista della città dall’angolatura sfavorevole di quelle collettività a basso reddito che, nel corso del tempo, sono state relegate ai suoi confini periferici. Nella quinta stagione assistiamo al progressivo processo di imborghesimento dello slum in cui prende corpo la quasi totalità delle vicende narrate, il South Side, un quartiere di tradizione operaia storicamente abitato da famiglie di emigrazione europea, proprio come gli irlandesi Gallagher. Tra i cumuli d’immondizia e gli elettrodomestici abbandonati che compongono la usuale scenografia urbana del ghetto, cominciano a fare capolino elementi di rottura, come negozi vintage, orti comunitari, scuole di yoga e caffetterie biologiche; nel frattempo, le fatiscenti villette a schiera di Wallace Street vengono cedute a liberi professionisti provenienti dal centro e il bar Alibi, l’ultimo focolaio di resistenza all’inevitabile rincaro del costo della vita, subisce inerme la colonizzazione di una torma di hipster attratti dal suo aspetto decadente, disposti a spendere fino a trenta dollari per un solo Roasted Cherry Bourbon Smash.
Quando Sheyla gli fa presente che una facoltosa coppia lesbo sarebbe disposta ad acquistare la loro casa al doppio del proprio valore immobiliare, Frank – il personaggio più abrasivo ma, al contempo, politicamente consapevole dell’universo narrativo di Shameless – non esita a scoperchiare il vaso di Pandora, prodigandosi in un’accorata apologia delle radici low class del proprio quartiere: «Una volta i poveracci potevano possedere un appartamento decente a pochi passi dal centro; improvvisamente, tutto si è spostato di quaranta isolati verso sud, poi ottanta: dove andremo a finire? Alla fine ci ritroveremo in un campo da qualche parte al confine della civiltà, una tendopoli costruita su un terreno arido o una discarica tossica, e allora ci passeranno le coperte contaminate dal vaiolo». Il monito di Frank, per quanto facilone e mosso da ragioni di tornaconto personale (nello specifico, la costruzione di un birrificio clandestino da allogare nel sottoscala della villetta di Sheyla), interseca le preoccupazioni di buona parte del sottoproletariato urbano occidentale contemporaneo, sempre più emarginato da un’emergenza abitativa che, in diverse metropoli degli Stati Uniti, ha finito con l’assumere le proporzioni di una vera e propria crisi umanitaria: il South Side stava sperimentando sulla propria pelle i prodromi di quel processo conosciuto come gentrificazione, ossia, riprendendo la definizione di Jason Hackworth, la «produzione dello spazio urbano a uso e consumo di utenti progressivamente più ricchi».
Come sottolinea Giovanni Semi in Gentrification. Tutte le città come Disneyland?,i brodi primordiali delle trasformazioni urbane che hanno investito le città occidentali affondano le proprie radici nella seconda metà dell’Ottocento. La metamorfosi cittadina più celebre dell’epoca moderna è rappresentata dall’haussmanizzazione di Parigi, ossia la violenta opera di «distruzione creativa» che il prefetto della Senna Georges-Eugène Haussmann – che, non a caso, si attribuì arbitrariamente l’etichetta di «artista demolitore» – portò a compimento nella capitale francese tra il 1853 e il 1870, sotto l’attenta direzione di Napoleone III. Il progetto si sostanziò in una serie di sventramenti che interessarono una parte significativa del centro cittadino, operati a un duplice obiettivo: da un lato, eliminare le aree fatiscenti della città, trasformatesi in pericolosi serbatoi di rabbia sociale poiché dimora di quelle classes dangereuses – come le denominò Louis Chevalier – che si erano affacciate sul proscenio politico con le rivolte del 1848 e che furono definitivamente soppiantate nel maggio del 1871, all’indomani del rovesciamento della Comune di Parigi; dall’altro, ridefinire la circolazione viaria, creando le premesse per il mito della ville lumière attraverso la costruzione di un’iconografia urbana dal forte contenuto simbolico, dominata da ampi parchi e sconfinati boulevard (elementi che oggi riconosciamo come intimamente parigini). Scrive Semi: «Con l’haussmanizzazione di Parigi è la città occidentale che viene ridefinita, ricodificata. Da quel momento in poi architetti, pianificatori, attori politici, ambasciatori, critici, artisti, turisti e viaggiatori avranno un metro di paragone per giudicare il luogo da cui provengono e per cogliere quali distanza li separi dalla città che desiderano». Haussmann inaugura le prime pratiche di espulsione delle classi popolari dal centro della città, confinando il proletariato urbano nei quartieri periferici e vanificando qualsiasi possibilità di insurrezione sociale, riconducendo i gruppi sociali subalterni all’interno di una organizzazione spaziale di classe. Tuttavia, al netto dell’indubbia rilevanza che esercitò nel ridefinire i rapporti di forza tra centro e periferie, l’haussmanizzazione fu un processo eterodiretto dall’alto, quasi un intervento di ricostruzione postbellica, in cui il movimento spontaneo dei residenti occupò un ruolo soltanto marginale. A vantare la paternità del concetto di gentrification – che deriva da gentry, parola utilizzata per definire la piccola nobiltà di campagna inglese – è invece Ruth Glass, una sociologa tedesca di ispirazione marxista che, nel suo pamphlet London: aspects of change, osservando l’invasione dei quartieri popolari di Londra da parte delle classi medie all’inizio degli anni Sessanta, descrisse una trasformazione abitativa la cui manifestazione fondamentale era rappresentata da un ricambio nella popolazione di queste aree che generava, a sua volta, una trasformazione degli interni delle case, testimoniata da tutta una serie di interventi tipici (come l’abbattimento dei muri divisori e l’abolizione della distinzione tra tinello e cucina che, viceversa, erano elementi piuttosto comuni nelle case abitate da famiglie operaie in condizione di sovraffollamento), che alterava il loro valore immobiliare, contribuendo a plasmare la natura sociale di quei quartieri.
Pur trattandosi di una problematica di portata globale (si stima che il 25% della popolazione urbana mondiale viva in insediamenti informali; con riferimento ai soli Stati Uniti, ogni anno, oltre 2 milioni di famiglie vengono sfrattate dalle loro case: una media vertiginosa di 4 al minuto), nel caso di Shameless il collegamento con la contemporaneità è piuttosto serrato: infatti, sebbene la gentrification sia un fenomeno tipico di molte realtà urbane statunitensi, quello di Chicago rappresenta a tutti gli effetti un worst case scenario, contraddistinto dall’estrema violenza con cui, nel corso del tempo, è stato dato seguito allo sfollamento dei residenti.
All’inizio degli anni Trenta, la Home Owners ’Loan Corporation (HOLC) promosse una politica di segregazione socio-spaziale dalle tinte fortemente xenofobe, conosciuta come redlining. I quartieri della città vennero suddivisi e mappati sulla base della loro appetibilità per investimenti futuri: quelli marcati in blu, verde e giallo erano considerati meritevoli di ricevere un finanziamento; di contro, quelli evidenziati in rosso venivano etichettati come hazardous, zone che i capitalisti di ventura avrebbero dovuto evitare a ogni costo, poiché si riteneva che la maggiore densità di popolazione afroamericana presente in quei luoghi avrebbe, giocoforza, prodotto l’effetto di deprimere il mercato. Di conseguenza, le possibilità che un residente di una red zone potesse ricevere un mutuo vennero completamente azzerate: sottofinanziate, confinate in quartieri ghetto e separate dal cuore pulsante della città, le minoranze etniche imboccarono il destino di una spirale di marcata esclusione sociale, sperimentando un regime di apartheid istituzionalizzata che, per molti versi, continua a produrre riverberi ancora oggi.
I dati dell’Atlantic certificano che, tra il 2000 e il 2015, i salari medi per i lavoratori afroamericani residenti in città sono diminuiti di circa il 17%; inoltre, secondo le stime di Crain’s, Chicago è la prima città in termini di concentrazione di ricchezza degli Stati Uniti: l’1% dei residenti guadagna oltre 600mila dollari ogni anno, contro il 21% della popolazione che vive al di sotto della soglia di povertà. Ad aggravare ulteriormente il quadro è l’emergenza abitativa: la città ospita circa 80.000 homeless e, secondo il report stilato da Out of Reach relativamente all’anno 2019, per potersi permettere l’affitto di un appartamento con due camere da letto, una famiglia autoctona che tira a campare con un minumum wage di 10 dollari l’ora ha bisogno di lavorare per almeno 101 ore a settimana. Il consolidamento della sharing economy ha contribuito a esacerbare una situazione già piuttosto deleteria: allo stadio attuale, i servizi di home sharing – Airbnb in testa – rappresentano una fonte di reddito indispensabile per un numero crescente di cittadini che per poter sbarcare il lunario si sono visti costretti a condividere la propria casa. Secondo un rapporto pubblicato da Airbnb nel giugno del 2015, i guadagni supplementari che scaturiscono dall’utilizzo della piattaforma costituiscono un aumento del 14% per le entrate della famiglia della classe media. A Chicago, nel solo 2017, gli host di Airbnb hanno accolto 500.000 ospiti, un aumento significativo rispetto ai 390.000 segnalati nel 2016; dal 2009 al 2015, la percentuale di host è più che raddoppiata ogni anno.
Quello di Chicago non è un caso isolato: la piattaforma di alloggi sta riconfigurando l’assetto delle economie urbane di tutto il mondo, ed è sotto attacco in un numero crescente di città a causa dei suoi effetti in termini, tra gli altri, di sfasamento dei valori immobiliari, sfollamento dei residenti e disuguaglianze socioeconomiche e spaziali. L’aumento esponenziale di alloggi Airbnb riduce drasticamente l’offerta di abitazioni in affitto a lungo termine, portando il loro prezzo a salire alle stelle e creando le premesse per una vera e propria diaspora degli autoctoni, espulsi dal centro dalla diffusione della gentrificazione digitale, suffragata dalla presenza di una corposa deregolamentazione. Gli esempi sono molteplici: secondo un rapporto del dipartimento del bilancio di New York, i canoni di locazione sono aumentati di pari passo con la consolidazione di Airbnb, facendo registrare una crescita del 25%; una ricerca promossa dal dipartimento di economia dell’Università di Boston ha individuato un nesso di causalità tra la proliferazione della piattaforma di home sharing e i prezzi delle abitazioni: a ogni 12 annunci per zona censuaria corrisponde una perdita di case sul mercato ordinario del 5,9%, un aumento dei canoni di locazione dello 0,4% e un aumento dei valori immobiliari dello 0,76%. A Barcellona, quinto mercato al mondo per gli affitti di Airbnb, nel solo 2015 la piattaforma ha messo in contatto 9.200 proprietari con 889 mila ospiti, con un fatturato di 740 milioni di euro; uno studio pubblicato dall’Università di Amsterdam nel 2016 ha rilevato che, in un lasso temporale di 12 mesi, i prezzi delle case sono aumentati dello 0,42% ogni volta che la densità di Airbnb è aumentata nel raggio di un chilometro quadrato; nel 2018, la capitale olandese si è vista costretta a limitare gli affitti brevi a un periodo di soli trenta giorni l’anno.
In Italia, dove Airbnb prolifera incontrollata, le città d’arte sono sempre più gestite alla stregua di beni di lusso da posizionare sul mercato globale. Secondo un’indagine condotta dall’Università di Siena, Firenze (che, come racconta Wolf Bukowski in La buona educazione degli oppressi, ha intrapreso un percorso di privatizzazione degli spazi pubblici ormai incontrovertibile) è la città autoctona con la più alta concentrazione di case Airbnb nel centro storico (il 18%); tuttavia, il caso più paradigmatico è rappresentato dalla disneyficazione che ha interessato Venezia. La città dei Dogi ricorda in maniera sempre più inquietante Takaramachi, la metropoli fittizia in cui prendono corpo le vicende di Tekkonkinkreet, la celebre serie a fumetti di Taiyō Matsumoto, colonizzata dalle multinazionali e travolta da un processo di gentrificazione selvaggia eterodiretto da Snake, comandante in capo di Kiddy Kastle, un’organizzazione facente capo alla yakuza, che, dopo aver costruito una colossale sala giochi nello slum in cui Kuro e Shiro, protagonisti della serie, sono nati e cresciuti, fomenta un clima di guerriglia urbana allo scopo di sfollare i residenti e farne un luna park a cielo aperto. I dati riguardanti l’evacuazione degli abitanti del centro storico della Serenissima sembrano riecheggiare uno scenario di pura distopia, eppure corrispondono al vero: dal secondo Dopoguerra a oggi, la popolazione di Venezia è crollata del 47%, passando da 175.000 a 56.000 residenti. Secondo i dati di Inside Airbnb, il 12% delle case nella città storica è affittato a turisti per tutta la durata dell’anno. In un anno gli annunci sono aumentati del 14% e, avendo saturato il centro, Airbnb si espande in ogni direzione, anche sulla terraferma: dal 2015 al 2017, a Mestre e Marghera gli appartamenti affittati a uso turistico sono addirittura decuplicati, passando da 300 a 3000. L’impatto della gentrificazione digitale ha trasformato Venezia in una Disneyland triste, dipendente in toto dalla monocoltura turistica: una sensazione acuita dall’installazione di tornelli in via sperimentale, che avrebbe dovuto avere lo scopo di limitare l’afflusso turistico e preservare la capacità di carico della città.
Possiamo tentare di inquadrare il fenomeno Airbnb prendendo in prestito l’armamentario concettuale di cui Nick Srnicek si è avvalso nel suo Platform Capitalism, tradotto in Italia con il titolo di Capitalismo Digitale, nel tentativo di sistematizzare la complessa geografia che connota lo sfaccettato panorama del capitalismo immateriale. Secondo Srnicek, le piattaforme si configurano come infrastrutture digitali che permettono a due o più gruppi sociali di interagire tra loro, posizionandosi come intermediarie tra utenti differenti. Il coautore del Manifesto accelerazionista individua l’elemento centrale dell’analisi delle piattaforme nella loro relazione con i dati, ovvero le registrazioni dell’attività degli utenti. Nella prospettiva di Srnicek, i dati rappresentano il nuovo «materiale grezzo» immagazzinato dalle imprese, e le piattaforme fungono da infrastruttura per la loro raccolta. A partire da queste premesse, Srnicek individua cinque tipi di piattaforme: quelle di advertising (come Google e Facebook), che acquisiscono informazioni dai propri utenti, svolgono analisi e traggono profitto dalla vendita di spazi pubblicitari; le piattaforme cloud (come AWSe Salesforce),che possiedono l’hardware e il software di aziende che dipendono dal digitale e li affittano a seconda del bisogno; le piattaforme industriali (come Siemens), che costruiscono l’hardware e il software indispensabili per trasformare la produzione tradizionale in processi digitali che diminuiscono i costi di produzione e trasformano beni e servizi; le piattaforme prodotto, che generano profitti utilizzando altre piattaforme per trasformare un bene tradizionale in un servizio, incassando in cambio un canone o una quota di abbonamento (come Spotify); e, infine, le piattaforme lean (le più interessanti ai nostri fini, poiché Airbnb può essere ricompresa in questa categoria), che cercano di ridurre la proprietà di attività al minimo, delocalizzando tutti i possibili costi e costituendosi come semplice interfaccia tra erogatori e utenti. Rispetto alle altre tipologie, le lean platforms si distinguono per profilarsi come una sorta di società senza patrimonio, avvalendosi di un «modello iper-delocalizzato, ove i lavoratori sono delocalizzati, il capitale fisso è delocalizzato, i costi di manutenzione sono delocalizzati e la formazione è delocalizzata». Per la sua consumata propensione all’outsourcing, Airbnb incorpora alla perfezione queste caratteristiche: pur rappresentando il più grande erogatore di servizi ricettivi al mondo, non possiede immobili, preferendo estrarre valore dall’ospitalità altrui; i suoi lavoratori non sono impiegati, ma collaboratori freelance, lavoratori usa e getta pagati a incarico e controllati attraverso sistemi legati al meccanismo della reputazione (per intenderci, qualcosa di molto vicino ai riders di Sorry, we missed you, l’ultimo film di Ken Loach). Come sottolinea Srnicek, «il mercato del lavoro tradizionale che più si avvicina alla piattaforma lean è antico e a bassa densità di tecnologia: il mercato dei braccianti – lavoratori agricoli, portuali, e altri che percepiscono un salario ridotto – che si presentano in un certo posto al mattino nella speranza di poter trovare un impiego per quel giorno. Analogamente, una ragione fondamentale per la quale i telefoni cellulari sono diventati essenziali nei paesi in via di sviluppo è che questi sono ora indispensabili per trovare impieghi attraverso mercati del lavoro informali. La gig economy, semplicemente, mette questi posti online e vi aggiunge uno stato di vigilanza onnipresente. Uno strumento di sopravvivenza è ora commercializzato da Silicon Valley come uno strumento di liberazione».
Da un certo punto di vista, Airbnb è il perfetto referente empirico di una sempre più spiccata tendenza alla compartecipazione dello spazio casalingo. Questa accresciuta attitudine alla condivisione degli spazi domestici è il sintomo di una congiuntura sociale, economica e psicologica in cui la prospettiva di mettere radici in un posto ben preciso è stata cannibalizzata dalla consolidazione di un perenne stato di necessità, precarietà e insicurezza, suffragato dalla nostra ineluttabile condizione di apolidi. Nel saggio Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani (qui un estratto), Gianluca Didino, recuperando l’eredità di Mark Fisher – in particolare la sua esplorazione dei concetti di weird e eiree – racconta come l’accettazione passiva della smaterializzazione che, negli ultimi anni, ha interessato il concetto di «casa» possa essere letta come il portato di una crisi dell’abitare reale e metaforica che connota fortemente la weirdness di cui la nostra contemporaneità è ammantata; se, fino a qualche anno addietro, possedere un tetto sulla testa rappresentava un traguardo raggiungibile dalla maggior parte delle persone, quasi un passaggio obbligato per una compiuta transizione all’età adulta, ai tempi del realismo capitalista la casa, intesa come spazio fisico dell’abitare e unità minima attraverso la quale gli esseri umani soddisfano il proprio bisogno di organizzare il territorio, ha finito per acquisire le fattezze di un non luogo: quasi senza rendercene conto, abbiamo trasformato la nostra intimità in un bene di consumo permeabile alla logica della predazione capitalistica. Scrive Didino:
Aprire le porte della propria casa significava un tempo un atto di ospitalità, ma oggi è una maniera di arrotondare lo stipendio resa possibile dal capitalismo delle piattaforme. Solo un’epoca come la nostra, ossessionata dalla trasparenza, può accettare con tanta disinvoltura il fatto che sconosciuti vivano nella nostra abitazione con la fredda noncuranza con cui si vivono gli alberghi, come un semplice luogo di passaggio. […] Oggi la casa non è il luogo fisico in cui viviamo, perché nel capitalismo globalizzato ogni luogo è un non-luogo e tutto cambia troppo in fretta perché sia possibile mettere radici; non è la Terra, resa aliena e inospitale dal riscaldamento globale; non è il corpo, che è solo l’oggetto imperfetto che racchiude e limita il nostro desiderio; non è l’identità, resa problematica dall’ambiguità del concetto del Sé […] questo è il territorio ambiguo in cui prolifera il weird.
Eppure, è proprio a partire dal frame narrativo della condivisione degli spazi che Airbnb ha impostato il suo storytelling e edificato le proprie fortune, presentandosi come una forza dirompente in grado di «democratizzare il capitalismo» per sostenere una classe media sfiancata dalla crisi nel suo percorso verso l’emancipazione. Lo spiega molto bene Sarah Gainsforth in Airbnb Città merce. Storie di ordinaria resistenza alla gentrificazione digitale, sottolineando come la consolidazione del capitalismo delle piattaforme sia stata legittimata dalla riproposizione di tutta una serie di mitologie profondamente radicate nella mentalità americana: «il mito della classe media, del duro lavoro, delle pari opportunità. Il sogno americano per eccellenza, quello di possedere una casa, un sogno che per milioni di americani si è infranto con l’avvento delle politiche neoliberiste, e l’ideologia del merito individuale come fondamento teorico delle disuguaglianze crescenti. Il mito del pioniere alla conquista delle terre selvagge, che diviene il libero imprenditore alla scoperta della frontiera dello spazio digitale. Il mito del creativo, a cui l’ideologia dell’innovazione capitalista accredita molto più merito del dovuto per le immense ricchezze accumulate grazie alle imprese collettive di molti».
Negli ultimi anni, per fronteggiare le norme restrittive imposte da diverse amministrazioni cittadine, la piattaforma ha implementato sforzi e investimenti al fine di presentarsi agli occhi dell’opinione pubblica come un movimento costruito dal basso, servendosi di una retorica pseudo-comunitarista volta a mobilitare gli host contro le politiche urbane indirizzate a regolamentare la sua attività e tutelare il diritto all’abitare. Come ha osservato Alison Griswold in un articolo del 2016, nonostante il valore di 30 miliardi di dollari attribuitole da Yahoo Finance, Airbnb «continua a presentarsi come un’azienda paladina della classe media […] la buona della situazione, mentre i cattivi sono quelli che intralciano la strada dell’innovazione, in particolare la lobby alberghiera. […] Questa narrazione in realtà mostra qualche crepa».
In tal senso, l’esempio più significativo risale al 2015, l’anno in cui Airbnb portò avanti una feroce campagna di mobilitazione contro la Proposition F – una proposta di legge che, una volta legittimata dal voto degli aventi diritto, avrebbe introdotto una regolamentazione più rigida per gli affitti di stanze e case a breve termine all’interno della sua città natale, San Francisco. Nelle settimane precedenti lo svolgimento del referendum, la piattaforma stanziò una cifra iperbolica (8,3 milioni di dollari) a sostegno della campagna pro NO (tanto per rendere conto del divario nella forza economica tra le parti in campo, dall’altro lato dello schieramento – quello delle associazioni ricettive, degli inquilini e dei collettivi per il diritto all’abitare – la donazione più consistente, portata in dote da un sindacato alberghiero, ammontava ad appena 125.000 dollari), ottenendo una spettacolare vittoria con il 55% dei No. In un approfondito articolo Nicole Derse, fondatrice di 50+1 Strategies – azienda specializzata nella gestione, coordinazione e implementazione di campagne politiche, che Airbnb ingaggiò per influenzare le preferenze degli elettori e far naufragare la Proposition F – spiega come la sua strategia di persuasione fosse improntata sulla capitalizzazione delle preoccupazioni della classe media, dato che Airbnb «dava a queste persone in difficoltà un tetto sulla testa, si prendeva cura dei loro genitori malati e mandava i loro figli all’università con i soldi che guadagnavano affittando una stanza in più». Non a caso, lo slogan scelto per la campagna contro la Proposition F fu un telegrafico «Too extreme», a volere evidenziare come dare assenso alla limitazione dell’attività della piattaforma avrebbe significato privare migliaia di persone di un’indispensabile entrata extra (coerentemente a questa visione, Airbnb festeggiò la vittoria con una nota intitolata A victory for the middle class,pubblicata sul proprio sito e successivamente rimossa).
Lo stesso mito fondativo di Airbnb, descritto dalla giornalista Leigh Gallagher, editor-at-large della rivista Fortune, nel volume The Airbnb Story: How Three Ordinary Guys Disrupted an Industry, Made Billions … and Created Plenty of Controversy, sembra essere stato confezionato ad hoc per solleticare i sogni di scalata sociale di una classe media in affanno. Come racconta Gallagher, nell’ottobre del 2007, i due studenti Brian Chesky e Joe Gebbia, entrambi diplomati alla Rhode Island School of Design, stavano cercando di sistemarsi in pianta stabile a San Francisco, una delle città più inaccessibili d’America. Di fronte all’impossibilità di pagare l’affitto mensile (1150 dollari), si sono trovati a dover operare una scelta: capitalizzare o fare ritorno alla loro città natale. Dopo qualche settimana di brainstorming, i due decisero di puntare i loro sforzi sulla conferenza della Industrial Designers Society of America a San Francisco, che si sarebbe tenuta di lì a breve; erano consapevoli che, durante l’evento, si sarebbe registrata un’importante carenza di camere d’albergo e, quindi, decisero di affittare uno spazio nel loro appartamento dove le persone avrebbero potuto dormire su uno dei loro tre materassi ad aria per 80 dollari a notte, denominando l’iniziativa «AirBed & Breakfast»; in pochi giorni, tre clienti effettuarono delle prenotazioni («Erano entusiasti», ha raccontato Gebbia in un TEDTalk). Dopo aver ricevuto i primi feedback positivi, i due iniziarono a pensare a come trasformarsi in intermediari, utilizzando gli appartamenti di altre persone per accrescere il proprio capitale. Al progetto si aggiunse il programmatore Nathan Blecharczyk, un ex compagno di stanza di Gebbia ai tempi dell’università, con l’incarico di creare un sito dotato di un’interfaccia il più possibile user-friendly. Eppure, a dispetto di questa narrazione intrisa di ingenuità – l’idea di impostare il brand sull’utilizzo dei materassi a aria, se riletta con le lenti odierne, suscita quasi tenerezza – ed enfasi sugli elementi della meritocrazia, dell’amicizia e della creatività, senza le iniezioni di capitale della Silicon Valley, con ogni probabilità l’idea di Chesky e compagni sarebbe rimasta confinata all’interno del loro piccolo bilocale californiano. Dopo l’esperimento iniziale di San Francisco, i tre attuarono alcuni tentativi per instradare la loro idea sui binari del successo: il primo durante la SXSW Conference del 2008, in cui il sito ha ricevuto solo due prenotazioni (una delle quali dello stesso Chesky); Il secondo durante la Convenzione Nazionale Democratica di quello stesso anno (che si tenne a Denver), con risultati parimenti deprimenti. Profondamente indebitato, Airbnb aveva un disperato bisogno di finanziamenti; finanziamenti che, per loro fortuna, non mancarono: a capovolgere il quadro contribuirono infatti i 20.000 dollari portati in dote da Y Combinator (il più importante acceleratore di startup al mondo), i 585mila della Sequoia Capital e, ciliegina sulla torta, i 7,2 milioni della Greylock Partners. Nel 2011 arrivano 112 milioni di dollari investiti da alcuni fondi, tra i quali Andreessen Horowitz (già azionista di Twitter, Facebook e Groupon). Nel 2011 il sistema poteva registrare 50.000 annunci suddivisi tra New York e San Francisco; nel 2018 divennero 5 milioni in tutto il mondo e, nel 2019, ben 6 milioni, distribuiti in 191 paesi differenti. Come spiega Gainsforth, nel caso di Airbnb, la narrazione mitologica delle origini è servita a «spingere sotto il tappeto tutte le relazioni e i finanziamenti ricevuti» e a ribaltarne la «natura parassitaria e ambivalente» che la accomuna a buona parte della sharing economy.
La massima espressione di questa strategia di profonda immedesimazione con le istanze della classe media – e con le sue paure più recondite, in particolare quella di ritrovarsi senza un tetto sulla testa – si è avuta nel 2013 quando, a corollario di un post intitolato Belong Anywhere e pubblicato sul suo profilo Medium, Brian Chesky, cofondatore di Airbnb, si apprestava a presentare il nuovo manifesto ideologico della piattaforma, improntato sulla filosofia dell’appartenere a ogni luogo: «Diamo l’appartenenza per scontata. Le città erano villaggi. Tutti si conoscevano e tutti sapevano di avere un posto che potevano chiamare casa. Ma dopo la meccanizzazione e la rivoluzione industriale del secolo scorso, quei sentimenti di fiducia e di appartenenza sono stati rimossi da esperienze impersonali di turismo di massa. Abbiamo anche smesso di fidarci l’uno dell’altro. E così facendo, abbiamo perso qualcosa di essenziale su cosa significa essere una comunità. Dopotutto, le nostre relazioni con le persone saranno sempre la parte più significativa delle nostre vite […] In un momento in cui le nuove tecnologie hanno reso più facile tenersi a distanza l’uno dall’altro, le stiamo usando per avvicinare le persone. Attingendo al desiderio umano, universale, di appartenenza: il desiderio di sentirsi accolti, rispettati e apprezzati per quello che si è, ovunque ci si trovi. Appartenere è l’idea che definisce Airbnb». In questo modo, Chesky stava presentando la sua creatura come la soluzione a quelle stesse problematiche che ha contribuito a intensificare.
In una fase iniziale, l’azzeramento degli spostamenti e la desertificazione degli spazi portati in dote dall’avanzata della Covid-19 sembravano aver prodotto riverberi significativi anche sulla stabilità finanziaria di Airbnb: secondo il Financial Times, il valore stimato della società sarebbe precipitato da 35 a 26 miliardi di dollari, proprio nell’anno del debutto in borsa della piattaforma, atteso da Wall Street come l’evento della stagione. Tuttavia, l’emergenza ha dimostrato una volta di più come il ricorso all’artificio retorico Belong Anywhere permei ogni livello della strategia comunicativa di Airbnb: una delle sue manifestazioni più spudorate si è palesata nel momento più duro della pandemia da coronavirus, quando la piattaforma ha invitato i fruitori abituali dei propri servizi a inviare una kindness card (in soldoni: una donazione in contanti) agli host in difficoltà, aiutandoli a risalire la china in un periodo di estrema difficoltà, uniformandosi al leitmotiv neoliberale della «socializzazione delle perdite e privatizzazione degli utili» (una sfrontatezza acuita dalla circostanza che, solo tre mesi prima, il colosso dell’home sharing aveva incassato un maxi-assegno da un miliardo di dollari, gentile concessione di due nuovi investitori: il gigante del private equity Silver Lake e la società di investimento Sixth Street Partners). A marzo, l’azienda californiana aveva annunciato la predisposizione di due fondi, uno di 250 milioni di dollari (da riservare agli host) e uno da 17 milioni di dollari (diretto ai soli superhost, ossia i detentori di uno status speciale negli equilibri di classe dettati dalla piattaforma, che può essere acquisito attraverso l’adempimento di alcune condizioni particolari, tra cui l’aver registrato un tasso di cancellazione inferiore all’1%), senza però divulgare dati disaggregati utili a stimare l’esatto ammontare di questi aiuti, inciampando in un difetto di trasparenza macroscopico (Altreconomia ha provato a ottenere delucidazioni in merito direttamente dai referenti dalla succursale italiana del colosso, senza però ottenere riscontri significativi).
Agendo come acceleratore della gentrificazione, Airbnb ha dato sostanza all’intuizione pessimistica che Henri Lefevbre, prevedendo gli esiti catastrofici che sarebbero seguiti all’affermazione dell’urbano come paradigma dominante, aveva enucleato in un prezioso passaggio di Spazio e politica: «[…] questa espansione della città si accompagna a una degradazione dell’architettura e del quadro urbanistico. La gente è costretta alla dispersione, soprattutto i lavoratori, allontanati dai centri urbani. Ciò che ha dominato il processo di espansione delle città, è la segregazione economica, sociale, culturale. […] L’urbanizzazione della società si accompagna a un deterioramento della vita urbana». Il filosofo francese prefigurava uno scenario in cui l’impatto del Capitale sulla definizione dello spazio urbano avrebbe prodotto, come esito ultimo, la sua definitiva mercificazione; oggi, la sua premonizione ha assunto le fattezze di una profezia auto-avverante: la città, travolta dalla morsa divoratrice della finanziarizzazione che ha finito per investire anche un bene di prima necessità come la casa, si è trasformata in un mero oggetto di scambio e di profitto da posizionare sul mercato globale, frutto di una progressiva legittimazione del ricorso al mercato come strumento per fare fronte a necessità quotidiane e garantire le proprie condizioni di vita future. In un contesto in cui, da più di 150 anni, la ghettizzazione sembra costituire il naturale sbocco di qualsiasi politica urbana, riappropriarci del nostro «diritto alla città» – che Lefevbre concepiva, in primis, come diritto a un’esistenza non segregante – non sarà sufficiente, ma potrebbe rappresentare il primo passo da compiere per uscire, finalmente, dal realismo capitalista urbano.


